La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
Quando su un autobus urbano lessi per la prima volta “personale per il servizio alla clientela”, capii che erano i vecchi “controllori” solo dopo molti viaggi e molte riletture. Credevo davvero che si trattasse di personale dedicato ai miei sacri diritti di cliente.
L’hanno detto in tanti: l’Italia è un paese che ama l’opacità linguistica degli eufemismi, delle perifrasi, degli slittamenti semantici o delle vere e proprie sostituzioni. La ragione è sempre quella rappresentata amaramente da Ignazio Silone in Fontamara: fottere i cafoni parlando di “lustro” invece che di “cinque anni”. Prima che la coscienza avvertita della persona colta reagisse, anche io su quell’autobus sono stato un cafone.
Quando, però, su un treno ad alta velocità ho ascoltato un messaggio registrato che mi avvertiva, «il train manager è a vostra disposizione», ho compreso subito che si trattava di un fenomeno completamente nuovo e di dimensioni ben maggiori della vieta opacità del potere e della burocrazia italiani.
Un train manager non è un volgare capotreno: non ne ha la ruvidezza, quella con la quale – ricordo – apriva la porta dello scompartimento in piena notte, accendendo brutalmente la luce ed esigendo “i biglietti!”.
Il train manager non ha i polsini della camicia un po’ sgualciti e l’accento dialettale. Il train manager è customer-oriented e ha un tablet in mano. Se, poniamo, i suoi diritti di lavoratore vengono calpestati, lui molto probabilmente non si ribella come suo padre e suo nonno capitreno. Infatti non sa di essere un “lavoratore”: è stato educato in quella «cultura del nuovo capitalismo» di cui ha parlato Richard Sennett, nella quale gli hanno fatto credere di doversi considerare un “imprenditore di se stesso”.
La lingua 4.0 del Ministero dell’istruzione
“Train manager” è un esempio del linguaggio parlato dal nuovo capitalismo. Questa lingua è totalitaria. Arriva ovunque. Anche a scuola.
A gennaio il ministero ha steso un primo bilancio dei progressi del Piano nazionale per la scuola digitale (PNSD). Anche al Miur ormai parlano e scrivono così:
non esiste innovazione semplice. Se è semplice, non si tratta di innovazione. Innovare significa rompere barriere, modificare comportamenti, trasformare organizzazioni, investire in nuovi modi di lavorare e guardare al mondo e, in ultimo, generare comunità dove il cambiamento diventa irreversibile;
è la logica dell’innovazione, di dinamismo da costruire invece che di status da raggiungere, ad essere in moto. E il motore della scuola è acceso.
I due passi citati sono, rispettivamente, l’inizio e la conclusione del documento di bilancio: le due parti nelle quali, come ben sapeva la retorica antica, occorre movere. Ma chiamare questo un banale “documento di bilancio” – lo si capisce bene – è ricorrere a un linguaggio ingessato, anzi da gessato anni Trenta. Questa prosa è giovanilista, irrequieta, vagamente cocainica.
Siamo lontanissimi dalla contorta ipotassi con cinque o sei subordinate del vecchio burocratese: vince la paratassi che mima l’onda incontenibile dell’innovazione. Questa lingua ha completamente abbandonato anche la ben nota ieraticità pomposa di uffici e ufficiali serissimi che non osavano scendere mai nella realtà dove si dice “fare” e non “effettuare” (l’antilingua del brigadiere di Calvino). È una lingua, al contrario, performativa, che sembra voler fare cose con le parole e abolire la distanza tra progetto e azione: un po’ trombonata futurista, un po’ action painting. Si veda la frase che conclude il documento, quasi un’ingiunzione a tracimare oltre il punto fermo obbligato della scrittura, a domare lo scalpitante cavallo della realtà: «e il motore della scuola è acceso».
Dalla lingua ai valori
Che cos’è tutto questo? È solo un tic linguistico? È solo mimesi del linguaggio-feticcio della nostra era, quello seduttivo e libidico della pubblicità? O c’è dell’altro?
Leggiamo Richard Sennett:
In effetti, i cambiamenti istituzionali sul luogo di lavoro che qui descrivo valgono soltanto per i settori più avanzati dell’economia: l’alta tecnologia, gli operatori finanziari che agiscono su scala mondiale e le nuove imprese di servizi con più di tremila dipendenti. La maggior parte delle persone dell’America del Nord e dell’Europa occidentale non lavora in queste imprese. Eppure questo piccolo segmento dell’economia ha un’influenza culturale che va ben oltre la consistenza numerica. Queste nuove istituzioni prefigurano le nuove competenze e abilità personali; e la formula combinata di istituzione e qualifica modella la cultura del consumo; a sua volta, il comportamento nei consumi influenza la politica, in particolare la politica progressista. Se inferisco con tanta sfacciataggine la cultura della totalità da una piccola parte della società, è perché i fautori di un ben determinato genere di capitalismo hanno convinto tanta gente che la loro via è la via del futuro (La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, 2012, p. 14).
C’è dell’altro, quindi. Si tratta di una complesso gioco di azione e retroazione tra vertice della piramide e sua base: come nella moda, le nuove tendenze del vertice si propagano sotto specie di valori desiderabili per tutti, informando comportamenti e habitus mentali di massa, così che al vertice, dove si prendono le decisioni politiche, ci si convince di essere la punta più avanzata di un’esigenza collettiva e storicamente necessaria. Di qui i passaggi esplicitamente biopolitici della prosa 4.0 del Miur:
una politica “vivente”, che cresce organicamente al crescere delle energie di chi nella scuola, ogni giorno, innova organizzazione e didattica, rinnovando se stesso;
diverse aree del PNSD non possono permettersi anche un solo rallentamento. L’innovazione non attende, e la società chiede a gran voce una scuola che stia al passo o, meglio ancora, che la aiuti ad interpretare il cambiamento.
