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diretto da Romano Luperini

 

 La scelta della copertina di un libro ha un suo interesse critico per più di una ragione: in primo luogo, per ciò che riguarda la ricezione, stabilisce un certo patto con il lettore recando informazioni sul genere letterario (romanzo, saggio, poesie, testimonianza); in secondo luogo sul piano semiotico implica l’incrocio fra codice visivo e codice scritto; infine dal punto di vista della sociologia letteraria, è il momento del packaging commerciale. Insomma, quella che in Soglie Genette includeva nel concetto di “peritesto”, per l’industria editoriale è una mossa cruciale del marketing. Fino all’ultimo, a esempio, le “cover” dei libri destinati a divenire dei bestseller, come quelli di Dan Brown, restano rigorosamente segrete e in ogni casa editrice vi è un art director responsabile delle confezioni che devono rendere quanto più possibile visibile e seducente l’oggetto libro. La copertina è dunque il luogo in cui il prodotto letterario passa dalle mani del produttore a quelle dei lettori e del mercato: da qui il senso duplice di estraneità e di espropriazione suggerito da Jumpa Lahiri con la metafora dell’abito inadatto (J. Lahiri, Il vestito dei libri, Guanda, 2017). 

 Tuttavia gli autori, anche nel mondo letterario anglosassone più precocemente aziendalizzato, non di rado entrano nel processo di scelta delle immagini per tentare di includerle nell’operazione di  senso che intendono attribuire al loro libro attenuandone “l’esproprio”: emblematico il caso di Jerome D. Salinger che ha sempre preteso copertine ispirate al silenzio cromatico e all’assoluta sobrietà, fino al punto di costringere Einaudi a coprire con una sopraveste candida la traduzione del Giovane Holden (1961) in luogo di un disegno di Ben Shan raffigurante  un ragazzo che lecca un gelato, immagine scelta da Giulio Bollati. Nella specifica situazione italiana, inoltre, le caratteristiche iconiche e cromatiche di copertina guidano tradizionalmente il lettore a fissare qualità e identità di una collana e di un editore: il blu di Sellerio, il bianco dei “Coralli” o il giallo degli “Stile libero” di Einaudi, la gamma pastello di Adelphi; infine la recente vivacità cromatica e iconica degli “Oceani” della Nave di Teseo e dei “Nichel” della minimum fax. A questo proposito sono ancora valide le parole che Bruno Munari – al quale si devono molte delle storiche copertine dei libri di Gianni Rodari,  quella di Se questo è un uomo e del Diario di Anna Frank –  scriveva nel 1987 per il primo numero del periodico “Millelibri”:

[…] c’è da considerare quella che è definita “l’immagine della casa editrice”, per cui il lettore affezionato a un editore lo ritrova facilmente nel mucchio dei libri esposti. Se l’editore è un editore di qualità […] allora vuol dire che anche il lettore è di qualità e ha abitudini estetiche particolari, sa distinguere colori raffinati da colori disneyani, ama le immagini colte, sa distinguere i caratteri tipografici classici o moderni giusti, dai bastardi; e via dicendo.

Dagli interventi degli autori italiani che hanno risposto all’inchiesta de La letteratura e noi risulta come gli investimenti autoriali di senso sulla copertina e il dialogo che s’intesse fra scrittori ed editori a questo riguardo sia molto vivace. In certi casi il racconto della copertina è stato fulmineo e aneddotico, altre volte appassionato e avventuroso, al punto che alcuni autori (Pugno, Targhetta, Vinci, Cavazzoni) hanno utilizzato il termine epifania (o gli equivalenti “magia”, “illuminazione”, “incantesimo”) per descrivere la rivelazione repentina e inaspettata di una copertina adatta a dar conto del proprio romanzo.

