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Moderna Tiresia. Raccontare la transizione sessuale in un libro di poesie e in un incontro a scuola

 La poetessa Giovanna Cristina Vivinetto ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sul suo libro d’esordio, Dolore minimo, che affronta per la prima volta in Italia il tema della transizione sessuale. Pubblichiamo l’intervista che le è stata fatta in quell’occasione dal nostro collaboratore Daniele Lo Vetere.

1. Una cosa che ha colpito molto i ragazzi durante l’incontro a scuola – ne abbiamo poi parlato successivamente – è stato scoprire che non tutto quello che hai scritto è autobiografico, o meglio, non è immediatamente cronachistico. Mi spiego: nell’ultima sezione del libro si raccontano le reazioni di genitori, parenti, amici di fronte alla scoperta della transessualità della protagonista e sono reazioni in parte positive e in parte negative, di diffidenza, paura, incomprensione. Hai detto ai ragazzi che in questo caso non hai raccontato la tua esperienza, che è stata di profonda comprensione e sostegno da parte della tua famiglia, e hai spiegato di aver cercato di immaginare quale potesse essere la condizione di chi al contrario non ha avuto la tua fortuna. I ragazzi hanno fatto un po’ di fatica a comprendere: nel caso di un libro come il tuo, così scopertamente autobiografico, tutto doveva essere per forza “vero”. Pian piano ho cercato di farli ragionare sul fatto che anche le cose “inventate” sono vere, perché tu ti eri sforzata di immaginare una situazione del tutto reale e plausibile, ma per altri. Trattandosi della prima opera di poesia che in Italia affronta il tema della transessualità in modo esplicito, il tuo libro diventa per forza di cose emblematico di una condizione e non solo strettamente personale. Che rapporto c’è tra questi due piani? Quanto pesa la volontà di raccontarsi e quanto quella di fornire un modello, uscire allo scoperto, far parlare del tema anche in letteratura?

Tutte le scritture letterarie partono sempre da un dato (auto)biografico, esplicitamente esibito o volontariamente occultato. Sarebbe impossibile, infatti, separare l’esperienza biografica dalla pratica artistica, anche perché, nella gran parte dei casi, l’arte si fa interprete della vita stessa. Per quel che mi riguarda, la prassi poetica esige una certa “distanza” da quel che si vuole raccontare, un volontario allontanamento dall’epicentro sensibile della narrazione, poiché è proprio in quello scarto che la poesia trova la sua forza, l’opportunità di dispiegare completamente la sua efficacia comunicativa. Quindi, nonostante la mia poesia abbia assunto come punto di riferimento la tematica sociale della transessualità, è poi sforzo del poeta quello di distaccarsi dal tema per, paradossalmente, metterlo maggiormente “a fuoco”: così, partendo dalla mia storia, ho potuto anche abbracciare un contesto molto più ampio e “universale”, e fare in modo che, grazie alla poesia, tutti potessero rivedere se stessi in quel che ho scritto. Vita e poesia vanno dunque di pari passo e possono convivere nell’esatta misura in cui la seconda si faccia interprete (e risolutrice) delle contraddizioni della prima, rielaborandola e “sublimandola”.

 

2. Quale ragione ti ha spinto a scrivere la tua vicenda in versi e non, ad esempio, in forma romanzesca o di autobiografia o di diario? La scrittura in versi e la tua vocazione di poetessa sono iniziate prima della decisione di scrivere della tua esperienza di transizione o contemporaneamente? E se sono nate prima, come sono state modificate dalla decisione di affrontare questo tema?

Come ho già detto prima, la “vita vera” può diventare oggetto di poesia in virtù di quella sublimazione che soltanto la poesia, per via della sua intrinseca complessità tecnica, possiede. Sono sempre stata affascinata dalla parola poetica, prima ancora di capire di essere una persona transgender, e ho scelto proprio il mezzo poetico per narrare la disforia di genere perché sin da subito ho avuto l’impressione che fosse quello che meglio avrebbe reso la “potenza” di ciò che avrei voluto dire, evitando pericolose dispersioni che la prosa può causare. La transizione mi ha dato la possibilità di riflettere molto e a lungo sulla scrittura poetica, e lo stesso vale per il contrario: la poesia è stata per molti versi quasi una forma di “psicoterapia della parola scritta”, permettendomi di capire e dare un valore aggiunto all’esperienza di vita che mi son trovata ad affrontare.

3. Tramite gli exergo alle varie sezioni del libro, tracci una tua personale genealogia letteraria. So che, ad esempio, la Szymborska è stata importante perché con lei hai scoperto come la poesia possa essere piana, diretta, comunicativa, e questo è un tratto evidente del tuo libro. Mi interessa però soprattutto la genealogia di scrittori e poeti che hanno affrontato il tuo stesso tema o quello, diverso ma fratello, dell’omosessualità: Virginia Woolf, Jeffrey Eugenides, Adrienne Rich, Franco Buffoni, per non parlare poi della cultura classica e del mito di Tiresia, che è un po’ un archetipo mitico della transizione sessuale. Quanto contano per te queste letture, sia per la tua vita che per la tua poesia? Esiste un filo rosso sotterraneo nella tradizione occidentale che va portato alla luce?