È il linguaggio dei corsi di motivazione che si tengono dentro le aziende, quelli che Paolo Virzì ha rappresentato in Tutta la vita davanti forse senza nemmeno doverne fare la caricatura.
Ma il punto più importante pertiene alla politica, non all’organizzazione del lavoro. Si lascia intendere che non esista più alcuna verticalità gerarchica, nessun rapporto di forza o di potere, nessuna contrapposizione tra soggetti: una parodia della società democratica, orizzontale, non ascrittiva.
Si tratta di un strumento dalle potenzialità di connessione e contaminazione elevatissime che, una volta aperto a tutta la scuola, permetterà di consolidare l’idea del PNSD come movimento di innovazione, più che di politica pubblica.
Il concetto stesso di “politica pubblica” va superato, in quanto processo che dall’alto cala sulla popolazione: si tratta, invece, di un “movimento” collettivo, spontaneo, dal basso.
Certo, in altre parti del documento non si nega che questo movimento vada guidato e che si debbano superare delle resistenze; ma quelle resistenze vanno amorevolmente – paternalisticamente – ammorbidite, creando sinergie e fiducia: le parole d’ordine, infatti, sono perfettamente progressive. Bisogna «sviluppare spazi comuni innovativi e avere tecnologia, preferibilmente portabile, per avere in ogni classe strumenti leggeri per collaborare»; è necessario favorire «creatività e laboratorialità diffusa negli spazi della scuola, che si aprono al il [sic] territorio»; «serve dare importanza a periferie e plessi di provincia, come anche suggerito da ANCI […] in modo che l’investimento in ambienti innovativi diventi fattore di inclusione in ogni territorio e grado di scuola»; si tratta, infine, di realizzare il sogno di sempre, quello che ci accompagna come utopia irrealizzabile da quando esiste la “gabbia d’acciaio” della burocrazia e del lavoro sotto il capitalismo: «la trasformazione digitale dell’amministrazione […] può rappresentare una strategia di semplificazione essenziale per “liberare” il personale dalla burocrazia e concentrare l’attenzione su offerta formativa e didattica» (tutti i corsivi sono miei).
Se io dicessi che, al contrario di questi esperti ministeriali di policies, sono favorevole alle ubbie personali contro la collaborazione, al silenzio indisponibile del singolo contro la creatività e la laboratorialità diffusa, al chiudersi nella propria cameretta contro l’apertura al territorio (addirittura, protervamente, all’esclusione contro l’inclusione), mi condannerei alla risibilità storica. Eppure, davanti alle trombonate futuriste, sarebbe quasi una necessaria provocazione surrealista o dada.
L’avanguardia, o la testa di ponte, di questo “movimento” sono gli “animatori digitali”: «una comunità sempre più ampia di decine di migliaia di innovatori, per trascinare grazie a investimenti universali il resto della scuola»; «la scelta di puntare sulla legittimazione di un “presidio” che potesse essere il punto focale dell’innovazione in ciascuna scuola è stata unanimemente considerata come una decisione chiave. Proprio per questa ragione, portare finalmente a compimento una prima parte degli investimenti a favore degli animatori digitali è stato fondamentale per riattivare e rinforzare la motivazione di una comunità di innovatori che sta già facendo tantissimo per il sistema educativo».
Fuori da questa cattiva letteratura da strapazzi, gli animatori digitali non sono altro che colleghi di buona volontà disponibili a occuparsi di bandi, finanziamenti, miglioramento dell’offerta formativa. Questi colleghi a gennaio sono stati invitati a partecipare a un convegno a Bologna. Eccone il programma:
È difficile persino commentare un’iniziativa del genere, che sembra una parodia della fantascienza e invece è realtà, la nostra realtà.
I nuovi esperti del Miur
Ma chi, materialmente, scrive queste cose? Chi immagini i tecnici del Miur come grigie teste d’uovo della burocrazia statale d’antan si sbaglia. Non si spiegherebbe un cambiamento linguistico e di valori così radicale. Dalle Linee guida della Buona scuola (qui una breve affresco dei giovani e rampanti yuppies che vi hanno lavorato) al Piano Digitale, ormai i nostri destini sono in mano a esperti di public policies con curricula anglofoni e una formazione in un settore disciplinare difficile da definire, perché non appartiene nemmeno più al vasto ambito delle scienze sociali o a quello specifico dell’economia o dell’informatica.
Nel caso del nostro documento, i due redattori sono Donatella Solda e Damien Lanfrey. Il loro curriculum vitae sul sito del Miur è istruttivo, ma forse ancor più interessante è l’autopresentazione di Lanfrey. Consiglio di leggere almeno quest’ultima, se volete avere un’idea della “cultura” che promuove le ultime riforme scolastiche. Ci si renderà conto che la polemica contro la “burocrazia ministeriale” è ormai roba d’archivio.
Nel bilancio del Piano digitale, a un certo punto, si legge questo passaggio:
i numeri raccontano di una scuola in grandissimo movimento, come testimoniato da una fascia sempre più ampia di docenti che, nonostante le difficoltà, si è ingaggiata con il Piano abbracciando le sue molteplici azioni (corsivo mio).