 Nel tentare un bilancio del ciclo, ci sembra che le riflessioni e i racconti degli autori mettano in luce due aspetti-chiave: 1) la possibilità che un’immagine ‘condensi’ in forme rivelatrici il senso di un’opera; 2) lo spazio ancora aperto di dialogo fra autore ed editore, a riprova – come sottolinea Vanni Santoni –  che la vicenda delle copertine “comprende la storia di due avvicinamenti”.

 Ne risulta un terzo motivo d’interesse, sottolineato ancora da Santoni: la   messa in gioco del “peso autoriale” che permette di aver voce in capitolo riguardo all’aspetto che avrà il volume. La forza di contrattazione di uno scrittore sulla scelta delle  immagini, in effetti, è un indice del suo capitale simbolico e della sua posizione nel campo: a esempio il libro d’esordio di Santoni, Personaggi precari (Rgb, 2007), uscito grazie alla vittoria di un concorso per esordienti,  si ritrova cucita addosso una copertina “con due scarpe simil-Converse sciupacchiate”, a simboleggiare grossolanamente il fatto che si tratta di un libro scritto da un “giovane autore”. Ben diverso è il coinvolgimento dell’autore dieci anni dopo, quando pubblica la Stanza profonda (Laterza, 2017): la responsabile della grafica Laterza, Lyda Alari, si coordina con l’artista “vagliando vari bozzetti e convergendo poi su quello che è divenuto la copertina”.

 

Uno scrittore reticente a impegnarsi nella scelta del suo “peritesto” come Francesco Targhetta, e che in precedenza come poeta aveva potuto eludere la questione, viene coinvolto dai grafici e da Linda Fava, suo editor in Mondadori, in un dialogo serrato su ogni aspetto riguardante la veste del romanzo Le vite potenziali (Mondadori, 2018). Dal confronto tra autore, grafici ed editor consegue la scelta di un’immagine che allude in un dettaglio all’idea stessa della “potenzialità” problematica delle vite dei personaggi:

una veduta serale del Vitra Design Museum a Weil am Rhein, Germania; Il blu serotino e il giallo acceso, intrecciati al nero delle ombre, formano una tavola cromatica stupenda, mentre la geometria dell’immagine, nella sua irregolare precisione, è in piena sintonia con il tono del romanzo. La vita lì dentro sembra chiarirsi e diventare più lucida. Più facile. Ma sotto c’è la strada, con le sue scie sporche e luminose in perpetua fuga.

Anche per Ermanno Cavazzoni, la scelta della copertina del romanzo La galassia dei dementi (La nave di Teseo, 2018), contraddicendo l’opinione che “la casa editrice faccia la copertina che vuole”, passa per un incontro casuale ma decisivo con un’immagine:

mi è capitato di vedere una mostra di artisti russi contemporanei, […] e lì ho visto le immagini di un artista che si chiama Sergey Batkov che mi hanno molto colpito […] ho mandato a Elisabetta Sgarbi la foto malfatta col telefonino, […] ma anche a Elisabetta è subito piaciuta, è importante il subito, anche per lei come per me c’è stato un immediato stupore magnetico […] e così il libro ha avuto la copertina che non lo illustrava ma gli corrispondeva”.

Testimonianza della rilevanza ermeneutica dell’immagine di copertina è la riflessione di Laura Pugno, che la paragona all’inattesa lettura acuta di un critico:

Ogni copertina […] A volte è una semplice conferma, altre volte uno svelamento, un’epifania. Come la critica letteraria nel migliore dei casi, quando ti dice cose a cui non avevi neanche pensato, ma che, nel momento in cui le leggi, sai di aver saputo sempre, con il corpo se non con la mente, con qualche parte di te e ora, anche con la coscienza.

