Se Lisistrata fa politica a scuola
Le donne che sciolsero gli eserciti
Atene, 431 a.C.: la città-simbolo della libertà e della democrazia, desiderosa di affermare la sua supremazia, entra in conflitto con la sua storica concorrente, Sparta, e con le sue alleate, scatenando la lunga ed estenuante guerra del Peloponneso. Nel 411 a.C., sull’onda emozionale di questi eventi e mentre Atene è squassata da un colpo di Stato oligarchico, Aristofane porta sulle scene il geniale progetto di Lisistrata. Ateniese, nutrita degli ideali della pòlis, Lisistrata decide di porre fine al conflitto con lo strumento che dalla pòlis ha appreso: convoca un’assemblea. Ma non è un’assemblea qualsiasi: ad essere convocate sono solo le donne, le donne di tutta l’Ellade, le donne i cui uomini si fronteggiano da nemici in guerra e che la guerra priva dei mariti, dei figli, di una vita normale. Alle compagne – non più nemiche – e per il raggiungimento della pace Lisistrata propone una singolare strategia di lotta: astenersi dal sesso. La reazione degli uomini non tarda ad arrivare. In un gioco di ruoli a tratti scanzonato e divertito, a tratti polemico e pensoso, Aristofane sovverte e travolge ipocrisie e luoghi comuni, smascherando i contenuti grotteschi e mostruosi di ogni guerra e riconducendo il conflitto entro i connotati simbolici di un corpo a corpo ancestrale tra la fisicità, la forza, il prepotente bisogno di fare degli uomini e l’intuito, la vitalità, la consapevolezza lungimirante delle donne. Dapprima indignati e furibondi, gli uomini si arrendono infine alla tenacia delle donne che, desiderose di amanti quanto gli uomini, conducono proficuamente le trattative di pace.
Rappresentare Lisistrata
Non stupisce che l’opera di Aristofane sia stata – nel corso dei secoli – rappresentata con successo o censurata con indignazione. Se il 28 giugno prossimo Tullio Solenghi debutta attesissimo come regista della commedia a Siracusa, in un cartellone di spettacoli classici tenuti insieme dalla trama robusta di una riflessione sulla guerra, andò male a Mario Prosperi (già sceneggiatore – con altri – dell’Odissea televisiva) la cui versione di Lisistrata fu censurata dalla Rai nel 1976, per essere ripresa solo vent’anni più tardi dal teatro stabile di Catania. Che un testo faccia discutere e susciti, in epoche diverse, sentimenti accesi e contraddittori, è il segno evidente del suo valore: la commedia aristofanea tocca nervi scoperti e non risparmia da reazioni forti lo spettatore di ogni tempo. E’ una incontenibile esplosione di sensualità e vitalità che si dipana però su molteplici direttrici; e se è gravissimo errore seguirne solo una, non è semplice tenere dietro a tutte senza disperderne la forza. Quando si vuol fare questo in una scuola, quando Lisistrata diventa oggetto innanzi tutto di studio di un laboratorio teatrale (alzi la mano chi, nella sua scuola, non ne abbia uno), le difficoltà sembrano crescere esponenzialmente. Eppure il gioco vale la candela, soprattutto in quest’epoca, in cui tristemente risuona il monito di “non si fa politica a scuola” e viene fatto di pensare perché, mentre era in corso un gravissimo colpo di stato, Aristofane potesse invece liberamente parlar di politica e uscirne perfettamente indenne e ritenere perfino di aver reso un ottimo servizio all’intera comunità, provando a rielaborare per tutti, dopo vent’anni, il trauma di una guerra lacerante e dolorosa, una guerra fratricida; consegnando alle generazioni future la lezione difficilissima e salvifica dell’ironia, la stessa che ha fatto sì che Radu Mihăileanu potesse girare un film esilarante e spaventoso come Train de vie (1998).