Lanfrey, nonostante il nome straniero, ha studiato in Italia. Quell’anglismo – “si è ingaggiata” (to engage) – è un residuo familiare? Un anglismo di chi poi si è perfettamente acclimatato ai proprio studi a Oxford, Londra, Hong Kong? O un neologismo consapevole e ardito, a superare l’incapacità dell’italiano di tenere dietro all’esplosione di nuove idee del “movimento”? Non so. Ma ciascuno pensa nella propria lingua, come sappiamo. Evidentemente chi ha scritto quella frase non pensa in italiano. È ormai “ben oltre”. Noi che pensiamo alla scuola ancora con la lingua di Dante e Petrarca siamo probabilmente dei morti viventi.
Dai valori al governo della scuola
Chi usa le parole con il tono sovreccitato e futuribile di quel documento dovrebbe apparirci come un alieno calato non si sa come né perché dentro un luogo, la scuola, dove le parole della nostra lingua vanno preservate, tenute in buon uso, tramandate con amore e pazienza. Esiste un intero ambito di saperi che interviene costantemente nelle nostre vite e la nostra lingua patria non ha nemmeno le parole per nominarlo: policies, decision-making, stakeholders, …
Non è questione di sensibilità filologica e poetica, di purismo linguistico, di diffidenza verso l’inglese, che resta pur sempre la lingua di Shakespeare e T. S. Eliot. Si tratta di una radicale questione di egemonia culturale e politica.
La guida dei processi di trasformazione della scuola sembra essere ormai delegata a una casta sacerdotale di esperti, i policy makers, che pretendono di possedere un sapere tecnico in grado di dettare l’agenda alla politica, quella forma della praxis che da Aristotele alla Arendt ha definito la quintessenza dell’animale umano. Questi esperti parlano un linguaggio che sembra l’applicazione extra-letteraria dello stile oracolare da centro commerciale di Coelho e Baricco:
l’impegno di fare policy, soprattutto se interpretato to the fullest, è sempre quello.
A partire da 3 condizioni.
Lo devi fare velocemente, perché il Paese non è certo in una situazione facile, e la crisi non aspetta;
Devi conquistarti le finestre politiche, quelle non le regala nessuno, a maggior ragione in una situazione di frammentazione;
Devi costruire soluzioni efficaci e molto sostenibili, perché chi lavorava 10, 20 anni prima di te, con cinque volte le risorse, non si esattamente è [sic] posto il problema. (autopresentazione di Lanfrey)
La scuola, però, non è un’incubatrice di futuri start-upper:
i laboratori sono il luogo in cui si allineano scuola e Impresa 4.0, scuola e industrie culturali e creative, scuola e rivoluzione digitale.
A partire da gennaio 2018, tutto questo sarà portato a sistema per raggiungere il 100% delle scuole su 4 direttrici chiave: pensiero computazionale, educazione civica digitale (cittadinanza digitale), STEM e imprenditorialità. Si tratta di una scelta precisa, che unisce l’importanza di creare le basi definitive per una piena consapevolezza del cambiamento tecnologico (digital awareness) attraverso media, information e data literacy; lo sviluppo di competenze digitali centrali alla crescita degli studenti in produttori creativi di soluzioni digitali attraverso pensieri computazionale e STEM; la conversione di queste competenze in vera capacità di generare cambiamento attraverso l’educazione all’imprenditorialità.
La scuola non è un’incubatrice di futuri start-upper: semplicemente perché il mito della Silicon Valley, e di Steve Jobs, e dell’imprenditorialità cocainica, è un mito di classe, che viene spacciato a chi, assai più probabilmente, finirà a lavorare per Foodora o per uno dei molti Mcjobs oggi offerti.
Davanti a tutto ciò, prosaicamente, il nostro compito è molto modesto: nel nostro futuro prossimo, abbiamo da impedire l’«inserimento strutturale nelle indicazioni nazionali, a partire dal primo ciclo» di queste proposte post-politiche ed economicistiche.
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Editore
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Intrigante articolo
Ciao caro,
Vediamo se pubblichi questo commento.
Intrigante il tuo articolo.
Ho timore che tu abbia scelto davvero l’obiettivo sbagliato da giudicare.
Ho un dottorato in Sociologia e una visione molto molto critica della tecnologia.
Ho scritto anche pezzi critici in passato.
Ottime alcune delle citazioni (Sennett, etc), le conosco bene. Se vuoi posso suggerirtene altre, ma alcuni dei punti davvero non reggono.
Piuttosto, siamo stati criticati dell’opposto, cioé di avere scritto un documento di 136 pagine (con tante tante persone di scuola) per dettagliare il Piano Nazionale Scuola Digitale (che avremmo voluto chiamare direttamente), quando avremmo potuto semplicemente produrre una lista di azioni (come si è sempre fatto).
Trovo il tuo attacco curioso.
Ho il timore che sia un po’ tu ad avere questa idea in testa, che questo bellissimo pianto ideologico contro il mio cv o cose simili sia un bell’argomento precostituito.
Mi sa, invece, che quello che normalmente all’estero si fa sempre. Chiamalo policy-making, chiamalo progettare con sensatezza, con un occhio all’esistente e un occhio al futuro, ma soprattutto con tanta attenzione ai dinamismi della scuola, e alle possibili difficoltà.
Da sociologo, credo invece che un pregio del Piano (criticabile nell’attuazione, semmai) sia stato l’aver messo al centro un’idea di comunità scolastica – si, innnovativa,
Prenditela invece con un Paese che non ha nessuna capacità di leggere i grandi numeri e i grandi dettagli, di capire dove va il mondo, di studiare, di formarsi su diversi modi di fare le cose, di capire i problemi davvero.
Prenditela con un’amministrazione che irrigidisce ogni processo umano, e che non entra nel merito delle cose, quindi seguendo le mode.
Prenditela con una politica che cambia idea rapidamente e non cura le proprie comunità di riferimento.
Prenditela con un dibattito pubblico fondato sul nulla, o sulla supposta autorevolezza di intellettuali che non hanno saputo spiegare il mondo.