Per Pugno “ogni copertina nasce da una conversazione, un incontro tra l’idea di libro che l’autore, l’autrice porta con sé, nei suoi aspetti coscienti e consapevoli e nei suoi aspetti impliciti e oscuri, e il “dialogo iconografico” “: in particolare alla casa editrice Marsilio, Pugno si è confrontata proficuamente con Giulio Mozzi e Jacopo De Michelis scegliendo, per La metà di bosco (Marsilio, 2018), un’immagine che mantiene come cifra distintiva l’ambivalenza (“Non sappiamo cosa sia, il gesto misterioso che la bambina dai capelli neri compie, se si prepari in qualche modo a spogliarsi e a tuffarsi, o anche a tuffarsi vestita, se cerchi di far cessare un dolore nel corpo, uno sbocco di sangue dal naso o nella gola, o se ancora sia solo un gioco, il suo. Intorno a lei si stende una distesa d’acqua e sembra pronta ad accoglierla”).

Sul ruolo evocativo della copertina de La prima verità (Einaudi, 2016), libro complesso, dai molteplici fili narrativi, insiste anche Simona Vinci, in un passaggio in cui ricorda la felice sinergia con Severino Cesari:

[…] con Severino Cesari, siamo partiti da suggestioni diverse, come sempre abbiamo fatto per scegliere le copertine dei miei libri. […]  Il dio bambino del silenzio era perfetto […], con il suo caratteristico gesto che intima dolcemente il silenzio portando il dito alla bocca. Il “signum harpocraticum” è ben noto agli studiosi di storia dell’arte. Arpocrate è il custode dei misteri, segnala il passaggio dall’umano al divino, impedisce ai demoni di entrare nel corpo attraverso la bocca, sa che ci sono cose che è impossibile dire e che la verità va cercata dentro, oltre, nella concentrazione, nella preghiera, nella trance, nel silenzio, nella fiducia che i segreti verranno rivelati – se ce ne sarà bisogno -al momento più opportuno.

Il breve racconto di Paolo Zardi sembra testimoniare la tendenza, minoritaria tra gli autori interpellati, a lasciar fare all’editore: “Da quel momento in poi, ho smesso di fare ipotesi o proposte sulle copertine dei miei libri. Non sono tra quelli che pensano di essere bravi a far tutto: io scrivo, ed è già tanto, per me.”  Davide Orecchio, anch’egli tendente al laissez faire, nel rievocare l’incontro con la copertina pensata dai grafici della minimum fax per Mio padre la rivoluzione (2017), sottolinea tuttavia come i dettagli ossimorici dell’immagine e in particolare la presenza imponente del soldato dell’Armata Rossa che subisce un processo di abbassamento grottesco grazie al naso da clown, finiscano col restituirgli il senso profondo del suo testo “controfattuale”:

Nel soldato col fucile in spalla (fante della guerra civile, sentinella dell’Armata Rossa, guardia del Cremlino… chissà) ritrovo la rivoluzione, la potenza, la violenza, il freddo mortuario del passato nella neve che chiazza la pelliccia del guerriero. […] Non è irrilevante – non è un dettaglio – quel naso rosso da clown, simmetrico rispetto alla stella rossa sul colbacco, poco sopra la barba aggressiva dell’uomo. L’orpello del pagliaccio è certo un’anima di Mio padre la rivoluzione. Dice il disordine, il tradimento delle promesse, la storia rovesciata e sottosopra, i genitori che si trasformano in streghe, l’amico fraterno al tuo fianco che diventa un vampiro.

Una storia di resistenza può trovare difforme rappresentazione iconica nelle copertine di due narrazioni molto diverse per stile e tema: Resto qui di Marco Balzano (Einaudi, 2018) e 108 metri. The new working class hero di Alberto Prunetti (Laterza, 2018). In Resto qui l’immagine metafisica del campanile di Curon, in Alto Adige, scelta in accordo tra autore ed editore e sottoposta a un accurato taglio che eliminasse altri elementi di contesto, è volta a richiamare il lettore suscitando inquietudine:

È un’immagine che a prima vista desta meraviglia – a me sembrava di entrare in un quadro di De Chirico – per poi lasciare spazio a un’inquietudine crescente. Si realizza che se lì c’è un campanile attorno doveva esserci stata una comunità, donne e uomini, radici.

