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diretto da Romano Luperini

Boicottare l’orale all’Esame di Stato: riflessioni sulla valutazione a scuola

Nei giorni di fine e post maturità sono balzati all’attenzione delle cronache nazionali alcuni episodi, riportati da diversi quotidiani, di studenti che al colloquio dell’Esame di Stato (già “di maturità”) hanno scelto di boicottare l’orale facendo scena muta. Una studentessa, in particolare, invece che procedere con la trattazione degli argomenti disciplinari partendo dallo spunto fornito dalla Commissione, ha pronunciato un discorso rivolto ai docenti in segno di protesta: «Lo ha fatto – scrive il Corriere, che l’ha intervistata – per contestare i meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente». Afferma la studentessa: «I docenti non guardano come sta lo studente davvero. Sono solo interessati al voto e questo crea molta competitività. Non voglio dire che i professori debbano diventare amici degli studenti, ovvio. Però la pressione per le verifiche, l’ansia, sono all’ordine del giorno e a loro pare non interessare». Salvo poi aggiungere, però, che «con qualche docente siamo anche riusciti a confrontarci, con altri no. Alcuni hanno provato a cambiare, senza riuscirci». E alla domanda se la commissione l’avesse ascoltata, risponde: «Sì, con interesse. Mi hanno detto che essendo dentro al sistema sanno che ci sono delle cose che non vanno bene ma che cambiarle è difficile. Per la prima volta credo di aver sentito il loro aspetto umano più profondo».

L’accusa mossa non è nuova, ed è sicuramente una delle più ripetute quando, da parte degli studenti (ma anche di molti docenti), si vogliono mettere in rilievo alcuni dei problemi del sistema scolastico: prova, questa, che la valutazione è e rimane uno dei nodi critici del “fare scuola”. Inutile dire che tale accusa rappresenta una generalizzazione e una semplificazione che non restituisce la complessità della realtà scolastica: la stessa studentessa afferma di avere trovato qualche docente aperto al confronto e che anche la commissione d’Esame in quel frangente ha mostrato il «suo aspetto umano più profondo», mostrandosi consapevole delle problematiche che affliggono il mondo scolastico. Vero è, però, che il problema esiste e che forse viene troppo spesso sottovalutato. Vi sono infatti molti docenti che costantemente sono impegnanti nella costruzione di esperienze di apprendimento che superino certi paradigmi vetero-didattici, tentando così di rispondere ai bisogni degli studenti e di raggiungere le finalità formative che la scuola si è prefissata. Il problema, semmai, è che queste buone pratiche molto difficilmente e faticosamente vengono poi messe a sistema: da qui la fatica, a volte l’impossibilità, di cambiare davvero le cose e di “riformare” davvero la scuola («Alcuni hanno provato a cambiare, senza riuscirci»). Inoltre, spesso, quando si parla della scuola, sembra che ci si dimentichi che il sistema scolastico non è un’isola sperduta nell’oceano, un luogo “a parte”, ma un pezzo della società, di cui riflette limiti e contraddizioni. Gli insegnanti stessi sono a loro volta genitori, figli, ex-studenti, cittadini… Insomma «è la società che deve decidere che scuola – cioè che domani – vuole. Gli insegnanti possono applicarsi alla creazione di nuove didattiche, ma non alla creazione, o alla ri-creazione, da soli, di un’umanità accettabile» (N. D’Amico, Storia e storie della scuola, Zanichelli, 2010).