E invece te la prendi con i policy-maker, solo perché fa figo. Mi spiace, ma hai proprio sbagliato obiettivo.
Il Piano Scuola Digitale è invidiato nel mondo. Perché non é troppo estremo, perché parla di comunità, perché è complessivo, parla di tutto, e spiega che innovazione è in realtà organizzazione, lavorare insieme, buona didattica. Può essere un concetto semplice.
Ah, non ho progettato io i workshop dell’evento di Bologna. Ma sono MOLTO d’accordo con te. Danno veramente un’idea sbagliata di scuola e anche di innovazione. E mi sono arrabbiato anche io quando li ho visti, pensa te.
Complimenti per il pezzo. Non potevi essere più lontano dal cuore del problema. 🙂
Prendiamoci una birra, così vediamo chi conosce più letteratura sociologica, e chi la mette in pratica meglio.
Ma metti l’ideologia da parte. ti servirà a poco.
Un caro saluto,
Damien
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
C’e’ una cosa che mi sfugge nella risposta all’articolo di Damien Lanfrey. E’ quel “prenditela” ripetuto 4 volte. Ma egli non ha l’incarico di Collaboratore del Consigliere del Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca ? Perche’ sarebbe carino capire le risposte del Consigliere del Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca alle sue giuste obiezioni.
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
A me sinceramente pare una guerra tra la fuffa patinata del capitalismo n.0 e la fuffa lagnosa, parimenti straniante ed irritante, degli orfani di Marcuse…
@ Lanfrey
Gentile Damien Lanfrey,
eccomi a risponderle. Come vede, abbiamo pubblicato il suo commento. Non facciamo alcun tipo di censura, anzi difendiamo proprio un’idea di dibattito pubblico e intellettuale fatto di ragionamenti, critiche, prese di posizione, conflitto dialettico. Come lei è stato da me criticato pubblicamente, così ha diritto di fare altrettanto.
Il mio intervento ha due obiettivi polemici: il ministero e un certo discorso, una certa narrazione, certi valori.
Ho visto bene il suo dottorato in sociologia dei nuovi media, né voglio gareggiare con lei sul terreno della sociologia, che conosce certo meglio di me, ci mancherebbe. Ma ho un’idea molto chiara: l’attività suprema dell’uomo, fra quelle pratiche, è la politica. Siamo animali politici. Dobbiamo sempre ragionare politicamente, sforzarci di tenere tutto insieme. Perciò faccio fatica ad accettare l’idea che esista un sapere, un insieme di saperi, il fantomatico “policy making”, che guidi in modo eteronomo la politica. Non credo che esistano saperi tecnici e non sottomessi alla continua transazione intersoggettiva tra esseri umani, che significa anche ai rapporti di forza. E credo che nemmeno la ben nota difficoltà italiana di rinnovarsi, sulla quale siamo d’accordo, possa far dimenticare questa fondamentale cautela.
Ma vengo allo specifico del mio intervento: il linguaggio e i valori che quel linguaggio rivela. Io mi sono tenuto a quel che ho letto e che ho considerato, prima che scritto da qualcuno con nome e cognome, di provenienza Miur. Mi interessa capire che direzione stia prendendo un ente da sempre noto per la sua elefantiaca inefficienza e per il suo linguaggio opaco. Bene, mi sembra che il programma del convegno di Bologna sia la spia inquietante di un cambiamento epocale. Però fatico a vedere una sostanziale differenza tra le forme mentali di quel convegno e quello che ha scritto lei per conto del Miur. A me pare lo stesso linguaggio, a me paiono gli stessi valori.
Lei mi accusa di essere ideologico. Conosco bene l’accusa. Io ho solo un anno in meno di lei, apparteniamo alla stessa generazione. Anche io mi sono sentito raccontare che “la storia era finita” (fino a quando l’Occidente non ha trovato un nuovo nemico nell’Islam: l’Occidente non accetta contestazioni), che “le ideologie erano finite”, insomma che si era entrati nell’era delle decisioni pragmatiche e che bisognava abbandonare quella fastidiosa tendenza agli -ismi e all’ideologia.
Bene, io mi sono rifiutato di continuare a crederci, perché sto constatando quanto questa narrazione pacificata sia in realtà stato uno dei principali strumenti per far accettare alla mia e alla sua generazione il “fatto compiuto” della flessibilità, precarietà, impoverimento rispetto alla generazione precedente.
Dunque io sono ideologico: come lei, come tutti. Giudico il mondo e prendo posizione a partire da certi valori. Se i valori sono diversi, non ci si capisce.
Io continuo a difendere un’idea di scuola, di cultura, di intellettualità (in piccolo) diversa da quella di chi vorrebbe introdurre fin dalla primaria “pensiero computazionale, educazione civica digitale (cittadinanza digitale), STEM e imprenditorialità”. Ho cercato di spiegare perché nel mio intervento.
In questa battaglia ho incrociato i suoi passi. Non me ne voglia: personalmente non ho nulla contro di lei in quanto Damien Lanfrey. Però lei ha scritto per conto del Miur. Ne è un consulente. Se il Miur prende una direzione che a me pare incompatibile con la scuola della Costituzione e con la scuola come luogo che perpetua valori umani e culturali, io critico il nuovo story-telling che fa credere a tutti di essere sulla cresta dell’onda di un’innovazione eccitata e futuristica.
Tutta la mia vecchia cultura umanistica e politica mi rende molto sensibile al linguaggio (e ai valori che questo veicola). E quello che usate al Miur, francamente, non mi piace proprio.