Come ben sottolinei, sono certamente letture molto importanti e che ho affrontato in diversi momenti della mia vita, dall’adolescenza fino ad oggi. Tutti gli autori che hai citato, e le cui parole ho collocato ad apertura di ogni sezione di Dolore minimo, hanno costituito per me, in vario modo, dei punti di riferimento, non tanto (o non solo) dal punto di vista dell’ispirazione letteraria, quanto semmai nel tentativo di rintracciare in essi un discorso intertestuale sul “tema” e per la formulazione di una modalità espressiva in poesia che, pur partendo da alcuni precedenti, potesse risultare il più originale, personale e autentica possibile. Non so se esista un filo rosso sotterraneo, e probabilmente non posseggo le capacità critico-letterarie per individuarlo sapientemente, ma esistono le opere e quelle degli autori che ho citato, ad esempio, potrebbero essere un buon punto di partenza.

4. Nella prima poesia di Satura, Il tu, Montale scriveva: «I critici ripetono, / da me depistati, / che il mio tu è un istituto. / Senza questa mia colpa avrebbero saputo / che in me i tanti sono uno anche se appaiono / moltiplicati dagli specchi. Il male / è che l’uccello preso nel paretaio / non sa se lui sia lui o uno dei troppi / suoi duplicati». Leggendo il tuo libro questi versi mi sono tornati in mente, per due ragioni. La prima è che la moltiplicazione dei “tanti che sono uno” è anche l’esperienza che racconti in Dolore minimo, dove il dialogo fondamentale è tra il tuo “nuovo” io e quello “vecchio”, dove insomma l’io e il tu si confondono, dove i pronomi – il maschile e il femminile – si scambiano le parti e dialogano, dove la protagonista, che è dovuta rinascere una seconda volta, diventa “madre di se stessa”, anche se, come scrivi «madre atipica […] di una figlia atipica». La seconda è che Montale qui mi pare ironizzare su certe astrazioni critiche formalistiche e poi strutturaliste, che impedivano di attribuire le parole pronunciate al poeta e le attribuivano appunto a “istituti linguistici”, cose come l’emittente e il destinatario insomma. Tuttavia è pur vero che l’io che parla nella poesia e il tu cui ci si rivolge non coincidono con le persone fisiche, per cui, ad esempio, saremmo ingenui a pensare che la Laura dei versi di Petrarca sia proprio la Laura storica (di cui peraltro non sappiamo quasi niente, nemmeno se l’abbiamo correttamente identificata). Ecco, da questo punto di vista il tuo libro spariglia davvero le carte: il tu cui ti rivolgi sei te stessa, il pronome maschile e femminile e il dialogo fra di essi sono entrambi incarnati in te. In un certo senso, raccontando la tua esperienza di transizione, fai giustizia di colpo di tutte le astrazioni della critica e riempi di senso personale, esistenziale, i soggetti in gioco nel linguaggio poetico. Sei d’accordo? Soprattutto, quanto è stato consapevole per te, nel comporre, questo uso dei pronomi? E questa molteplicità – maschile, femminile, paterna, materna, filiale – dei pronomi e del linguaggio, quanta importanza ha rivestito, oltre che nella tua esperienza di scrittura, nella tua esperienza personale (se ti va di dirne qualcosa)?

Sono molto d’accordo con quello che dici. La moltiplicazione dei punti di vista, che si riflette nella lingua con l’uso dei pronomi personali, e che tuttavia confluiscono nell’unicità del punto di osservazione, è una delle peculiarità di Dolore minimo, dovuta in primis al tentativo di fondere insieme, nella medesima voce narrante, più esperienze poi racchiuse in una stessa identità raggiunta. Nel momento in cui ho scritto, tuttavia, non ero consapevole di tale caratteristica perché all’aspetto più meramente tecnico, all’inizio è prevalso quello maggiormente confessionale, di racconto di un’esperienza singolare in cui il risultato non è quello della rimozione di ciò che vi era “prima”, quanto semmai una pacifica conciliazione degli opposti come benefica promessa per acquisire una consapevolezza più alta. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, il passaggio dal maschile al femminile è avvenuto come si può anche dedurre da Dolore minimo in maniera assolutamente naturale. Il “nome” maschile ha lasciato il posto a quello femminile senza strappi né traumi, fino a raggiungere la luminosa certezza per la quale: “Di tutto quel fondersi violento / capii che darti spazio non fu / annullamento né mutilazione, / non fu rinuncia, non negazione: / fu cederti lievemente il passo, / farmi fiaccola della tua luce.”

5. Quali libri consiglieresti a un adolescente che volesse avvicinare il linguaggio della poesia?

Consiglierei sicuramente di leggere i grandi classici del Novecento, italiano e non. Tra i contemporanei, invece, consiglierei La gioia di scrivere, tutte le poesie di Wislawa Szymborska e Un prato in pendio, tutte le poesie di Pierluigi Cappello.

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