Nel caso del memoir 108 metri. The new working class hero di Prunetti la foto suggerisce d’impatto rabbia e resistenza nello sguardo di sfida del giovane punk e produce addirittura nell’autore che l’ha selezionata il bisogno di una ricerca a ritroso sul contesto in cui è stata scattata:

Adesso che conosco la loro storia, torno a guardare la copertina con occhi diversi. Alan sa incassare, sembra chiuso in se stesso, nel dolore. Damien distoglie lo sguardo dalla camera e cerca una prospettiva di fuga.  Secondo la scheda della Magnum, ha dichiarato al fotografo che il suicidio di Sean e Graeme è stato un atto stupido. Le sue parole sono dure, ma sono un atto di speranza. Tiene la testa alta, per continuare a guardare verso la luce. Sfida il vento che gli scompiglia i capelli. Nel suo sguardo c’è una prospettiva e un futuro. Nonostante la working class inglese abbia dovuto affrontare catastrofi di ogni tipo, nonostante il vento che soffia contro il suo sguardo, bisogna continuare a fissare l’orizzonte, come Damien, e bisogna saper incassare i cazzotti della vita, come Alan. Non camminiamo da soli. You’ll Never Walk Alone.

Helena Janeczek e Giorgio Falco sono narratori il cui rapporto con la fotografia è cruciale, al di là delle scelte di copertina: la prima perché La ragazza con la Leica (Guanda, 2017) è ispirata alla vita di una reporter, Gerda Taro; il secondo perché fra i propri modelli ha sempre privilegiato una certa fotografia americana, la cosiddetta Man-Altered Landscape, il cui rappresentante più significativo è Lewis Baltz.

La testimonanza di Janeczek attesta sia il forte peso dell’autrice nella scelta della copertina, frutto di diverse ricerche, sia l’insistenza sull’immagine come vero e proprio autocommento:

Nella mia testa, la copertina di La ragazza con la Leica esisteva da tempo. Era una foto che Robert Capa aveva fatto a Gerda Taro […]. Per me quell’immagine riassumeva molti elementi centrali del romanzo: l’atmosfera bohémienne dell’esilio parigino e, soprattutto, la personalità di Gerda che, combinando la posa maliziosa a un’espressione buffa, esprime una voglia di scherzare più forte del desiderio di apparire soltanto seducente. La mia proposta fu bocciata dall’editore. A suo parere, la smorfia distorceva il volto di Gerda.

Escludendo, d’intesa con Guanda, foto a pertinenza più storica (documenti della Guerra di Spagna) la copertina de La ragazza con la Leica recupera, alla fine, l’idea di inafferrabile seduttività della protagonista come filo conduttore del romanzo:

La foto che alla fine mise tutti d’accordo era uno scatto compreso nei negativi della “Valigia Messicana” vale a dire sconosciuto fino al 2009-2010 e comunque poco noto.

A me sembrava che cogliesse uno spirito analogo a quella da cui ero partita, un insieme di seduttività e brillantezza ironica capace di veicolare la personalità cangiante della “mia” ragazza. I grafici ottennero il permesso di fare un piccolo ritaglio in alto, cosa che dona maggiore risalto a Gerda che strizza l’occhio […].

 

Per La gemella H (2014) di Giorgio Falco, una foto di tre mele scattata da Sabrina Ragucci in Alto Adige diviene emblema del romanzo e dunque, di necessità, la copertina. Si tratta di un’epifania fredda, basata sull’apparente casualità e sul montaggio:

La stampa dell’immagine ha evidenziato ancora di più la reazione differente delle tre mele. La prima era ormai marcia; la seconda aveva un paio di segni sulla buccia, come fossero occhi; la terza era identica al primo giorno, anzi, ancora più lucida, sembrava una di quelle mele di plastica utilizzate dai mobilifici, al centro dei tavoli in vendita. 