@ Slan
Un po’ orfano di Marcuse in effetti mi sento, però è anche vero che non ho 90 anni e, come ho scritto a Lanfrey, sono stato educato a pensare che la storia fosse finita. Poi mi sono accorto che mi avevano preso in giro. E ho provato a riscoprire, fra le altre cose, anche il pensiero critico e la scuola di Francoforte (non solo).
Lei che non ama nessuna delle due lagne che cosa propone?
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”DLV”]Un po’ orfano di Marcuse in effetti mi sento, però è anche vero che non ho 90 anni e, come ho scritto a Lanfrey, sono stato educato a pensare che la storia fosse finita. Poi mi sono accorto che mi avevano preso in giro. E ho provato a riscoprire, fra le altre cose, anche il pensiero critico e la scuola di Francoforte (non solo).
Lei che non ama nessuna delle due lagne che cosa propone?[/quote]
Caro DLV, io probabilmente ho ancora meno certezze di lei, ma tra queste ce n’è una che pare condividiamo, ovvero che la Storia non è finita, per buona pace di Fukuyama. Quindi mi guardo bene dall’indicare soluzioni. Mi stia bene.
Per partecipare “da casa” alla festa
Per completezza, aggiungo che oltre ai documenti citati da Daniele nel suo articolo, le Scuole italiane hanno ricevuto -con nota del 19 Dicembre -un “kit” di “pratiche” per partecipare alla Festa di Compleanno del Piano Digitale, “da casa”.
Si trattava di piccoli suggerimenti, “pratiche” esemplificative, che ciascuna Scuola poteva poi “personalizzare”.
Ho estrapolato dalla nota solo pochi esempi di attività celebrative che le Scuole avrebbero potuto organizzare in occasione del secondo genetliaco digitale.
L’elenco completo lo trovate qui: Nota MIUR prot. n. 38149 del 19-12-2017
Ad esempio:
>>[b]A GARA DI PNSD[/b]
Le studentesse e gli studenti si confrontano su uno o più dei tre ambiti del PNSD.
>>[b]OpenData[/b]: gli studenti raccontano i dati della propria scuola, anche utilizzando i dati presenti su Scuola in Chiaro e relativi al RAV;
>>[b]Flash (Mob) PNSD[/b]: in diverse classi della scuola si svolgono contemporaneamente le stesse identiche attività di ballo, canto, slogan, poesia, per promuovere il PNSD.
>>[b]“SHOW & TELL”[/b]
Le scuole della stessa provincia si possono gemellare, ospitando in una delle loro palestre o aule magne uno show aperto anche alle famiglie, durante il quale, attraverso la voce degli studenti, ogni Istituto presenta il proprio esempio di scuola digitale in coerenza con quanto contenuto nelle attività del PNSD.
Ed altro ancora.
E’ previsto qualcosa per l’onomastico?
RL
conferme
Quale conferma più stringente alle serrate argomentazioni di Daniele Lo Vetere della replica —smart, spigliata, ‘giovane’ e (diciamolo francamente) vacua — del consulente del Ministero? Proprio un altro mondo, non c’è dubbio. Basta scegliere da che parte stare.
Tiziana Drago
Veline didattiche
[quote name=”RL”]Per completezza, aggiungo che oltre ai documenti citati da Daniele nel suo articolo, le Scuole italiane hanno ricevuto -con nota del 19 Dicembre -un “kit” di “pratiche” per partecipare alla Festa di Compleanno del Piano Digitale, “da casa”.
Si trattava di piccoli suggerimenti, “pratiche” esemplificative, che ciascuna Scuola poteva poi “personalizzare”.
Ho estrapolato dalla nota solo pochi esempi di attività celebrative che le Scuole avrebbero potuto organizzare in occasione del secondo genetliaco digitale.
L’elenco completo lo trovate qui: Nota MIUR prot. n. 38149 del 19-12-2017
RL[/quote]
Tutto questo è perfettamente coerente con il considerare l’insegnante un debole mentale che da solo e senza alcuna imbeccata non riesce a imbastire un’oretta di lezione. Servono minute, veline, pappe pronte da somministrare senza alcuna mediazione. In più occasioni nella documentazione “didattica” commerciale compare la dicitura “anche senza alcuna preparazione specifica” , basta copiare ed “erogare”. Evitiamo così errori e devianze. Molto diffusa questa pratica nella scuola primaria.
Insegnante
Quanto ha scritto DLV mi ha spinto a leggere e ad ascoltare qualche intervento di Solda e di Lanfrey. Il loro linguaggio mi ha riempito di tristezza, in certi momenti anche di scoramento (in particolare Solda). La ‘scuola di coding’ fa stare male, affligge chiunque abbia un po’ di sensibilità e creda sinceramente nel lavoro di insegnante. Per ritrovare un po’ di serenità ho aperto l’Orlando Furioso. Una vera medicina disintossicante.