Il codice
Nel proporla agli studenti e alle studentesse, il primo problema mio (e di Giuseppe Bisicchia, l’amico attore che mi accompagna nelle scorribande teatrali con i miei allievi) è stato il codice. La comicità spregiudicata di Aristofane passa attraverso l’invenzione sbrigliata di situazioni paradossali e giochi di parole, che la cultura e la lingua dei nostri giorni spesso mortificano entro i confini angusti di una grossolanità farsesca estranea alla tessitura iridescente, irriverente ed estremamente esplicita del commediografo greco; e io non intendevo certamente censurarla. Ma ogni traduzione risultava pesante e i nostri giovani attori hanno dovuto per prima cosa riflettere sugli strumenti di decodifica, e restituire alla lingua la sua leggerezza, divertendosi con i doppi sensi quando è lo stesso Aristofane a condurre il gioco, soppesando le parole quando si ferma a pensare; e ripetendole identiche quando la traduzione e il portato deteriore del tempo ne avrebbero guastato l’integrità e la forza. Così le donne hanno giurato di rinunciare al péos e hanno difeso il loro kùstos, mentre gli uomini badavano a salvaguardare dalle bastonate delle agguerritissime mogli il loro proctòs. L’effetto scenico è stato irresistibile; quello collaterale emozionante: come avessero scoperto l’apritisésamo, ragazzi e ragazze sono entrati quasi increduli in una dimensione-altra della parola, non più etichetta ma – sorprendentemente – radar e detonatore. E l’area semantica della sessualità, vistosamente dominante in tutta l’opera, ha visto crollare rapidamente e senza alcun intervento di ruspa i muri ingombranti che ne segnavano i confini, rivelando inattese aperture verso campi insospettabilmente limitrofi.
Il gioco dei ruoli
Fra questi campi, quello proprio contiguo è rappresentato da uno scontro maschile-femminile di cui péos e kùstos, costantemente evocati, non sono che il segno più ingombrante. La dialettica tra la forza primitiva e monodirezionale esercitata dal maschio e quella mediata e versatile rivendicata dalla femmina è l’espressione leggibile di rapporti di potere unicamente incentrati sulla prevaricazione, ai quali Aristofane infligge il colpo raffinato di un fioretto, senza che le sue donne si trasformino in Amazzoni o Baccanti; che – anzi – parecchie fra loro sono sempre lì lì per cedere e scappar via dall’acropoli occupata, per trascorrere con i loro uomini un paio d’ore d’amore. Ma torna qui appunto con vigore la lezione magistrale sulla libertà di pensiero e di parola, che è il vero oggetto del contendere e che mette all’angolo la lettura unidirezionale di un femminismo ante litteram e di maniera.
Noi, i primi tempi di guerra, ci siamo sorbite, colla nostra pazienza, dagli uomini, qualunque cosa facevate, senza neanche poter brontolare. Non che ci compiacessimo di voi, vi avevamo capito a perfezione; e anche stando in casa, molte volte, si sapeva che voi in Assemblea prendevate le più sciocche decisioni, e con la pena in cuore chiedevamo sorridendo: “Beh, che avete deciso sulla tregua? Qual è il comunicato dell’Assemblea di oggi?”. “E che te ne frega?”, la risposta dell’uomo, “Vuoi star zitta?”, e io, zitta. (…) Venivamo a saperne un’altra, ancora più sciocca delle vostre decisioni, e allora chiedevamo: “Com’è, caro, che avete trattato questa cosa così da deficienti?” E lui, subito, un’occhiataccia e “Pensa al tuo telaio” (…) Pigliavate le peggiori decisioni e neanche vi si poteva consigliare. (…) Se adesso che parliamo con giudizio, vorrete a vostro turno aprire bene le orecchie e stare zitti, come noi abbiamo sempre fatto, forse vi rimettiamo sulla buona strada.
Ridotte al silenzio, queste donne hanno finito col perdere la consapevolezza di sé a furia di raccontarsi a loro stesse nell’unico modo in cui agli uomini piace vederle:
E cosa potremmo fare – di utile o glorioso – noi donne, che stiamo tutto il giorno lì sedute, incipriate, la gonna color zafferano, pittate, con la camicetta Cimberica dritta e le scarpe persiane?
