Esiste ancora la classe operaia?
La Global Sumud Flotilla ha fatto detonare la protesta sociale
Nel chiudere il precedente articolo dell’11 settembre sulla questione della pace e della guerra auspicavo la necessità di sostenere in ogni modo la Global Sumud Flotillaper il contributo che può dare a superare la debolezza del movimento per la pace. Nell’arco di un mese ci sono state, in Italia e in Europa, una miriade di iniziative per la fine del genocidio del popolo palestinese e per la pace. Le 42 barche, provenienti da molti paesi del mondo, sono state illegalmente abbordate in acque internazionali dalle navi della marina militare israeliana, dopo numerosi attacchi di droni e dopo il tentativo di denigrare l’impresa dicendo che era compromessa con Hamas. In Italia si sono mobilitate centinaia di migliaia di persone, soprattutto lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti. La Flotilla, anche se in maniera simbolica, ha dimostrato che è possibile ciò che i governi occidentali non sono stati in grado di fare per la loro complicità con lo stato criminale di Israele: forzare il blocco navale della Striscia di Gaza, che dura da oltre 15 anni illegalmente, rivendicare un corridoio umanitario e portare aiuti alla popolazione affamata, mentre i viveri vengono fatti marcire nei camion ai confini e i centri di distribuzione israeliani sono usati come strumenti di attrazione per il tirassegno dei cecchini. Il 72% degli intervistati di una inchiesta dell’IZI, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, è favorevole all’iniziativa della Flotilla con una ovvia discrepanza tra gli elettori dei partiti di maggioranza (55,8%) e di opposizione (88,6%)[Agenzia stampa DIRE del 30.9.2025]. È da notare la maggioranza trasversale, che sembra riflettersi anche nelle mobilitazioni popolari degli ultimi giorni. Il fatto ha di certo preoccupato il governo se si considerano le dichiarazioni dei suoi rappresentanti, in particolare la protervia di Giorgia Meloni con la battutaccia che “il weekend lungo e la rivoluzione non vanno d’accordo”, poichè lo sciopero del 3 ottobre cadeva di venerdì. Evidentemente non conosce (o forse lo teme) che gli operai della prima rivoluzione proletaria della storia, la Comune di Parigi, spaccarono gli orologi a segnare la liberazione dai tempi del lavoro salariato e richiesero la riduzione dell’orario di lavoro. Landini, il segretario generale della CGIL, le ha dovuto ricordare che chi sciopera ci rimette una giornata di salario e che i lavoratori sono coloro che pagano con certezza le tasse che fanno funzionare il paese.
I due scioperi generali
Lo sciopero generale del 3 ottobre, secondo gli organizzatori, ha mobilitato oltre due milioni di lavoratrici e lavoratori con manifestazioni pacifiche in 100 città italiane; una massa imponente di cittadine e cittadini per uno sciopero con un obbiettivo politico, che non veniva convocato da anni in Italia. Lo sciopero ha superato la partecipazione di quello precedente proclamato separatamente dalla CGIL (19 settembre) e la USB (22 settembre). La manifestazione di sabato 4 ha portato a Roma oltre un milione di persone, che piazza San Giovanni non è riuscita a contenere, mentre la coda del corteo stava ai Fori Imperiali. Ma il fatto politico più importante ai fini della mia argomentazione è il richiamo all’unità che la mobilitazione di massa, in larga misura spontanea, ha indotto nelle sigle sindacali, che hanno dovuto convergere sulla stessa data a differenza dello sciopero precedente. Quello del 3 è stato convocato da CGIL, USB, COBAS e CUB. Sono le