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”Luigino”]Quanto ha scritto DLV mi ha spinto a leggere e ad ascoltare qualche intervento di Solda e di Lanfrey. Il loro linguaggio mi ha riempito di tristezza, in certi momenti anche di scoramento (in particolare Solda). La ‘scuola di coding’ fa stare male, affligge chiunque abbia un po’ di sensibilità e creda sinceramente nel lavoro di insegnante. Per ritrovare un po’ di serenità ho aperto l’Orlando Furioso. Una vera medicina disintossicante.[/quote]
Cosa c’è di male nello studiare un po’ di programmazione, dato che questa è propedeutica al ragionamento analitico e astratto? Alla cultura giovanilistica propalata dalle burocrazie ministeriali si contrappone il vacuo snobbismo intellettuale di derivazione crociana e gentiliana. Personalmente, per disintossicarmi, preferisco “The Feynman Lectures on Physics”…
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”Slan”] Cosa c’è di male nello studiare un po’ di programmazione, dato che questa è propedeutica al ragionamento analitico e astratto? Alla cultura giovanilistica propalata dalle burocrazie ministeriali si contrappone il vacuo snobbismo intellettuale di derivazione crociana e gentiliana. Personalmente, per disintossicarmi, preferisco “The Feynman Lectures on Physics”…[/quote]
Errata e vana questa tua contrapposizione, se me lo permetti. Io credo che da qualche decennio ci sia una profonda confusione tra insegnare un metodo e l’insegnare l’uso degli strumenti. Sembrano la stessa cosa ma non lo sono. Faccio fisica computazionale da 40 anni, ho iniziato che i computer si programmavano in assembler, se non in codice macchina. Due aspetti nella mia piccola esperienza, che non vuole essere esaustiva. 1) Una consapevole conoscenza della struttura, semantica e sintattica, della lingua parlata e’ condizione necessaria per un buon apprendimento di un linguaggio di programmazione. 2) al contrario di quanto dici la programmazione e’ uno strumento per l’implementazione di un algoritmo derivato da un ragionamento analitico ed astratto e non e’ ne propedeutica ne necessaria per lo sviluppo di esso.
Il problema e’ che si dimentica che l’affermazione del paradigma digitale come paradigma computazionale e’ legato al particolare contesto tecnologico di oggi e potrebbe cambiare in pochi decenni (arco temporale da tener in considerazione nella “programmazione” un piano didattico per gli studenti). Solo 50 anni fa il computing era analogico ed oggi in molti settori in cui e’ richiesta molta potenza di calcolo si sta rispondendo con architetture e concetti computazionale che non sono digitali. Dietro i linguaggi apparentemente moderni di cui stiamo discutendo io ci vedo una grande moda e una profonda mancanza di conoscenza degli aspetti tecnologici e scientifici inerenti.
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”Neutrino”][quote name=”Slan”] Cosa c’è di male nello studiare un po’ di programmazione, dato che questa è propedeutica al ragionamento analitico e astratto? Alla cultura giovanilistica propalata dalle burocrazie ministeriali si contrappone il vacuo snobbismo intellettuale di derivazione crociana e gentiliana. Personalmente, per disintossicarmi, preferisco “The Feynman Lectures on Physics”…[/quote]
Errata e vana questa tua contrapposizione, se me lo permetti. Io credo che da qualche decennio ci sia una profonda confusione tra insegnare un metodo e l’insegnare l’uso degli strumenti. Sembrano la stessa cosa ma non lo sono. Faccio fisica computazionale da 40 anni, ho iniziato che i computer si programmavano in assembler, se non in codice macchina. Due aspetti nella mia piccola esperienza, che non vuole essere esaustiva. 1) Una consapevole conoscenza della struttura, semantica e sintattica, della lingua parlata e’ condizione necessaria per un buon apprendimento di un linguaggio di programmazione. 2) al contrario di quanto dici la programmazione e’ uno strumento per l’implementazione di un algoritmo derivato da un ragionamento analitico ed astratto e non e’ ne propedeutica ne necessaria per lo sviluppo di esso.
Il problema e’ che si dimentica che l’affermazione del paradigma digitale come paradigma computazionale e’ legato al particolare contesto tecnologico di oggi e potrebbe cambiare in pochi decenni (arco temporale da tener in considerazione nella “programmazione” un piano didattico per gli studenti). Solo 50 anni fa il computing era analogico ed oggi in molti settori in cui e’ richiesta molta potenza di calcolo si sta rispondendo con architetture e concetti computazionale che non sono digitali. Dietro i linguaggi apparentemente moderni di cui stiamo discutendo io ci vedo una grande moda e una profonda mancanza di conoscenza degli aspetti tecnologici e scientifici inerenti.[/quote]
Mah, come fisico (lo sono anch’io, mi occupo di cosmologia e astrofisica relativistica), non sono granchè d’accordo, dato che appunto non sto parlando di impadronirsi di una specifica competenza “a tempo”, ma di un modo di ragionare complementare, e non certo ortogonale. Detto questo, non sono io che ho imbastito una contrapposizione…
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
Caro Collaboratore del Consigliere del Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha usato 2849 caratteri spazi inclusi per scrivere in pratica:
incontriamoci e vediamo chi ce l’ha più lungo…
uomo di lettere…(cit.)
Se ne torni ad Hong Kong si troverà meglio lì, qui non la meritiamo, lì si, sicuramente.
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”alibumaye”]Caro Collaboratore del Consigliere del Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha usato 2849 caratteri spazi inclusi per scrivere in pratica:
incontriamoci e vediamo chi ce l’ha più lungo…
uomo di lettere…(cit.)
Se ne torni ad Hong Kong si troverà meglio lì, qui non la meritiamo, lì si, sicuramente.[/quote]
Che classe. 🙂
Ho scritto altre cose, grande analista delle risposte.
No, caro, non torno a Hong Kong. E se sono qui è perché evidente chi era prima di me ha fatto molto molto male, portando il nostro sistema educativo a risultati imbarazzanti che neanche commento. Parlo degli ultimi 20 anni, non della lunga tradizione pedagogica italiana – che si è persa.
Ma tranquillo, presto il mio servizio civile finirà, io farò altre cose interessanti e tu potrai continuare a criticare chiunque venga, o a sospirare perché
La tua battaglia contro il capitalismo digitale sarà lunga e difficile. 🙂
Avrei suggerito una birra per farti capire che in realtà non sono siamo in molti casi parti contrapposte.