In un paradosso solo apparente, la sofferta rinuncia al péos le mette di fronte alla consapevolezza di non essere solo kùstos e, per bocca di Lisistrata, così parlano infine alla presenza della Pace:
E’ vero che son donna, ma ho intelletto. Già di natura ho avuto un po’ di sale, poi ho ascoltato un sacco di discorsi di mio padre e dei vecchi, e a memoria non sto male. Dunque, voglio darvi in comune una bella strigliata. Voi che con la stessa bacinella versate libagioni sugli stessi altari, come fratelli, (…) e poi vi massacrate tra di voi, che siete Greci!
Il contenuto politico
Inibito, seppur temporaneamente, il sesso come veicolo unico di relazione, gli uomini sono costretti a cercare il contatto con le donne per il tramite della parola e finalmente ad ascoltarle. Liberata dal riflesso condizionato di una sessualità talmente ostentata da essere divenuta anche per le donne una maschera grottesca, la parola viene loro restituita nella pienezza del suo portato. Alle domande del Commissario, giunto all’acropoli per indagare sui misfatti e riprendersi il tesoro, Lisistrata lo affronta in un dialogo indimenticabile per spessore, chiarezza, disarmante acume:
COMMISSARIO: Ebbene, per Zeus, da voi voglio sapere intanto che cosa volete: perché avete sbarrato le porte dell’Acropoli?
LISISTRATA: Per mettere al sicuro i vostri soldi, e non darvi una causa di fare la guerra.
COMMISSARIO: Ah, perché? Noi per i soldi facciamo la guerra?
LISISTRATA: …la guerra e ogni sorta di intrallazzi! (…)
COMMISSARIO: Ma voi, come potrete far finire i molti impasticciamenti in cui ci troviamo e risolverli tutti? (…)
LISISTRATA: Pensa a una matassa: quando ci s’aggroviglia, noi, per rifarla su, attacchiamo i due capi a due fusi, uno di qua e uno di là. Così dipaneremo anche la guerra, se ci consentite, mandando ambascerie, una di qua e una di là.
COMMISSARIO: Con la lana, le matasse e i fusi pensate di fermare cose tremende? Dovete essere pazze!
LISISTRATA: Anche voi, se aveste un po’ di cervello, fareste tutto nella politica come facciamo noi con la lana.
COMMISSARIO: E come? Vediamo!
LISISTRATA: Primo, bisogna, come col vello grezzo della pecora, in un bel bagno lavar via tutto il sudicio della città; poi, steso sul tavolaccio, si batte per togliere i peli induriti e sfilare le spine; e quelli che s’impicciano e s’accriccano per arraffare poltrone, scardassarli col pettine e spelargli la testa; e la buona lana cardata metterla tutta insieme in un cestino, mischiandoci tutti, anche gli stranieri e gl’immigrati, se è brava gente, e chiunque paga le tasse, e anche, per Zeus, i nostri emigrati, chi in una città chi in un’altra, rendendosi conto che sono bioccoli della stessa lana, sparpagliati per terra qua e là, e dunque da ognuno cominciare a tirare il filo e ricongiungerli tutti qua in un filo unico, e poi farci un gran gomitolo e con questo, al telaio, un mantello al popolo.
La denuncia di Lisistrata non risparmia nessuno: non solo la guerra si fa per danaro, ma per danaro si fa ogni intrallazzo, ogni compromesso vergognoso. Via – allora – tutti i corrotti, come fossero peli induriti e sudiciume; resti nel cestino solo la buona lana, fatta anche di chi paga le tasse, degli stranieri, degli immigrati, come altrettanti fili con cui tessere un mantello per il popolo: immagine splendida, che emerge a poco a poco da un groviglio di lana grezza e spine, grandiosa e umile, ambiziosa e paziente come un’opera al telaio.
Abbiamo voluto che non solo Lisistrata, ma ogni donna la facesse sua: le nostre allieve qui hanno recitato passandosi le battute come un testimone, cedendole di tanto in tanto anche a qualche insegnante in sala. E’ stato un modo per non lasciarle sole, per accompagnarle in un messaggio forte che è politico e che, nel rimando inevitabile allo stato presente dei costumi degli italiani, oggi forse ci espone a un provvedimento disciplinare; mentre Aristofane – beato lui – l’ha fatta franca.
(Tutti i brani proposti sono nella traduzione di Mario Prosperi)
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