sigle con una tradizione più decisamente “di classe”, come preferisco indicarla invece dell’espressione generica “di sinistra”. I sindacati più filo-padronali (o filo-governativi) CISL, UIL e UGL non sono apparsi all’orizzonte. Landini ha motivato lo sciopero generale, dichiarando a La 7 che “senza pace non esistono nè diritti del lavoro nè democrazia”, ricordando gli scioperi operai del 1943 contro la guerra. Tali motivazioni fanno calare una pietra tombale sulle chiacchiere di Matteo Salvini, che concorre nella potervia con Giorgia Meloni per qualche frazione di punto nei sondaggi, a proposito dell’illegittimità dello sciopero senza preavviso. In realtà la protesta sociale, guidata dai lavoraratori, che la Flotilla ha fatto detonare nelle piazze, affonda le radici nell’ampio dissenso dell’opinione pubblica e nel popolo italiano verso le politiche belliciste del governo. Nel n. 6 del 2025 la rivista di geopolitica Limes riporta un sondaggio sulla “percezione della guerra” condotto dal Censis su un campione stratificato di 1.007 individui. Di là dalle battute ironiche poco felici dell’autore Massimiliano Valerii che “gli italiani non si considerano una stirpe di focosi guerrieri”, le quali a mio avviso affondano le radici nel macello della Grande Guerra, chi è “pronto a combattere” rappresenta un magro 16%. Il grosso del campione (il 39%, che sale al 41% della chiamata a combattere dai 18 ai 34 anni) si dichiara pacifista, è pronto a protestare contro la guerra e propende per “la via maestra… della neutralità”. Ricordo che era la scelta europeista del Manifesto di Ventotene, cioè della generazione che aveva combattuto il fascismo e che versò il sangue per la lotta di liberazione.
L’emergere delle avanguardie operaie dei porti (e non solo)
Vorrei sottolineare il fatto nuovo emerso nell’ultimo mese. “La Flotilla di terra” è stata guidata da gruppi di operai, che hanno boicottato le operazioni di carico e scarico delle navi dei porti europei, ma soprattutto italiani (Marsiglia, Genova, Livorno, Ravenna, Atene). In alcuni casi come a Ravenna hanno ottenuto il supporto delle autorità civili. Con un sicuro istinto internazionalista, in cui brilla la più gloriosa tradizione del movimento operaio fin dalle origini, hanno dichiarato: “Se Israele blocca la Flotilla, non uscirà dal porto neppure un chiodo”. “Blocchiamo tutto” è diventata l’indicazione di tutte le manifestazioni popolari. Non voglio illudermi sulle prospettive, ma in quel momento il punto di vista dei portuali, degli operai, ha preso la testa dell’intero movimento per la pace. Dall’appello del rappresentante del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova apprendiamo non solo che l’impresa della Flotilla è la più grande inziativa civile di pace di tutti i tempi, ma che esiste anche un Coordinamento Internazionale dei portuali. C’è anche un altro piccolo, ma significativo segnale di ripresa della soggettività operaia di cui questo blog ha dato puntuale notizia fin dal primo festival della working class letterature (Francesca Di Marco, 2023) presso lo spazio occupato dagli operai della GKN di Firenze, molto attivo nell’iniziative di “urlo per Gaza”. Uno degli esponenti del Collettivo di Fabbrica, Dario Salvetti, ironicamente dichiarava di voler mantenere il festival ogni anno: un pesce d’aprile che la working class fa a un sistema che la invisibilizza, la spinge verso la frammentazione, le toglie la parola e la narrazione, “il nostro personale pesce d’aprile a una storia che vuole gli oppressi muti e chi domina a spargere narrazioni false e tossiche”.