Ti prego, fai capire alle centinaia di migliaia di matti nella scuola che hanno davvero apprezzato il Piano Scuola Digitale e il lavoro di comunità che stiamo facendo con loro che sono tutti degli idioti. Ecco la parte difficile della tua battaglia, che non vincerai.
Ma tu giochi su un fine piano politico, e quindi diventi molto meno interessante per me. Dei contenuti ti interessa ben poco. 🙂
Quindi effettivamente la birra non serve. Non cambierebbe nulla.
Sei offensivo gratuitamente. Ripeto: stai sbagliando obiettivo, e di grosso anche.
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”DLV”]Gentile Damien Lanfrey,
eccomi a risponderle. Come vede, abbiamo pubblicato il suo commento. Non facciamo alcun tipo di censura, anzi difendiamo proprio un’idea di dibattito pubblico e intellettuale fatto di ragionamenti, critiche, prese di posizione, conflitto dialettico. Come lei è stato da me criticato pubblicamente, così ha diritto di fare altrettanto.
Il mio intervento ha due obiettivi polemici: il ministero e un certo discorso, una certa narrazione, certi valori.
Ho visto bene il suo dottorato in sociologia dei nuovi media, né voglio gareggiare con lei sul terreno della sociologia, che conosce certo meglio di me, ci mancherebbe. Ma ho un’idea molto chiara: l’attività suprema dell’uomo, fra quelle pratiche, è la politica. Siamo animali politici. Dobbiamo sempre ragionare politicamente, sforzarci di tenere tutto insieme. Perciò faccio fatica ad accettare l’idea che esista un sapere, un insieme di saperi, il fantomatico “policy making”, che guidi in modo eteronomo la politica. Non credo che esistano saperi tecnici e non sottomessi alla continua transazione intersoggettiva tra esseri umani, che significa anche ai rapporti di forza. E credo che nemmeno la ben nota difficoltà italiana di rinnovarsi, sulla quale siamo d’accordo, possa far dimenticare questa fondamentale cautela.
Ma vengo allo specifico del mio intervento: il linguaggio e i valori che quel linguaggio rivela. Io mi sono tenuto a quel che ho letto e che ho considerato, prima che scritto da qualcuno con nome e cognome, di provenienza Miur. Mi interessa capire che direzione stia prendendo un ente da sempre noto per la sua elefantiaca inefficienza e per il suo linguaggio opaco. Bene, mi sembra che il programma del convegno di Bologna sia la spia inquietante di un cambiamento epocale. Però fatico a vedere una sostanziale differenza tra le forme mentali di quel convegno e quello che ha scritto lei per conto del Miur. A me pare lo stesso linguaggio, a me paiono gli stessi valori.
Lei mi accusa di essere ideologico. Conosco bene l’accusa. Io ho solo un anno in meno di lei, apparteniamo alla stessa generazione. Anche io mi sono sentito raccontare che “la storia era finita” (fino a quando l’Occidente non ha trovato un nuovo nemico nell’Islam: l’Occidente non accetta contestazioni), che “le ideologie erano finite”, insomma che si era entrati nell’era delle decisioni pragmatiche e che bisognava abbandonare quella fastidiosa tendenza agli -ismi e all’ideologia.
Bene, io mi sono rifiutato di continuare a crederci, perché sto constatando quanto questa narrazione pacificata sia in realtà stato uno dei principali strumenti per far accettare alla mia e alla sua generazione il “fatto compiuto” della flessibilità, precarietà, impoverimento rispetto alla generazione precedente.
Dunque io sono ideologico: come lei, come tutti. Giudico il mondo e prendo posizione a partire da certi valori. Se i valori sono diversi, non ci si capisce.
Io continuo a difendere un’idea di scuola, di cultura, di intellettualità (in piccolo) diversa da quella di chi vorrebbe introdurre fin dalla primaria “pensiero computazionale, educazione civica digitale (cittadinanza digitale), STEM e imprenditorialità”. Ho cercato di spiegare perché nel mio intervento.
In questa battaglia ho incrociato i suoi passi. Non me ne voglia: personalmente non ho nulla contro di lei in quanto Damien Lanfrey. Però lei ha scritto per conto del Miur. Ne è un consulente. Se il Miur prende una direzione che a me pare incompatibile con la scuola della Costituzione e con la scuola come luogo che perpetua valori umani e culturali, io critico il nuovo story-telling che fa credere a tutti di essere sulla cresta dell’onda di un’innovazione eccitata e futuristica.
Tutta la mia vecchia cultura umanistica e politica mi rende molto sensibile al linguaggio (e ai valori che questo veicola). E quello che usate al Miur, francamente, non mi piace proprio.[/quote]
Non avevo letto questo commento.
Grazie per il linguaggio utilizzato nella risposta. Molto civile e molto chiaro.
Peccato tu abbia perso l’occasione per un post altrettanto civile – spesso molto più efficace di un post aggressivo. 🙂
Altra cosa. Trovo le “analisi del linguaggio” molto sterili. Molto meglio confrontarsi con le idee – che ora finalmente capisco – ovvero la tua paura che la scuola segua le “mode del momento”.
Giusto per tua analisi. Quando scrivo su un blog, scrivo a titolo personale. Ti conviene usare oggetti più ufficiali.
Il linguaggio di quel post é ovviamente diretto ad una audience di pari che similmente ha affrontato i problemi del lavorare in grosse macchine pubbliche particolarmente “bloccate”. Ed è stato molto apprezzato anche da persone idealmente lontane dai miei temi perché, da persona con un dottorato e tanta docenza in sociologia, non ho/abbiamo approcciato il tema dell’innovazione nella maniera “Confindustriale”.