Non siamo poi tanto diversi da queste mele, ho pensato, reagiamo al tempo che passa, agli avvenimenti storici in modo diverso: alcuni sono devastati dalla Storia, altri la attraversano quasi incolumi. […] Le tre mele sono diventate i tre personaggi del libro.

Luca Ricci – dal cui intervento l’inchiesta del nostro blog ha preso le mosse – dimostra una grande consapevolezza sociologica delle funzioni della copertina: in virtù di ciò il narratore dà conto del processo di riflessione e di scelta molto articolato per la copertina del suo romanzo Gli autunnali (La nave di Teseo, 2017). Se l’idea iniziale pare appuntarsi su un’immagine autunnale di Roma, città che funge da sfondo alla vicenda narrata, ben presto risulterà evidente all’autore che “Sia l’autunno sia Roma vivono […] dello stesso rischio: lo stereotipo.” In una seconda fase ideativa, valuta allora la possibilità di usare come immagine la fotografia di Jeanne Hébuterne, la donna fantasmatica di cui il protagonista si innamora: ma “l’immagine (molto nota) rischiava di far assomigliare il romanzo a un saggio”. Alla fine anche nel caso de Gli autunnali l’interpretazione autoriale – come vero e proprio autocommento – e il rispetto da parte dell’editore della volontà dello scrittore sono assolutamente evidenti: “…Sunday Morning at the Cloisters (1947), questo il titolo, è una foto d’arte in bianco e nero, architettata in modo che tutto sembri naturale, quasi un lavoro da street photography anziché una messinscena. Anche Ricci, come Pugno, Falco o Targhetta, interroga i dettagli dell’immagine:

Il punto di vista è quello di un uomo – di lui vediamo solo una scarpa e la sua ombra- che incombe sopra una donna stesa a terra, la quale resta inerte, con un’espressione neutra, con un occhio tenuto aperto e sbarrato, e una mano a coprire il resto del volto (per ripararsi dal sole? Per proteggersi dall’uomo? Non lo sappiamo). Tutt’intorno, come sfondo, un campo senza fiori, con gli steli d’erba bruciati dal gelo (le due figure indossano bei vestiti autunnali). Ecco la tensione spinta al limite nei rapporti tra maschile e femminile, un uomo quasi invisibile (ma che c’è ancora di più proprio perché non si vede) e una donna che non è morta ma non è neppure viva, un perfetto revenant.

L’attraversamento delle “Cover Stories” degli autori che hanno aderito all’inchiesta sembra dirci, insomma, qualcosa di ulteriore e di più complesso rispetto alle attese sociologiche e alla supremazia del packaging.   Se per un  semiologo come  Jean-Marie Floch la copertina è una marca e dunque “una questione di fiducia, una relazione contrattuale tra soggetti o, per dirla in termini semiotici, di contratto, di packaging, di veridizione” (J.-M.Floch, Lettera ai semiologi della terra ferma, Meltemi, 2006), dal punto di vista del  lavoro autoriale è un peritesto “intenzionale”, “un piccolo manifesto e ha lo scopo di comunicare all’osservatore che, in quel libro, c’è qualcosa d’interessante per lui […]” (B. Munari, Perché dev’essere un piccolo manifesto, Millelibri, n.1/1987). Fra capitale e lavoro, dunque, anche nel campo della scrittura, si stabilisce una zona di tensioni e persiste fino all’ultimo, fino al congedo spossessante dell’opera, la ricerca di senso che l’autore ha perseguito nel libro: ciò significa che il tasso di elaborazione concettuale e intellettuale su una copertina è spia dello sforzo di dar vita a dei libri “di ricerca” e non solo a oggetti d’intrattenimento e di consumo. In Italia esiste insomma un interessante spazio di dialogo fra autori ed editori: si basa sulla sensibilità ‘resistente’ di diversi lavoratori della conoscenza, editor, grafici, sulla loro capacità di ascolto delle istanze autoriali e dunque sulla contrattazione, sull’intesa: le copertine ne sono una traccia efficace ed evidente.  

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