La narrazione neo-liberista e l’attualità di Marx
La Scuola economica di Chicago fin dagli anni 50 ha costruito la rivincita del liberismo sulle ragioni del movimento internazionale dei lavoratori. Ha posto fine ai golden thirty, siglati dalle democrazie occidentali e dal potere di interdizione dei lavoratori. Dagli anni Novanta ha lanciato sulle basi della terza rivoluzione industriale, quella elettronica, la globalizzazione. Edward Luttvak l’ha chiamato “il capitalismo supersonico” (1998). Vi è stato l’arricchimento smisurato della classe capitalista internazionale e la narrazione della “fine della storia”, in cui non vi sarebbero stati più conflitti sociali, predicando l’inutilità dei sindacati. Tali “magnifiche sorti e progressive”, tolte le briglie allo sviluppo capitalistico, nel giro di un decennio hanno prodotto: la crisi finanziaria del 2010, la crisi economica di sovrapproduzione, l’accelerazione della crisi climatica e le conseguenti migrazioni, la pandemia, la crisi delle democrazie occidentali e dello stato sociale europeo, l’ondata nera dell’autoritarismo e inevitabilmente le guerre commerciali per la conquista dei mercati per finire con l’inevitabile guerra aperta a rischio di escalation planetaria e atomica. Il sociologo Luciano Gallino ha ricostruito tutti i singoli passaggi di questa evoluzione drammatica, pur all’interno di un discorso keinesiano di porre un limite allo sviluppo selvaggio del capitalismo, introducendo il concetto di “lotta di classe dall’alto” nel saggio-intervista con Paola Borgna La lotta di classe dopo la lotta di classe (2012). A fronte dello sviluppo di una potentissima “classe capitalistica transnazionale” sosteneva che si è formato “un proletariato globale, le cui condizioni di lavoro ricordano da vicino quelle del proletariato industriale di metà Ottocento” (p. 151). È il ripristino della tesi di Marx delle due classi contrapposte che si contendono i destini storici del pianeta. Contro la narrazione neo-liberista che la lotta di classe sarebbe finita o addirittura che le classi non esisterebbero più, la teoria marxiana della crisi è invocata come la più predittiva dagli stessi economisti borghesi. Emerge l’esistenza della lotta di classe feroce dall’alto delle classi ricche verso i diseredati del pianeta. Per quanto l’omogenizzazione dei consumi e degli stili di vita — soprattutto nei paesi del primo mondo — rendano meno appariscenti le disugualianze sociali, queste sono crescenti e in epoca successiva al saggio di Gallino sono ritornate quelle del 1929 (Marco Revelli, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, 2014). Per spiegare come mai sembra non esistere il proletariato globale, più esteso che nelle epoche precedenti con le delocalizzazioni delle produzioni e i processi di proletariazzazione indotti dalla rivoluzione elettronica, Gallino ricorre alla distinzione marxiana “tra classe in sé” e “classe per sé”. “Una classe sociale esiste indipendetemente dalle formazioni che ne risconoscono o meno l’esistenza, e persino da ciò che i suoi componenti pensano o credono di essa” (p. 4). In estrema sintesi esiste la classe che può fare da “becchino” del capitalismo ed è più estesa di prima, ma non esiste ancora in quanto consapevole di sé come organizzazione soggettiva. Per questo è decisivo riconoscere i germi del formarsi di gruppi anche piccoli di avanguardie operaie.
Problemi aperti: l’organizzazione del movimento per la pace, la costruzione della sua direzione e il ruolo del sindacato
Ho scritto della debolezza del movimento per la pace, ma nell’ultimo mese — come accade spesso nella storia in cui ci sono giorni che contano anni — si sono trovate fianco a fianco in piazza la generazione dei “vecchi”, formatasi nelle lotte degli anni Settanta, e quella dei “giovani” che dalle scuole e soprattutto dai luoghi del lavoro si affacciano oggi sulla scena politica. La scommessa è il saldarsi di queste esperienze per dare corpo all’organizzazione del movimento per la pace. I “giovani”, di cui quasi ritualmente si è sottolineato il disinteresse per la politica, possono formarsi una coscienza politica nella lotta contro la guerra e per il loro futuro. Il ruolo del sindacato — da cui l’insistenza sull’unità dello sciopero generale per la Flotilla e contro il genocidio dei palestinesi — è il primo momento del formarsi del punto di vista soggettivo di classe, sostenuto da Gallino sulla scorta di Marx. Una prima cartina di tornasole del processo in atto l’avremo nella prossima marcia per la pace Perugia-Assisi.