Innovazione è cura e attenzione della propria comunità, collaborazione, mettere al centro lo studente. Le tecnologie – in alcuni casi, in altri non servono – sono un medium attivo e potenzialmente rischioso ma anche in grado di generare molte opportunità. Di comunità, connessione, di coinvolgimento, di gioco, di sperimentazione.
Non amo per esempio grandi narrative anglosassoni legate all’apprendimento individualizzato, adattivo, con l’ossessione per la micro-mappatura delle competenze e con i risultati. Ci sono narrative molto più estreme di così, e stanno diventando molto pressanti.
Ti suggerirei di dare un’occhiata ad altri sistemi educativi nel mondo. Capiresti che noi stiamo cercando di sviluppare un approccio verso l’innovazione molto meno “radicale” e “funzionalista” di quello che pensi. Molto più contestuale, molto più legato alla nostra tradizione. Confronta e vedrai.
Ripeto: stai sbagliando obiettivo, e di grosso.
Un caro saluto,
Buona giornata,
Damien
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
1- la classe è tutta nel suo primo commento riassunto da un umile giusto per farlo capire agli umili non certo agli smart come il suo quartetto Cetra. Lei continui pure a fare il SuperGiovane qual è nella sua retorica sui contenuti, vuota di contenuti.
2- “E se sono qui è perché evidente chi era prima di me ha fatto molto molto male…” piccolo giovane con la sindrome di Mr.Wolf? Che tristezza interpretare la propria vita come un personaggio da film;
3-” Ma tranquillo, presto il mio servizio civile finirà, io farò altre cose interessanti e tu potrai continuare a criticare chiunque venga, o a sospirare perché” Che lei faccia cose interessanti per lei non ho dubbi, che queste siano utili agli studenti di dubbi ce ne sono in quantità. Sul criticare chiunque non conoscendo la mia opera (non certo 4.0 come la sua, ci mancherebbe) nulla posso dire in quanto semplice opinione intrisa di sterile pregiudizio;
4-“La tua battaglia contro il capitalismo digitale sarà lunga e difficile. :)” confido nella stupidità intrinseca del nemico;
5- si ci proviamo a far capire che sono tutti degli idioti, se credono in chi gli dice che possono essere il nuovo Steve Jobs per poi essere individui senza diritti in un call center o a consegnare hamburgher a 4€/ora e che questo è come credere alla cura a base di bicarbonato di sodio contro il cancro. Se non dovessi vincerla la battaglia poco male, al massimo della loro carriera potranno diventare consulenti di un ministero.
Alcune domande
[quote name=”Damien”]
…. Giusto per tua analisi. Quando scrivo su un blog, scrivo a titolo personale. …..
Damien[/quote]
A titolo personale?
Ma il pezzo su Agenda Digitale [url]https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/scuola-digitale-miur-ecco-lo-stato-dellarte-e-le-azioni-2018/[/url] non è firmato “Damien Lanfrey, MIUR”?
Non racconta di ciò che è stato fatto nel PNSD, che è un piano del MIUR?
Non rappresenta il MIUR?
Sono perplesso…
RE: La nuova prosa ministeriale e la «cultura del nuovo capitalismo»
[quote name=”Luigino”]Quanto ha scritto DLV mi ha spinto a leggere e ad ascoltare qualche intervento di Solda e di Lanfrey. Il loro linguaggio mi ha riempito di tristezza, in certi momenti anche di scoramento (in particolare Solda). La ‘scuola di coding’ fa stare male, affligge chiunque abbia un po’ di sensibilità e creda sinceramente nel lavoro di insegnante. Per ritrovare un po’ di serenità ho aperto l’Orlando Furioso. Una vera medicina disintossicante.[/quote]
Luigino, sono colpita dallo “scoramento” che ti ho provocato.
Non credo di aver mai parlato di “scuola di coding” – ma in ogni caso non vedo niente di assurdo lavorare sulle indicazioni nazionali per introdurre il pensiero computazionale fin dalla primaria: l’unica anomalia è che si sia iniziato nel 2018 e non prima.
In ogni caso, anche se non parlo in pubblico molto spesso nè ho blog personali, se ti spingi a cercare un po’ di più, troverai che ho promosso molto altro oltre il pensiero computazionale alla primaria o i percorsi per imparare a gestire i dati alla secondaria: ad esempio potresti trovare le azioni sulle biblioteche scolastiche – tra le misure più desiderate e cercate di questo investimento. Un’azione controintuitiva per un piano sull’innovazione digitale, ma che è fortemente simbolica rispetto al senso di questa policy: ho un decennio di ricerca e insegnamento alle spalle da giurista dell’informazione, non sono una semplice tecno-entusiasta. Conosco il potere dei dati, delle infrastrutture che li veicolano, dell’importanza di saper leggere, cercare e gestire documenti e informazioni — anche digitali, e vorrei che mio figlio, quando nel 2030 inizierà (glielo auguro) a lavorare, abbia gli strumenti per orientarsi e trovarsi a suo agio nel mondo in cui vivrà.
A cosa ti riferisci davvero, quando parli di scoramento?
Lo scoramento lo vedo negli studenti, nei genitori e nei docenti che non hanno la forza da soli di migliorare la scuola, che per tanti anni sono stati dimenticati e trovano nell’innovazione un’opportunità di crescere.
A me lo scoramento lo producono la lentezza, l’inerzia e il poco realismo. E anche le lacrime di coccodrillo, ogni volta che viene fuori una graduatoria con l’Italia agli ultimi posti, unitamente al tiro al bersaglio quando si lavora per colmare i divari provocati da 20 anni di disinvestimento.
Scrivono sotto dettatura
Sono i nipotini del neoliberismo UE che ha contagiato anche il settore dell’educazione, come dimostrato in quest’articolo:
http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1068/d1804