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La classe operaia esiste, eccome! Variegata e ridimensionata, a tal punto da non fare quasi piu notizia quando si mobilità. Si mobilità su posizioni difensive perché né i sindacati né i partiti recepiscono le istanze di giustizia sociale, insite nello scontro di classe tra lavoratori dipendenti, prestatori d’opera a vario titolo ed i detentori del potere economico. Detentori che mostrano il loro volto truce, proprio di chi ha vinto, ad oggi, la lotta di classe..Ma nella Storia esistono imprevedibili momenti di rottura dello status quo ed io, a 73 anni, dopo tante sconfitte, auspico nuove rivolte contro il sistema capitalistico ovvero la somma ingiustizia, contro l’uomo e la Natura.
Grazie Beppe per la tua lucida e documentata analisi che mi ricorda tempi lontani e che mi stimola una riflessione.
Nei media (giornali, talk-show e approfondimenti vari) sento raramente parlare di “capitalismo” e quasi mai non sento parlare di “lotta di classe” alla luce dei nuovi contesti internazionali. Credo che dovremmo ridefinire alcuni paradigmi, ma sempre in riferimento ad un’analisi marxista.
Davvero profonda la tua riflessione.Grazie Beppe, proprio così: nella lotta contro la guerra e per il loro futuro i giovani possono formarsi una coscienza politica…questo è un aspetto che mi interessa davvero molto.
Condividerò questo tuo articolo con i miei compagni di sindacato…e magari ci confronteremo un po’.
Un commento a caldo al ritorno dalla marcia della pace da Perugia ad Assisi. La marcia della pace era un fiume di gente. Mentre un fiume andava ancora da Perugia verso Assisi, un altro tornava indietro. La città non era in grado di assorbire tutti. Un fiume di 14 chilometri a detta degli organizzatori, con un facile calcolo almeno 200 mila partecipanti (70 mila per la stampa di regime). Oltre 100 mila solo le associazioni che hanno aderito. Tante associazioni del mondo cattolico, tanti ragazzi, scout, intere scuole organizzate con gli striscioni e con gli insegnanti, tantissimi bambini. Tante bandiere dei sindacati (questa volta anche la CISL, ma soprattutto i sindacati che hanno organizzato le manifestazioni e gli scioperi per la Palestina negli ultimi giorni). Tantissime bandiere della Palestina. “Palestina libera/Free Palestine” lo slogan più urlato. “Bella ciao” la canzone più cantata. Moltissimi striscioni dell’ANPI e persone col fazzoletto partigiano al collo come me. Tante famiglie al completo come la mia. Anche tanti giovani genitori con i passeggini dei bambini. Molti gruppi folcloristici e sigle “alternative” come “Slow food”. Tanti stranieri che parlavano la loro lingua e tanta gente di colore come i pakistani sindacalizati della Federazione Lavoratori dell’Agro-Industria della CGIL. Alla fine una grande festa. Il popolo italiano è contro la guerra, il riarmo e il genocidio dei palestinesi. Una bellissima giornata.
Articoli come questo lasciano il tempo che trovano, come la tazza del consolo. Ma veniamo al tema. Un’analisi, ancorché sommaria, della composizione politica della classe operaia odierna conduce a individuare in essa: 1) una minoranza di lavoratori che si riconosce nella politica dei vertici dei sindacati confederali, 2) una minoranza crescente che ha rotto con essi, creando nuovi sindacati di base, 3) una vasta area di lavoratori che vive in modo conflittuale la propria collocazione all’interno dei sindacati confederali, 4) una massa crescente di lavoratori che sono rifluiti dai movimenti sindacali nel purgatorio infernale del qualunquismo e del localismo. Orbene, la crescita di questa quarta area può fornire una base di massa ad una mobilitazione reazionaria di tipo populista e fascista. L’unica differenza rispetto al periodo del primo dopoguerra, in cui i liberali tenevano la scala ai fascisti, è che ora (a parte la Francia) sono i fascisti a tenere la scala ai liberali. Ma dietro a queste maschere c’è un unico volto: quello del capitale che, come scrive Marx, “nasce con una voglia di sangue in faccia e trasuda fango e sporcizia da tutti i pori”.