E veniamo alla questione specifica. La valutazione, o meglio: i voti (come spesso si dice sovrapponendo, con eccessiva semplificazione, le due cose), bestia nera degli studenti (ma anche di molti insegnanti!), eretti spesso a simbolo di una scuola classista, selettiva, competitiva, giudicante. Basti ricordare che la prima parte della Lettera a una professoressa s’intitola, assertivamente, “La scuola dell’obbligo non può bocciare”. E tutto ciò, ribadiamolo, contiene certamente una parte di verità, anche se oggi (forse) meno di qualche decennio fa. Eppure viene da chiedersi: è la valutazione in sé che non funziona, cioè che non è funzionale all’apprendimento, o piuttosto (come io credo) è il modo con cui essa viene di fatto concepita e praticata? Anche qui nulla di nuovo: la questione, infatti, non è se abolire o no i voti o qualsiasi altra pratica valutativa, ma chiedersi se e come la valutazione nella sua complessità ed eterogeneità di finalità, metodi e strumenti possa concorrere a migliorare il processo di apprendimento/insegnamento. Quello che voglio dire che è spesso sembra mancare la consapevolezza che il momento valutativo sia una componente fondamentale del processo di insegnamento-apprendimento. Si tratta, piuttosto, di operare un cambio di paradigma e di assegnare alla valutazione una funzione, prima di tutto, formativa. E anche su questo punto la letteratura è molto vasta e le buone pratiche molteplici (anche se non sempre, come si diceva, “sistemiche”).

Vi è infine un ultimo aspetto che vorrei affrontare, relativamente al perchè la valutazione generi spesso negli studenti stati di ansia e di frustrazione. Ovvio, essere valutati non piace a nessuno; mi pare interessante notare, però, che noi tutti (e i giovani in modo particolare) siamo immersi nel mondo dei “social”, che, a ben vedere, richiedono l’accettazione di un meccanismo valutativo costante, molto rozzo ed elementare, fatto di like (e delle sue varianti) e di numero di followers. Si tratta, a mio avviso, di una contraddizione ai limiti della schizofrenia: mentre alla scuola chiediamo di non valutare e denunciamo l’insensibilità degli insegnanti verso lo studente in quanto persona, accettiamo passivamente di essere immersi in un sistema, oggi molto pervasivo, dove tutto è ridotto, quantitativamente, a numero di like e di followers, e dove il successo (non formativo) è misurato in termini di pure cifre.

La valutazione (soprattutto quella autentica e formativa) richiede invece allo studente di mettersi in gioco e di confrontarsi con se stesso e con gli altri: nessuno può essere metro di se stesso, ed essere valutati implica innanzitutto uno sforzo al confronto e alla messa in discussione di sè. Ma anche negli insegnanti l’atto del valutare genera spesso fatiche e stati di ansia e apprensione, perché la valutazione implica, per chi valuta, un’assunzione di responsabilità. Si tratta infatti di un atto delicato e prezioso, che i buoni insegnanti compiono tutt’altro che a cuor leggero. In questo senso diventa fondamentale, per esempio, esplicitare e condividere fin da subito con gli studenti finalità e criteri della valutazione: si tratta di un primo passo passo verso una valutazione davvero formativa, una valutazione cioè che si ponga come compito precipuo quello di accompagnare il percorso formativo per intervenire e apportare miglioramenti al processo di insegnamento e apprendimento. Insomma, anche nelle pratiche valutative, ciò che fa la differenza sono la professionalità e l’autorevolezza del docente, il suo modo di gestire la relazione con gli studenti, di impostare e di condurre l’azione formativa.

Certo, non è questa la sola funzione che la valutazione possiede in ambito scolastico. I docenti, soprattutto in certi momenti dell’anno (e l’Esame di Stato è uno di questi), valutano anche per giudicare se e come certi risultati sono stati raggiunti, assegnando così alla valutazione una funzione sommativa e certificativa. Per spiegare la differenza fra queste due funzioni della valutazione, può essere utile ricorrere a una nota citazione: «quando il cuoco assaggia la minestra è valutazione formativa, quando la assaggia il cliente è valutazione sommativa» (M. Scriven). La valutazione sommativa è centrata quindi sui risultati di apprendimento (mentre quella formativa sui processi). In questo senso è interessata a valutare ciascuno nella prospettiva del tutti: mentre i processi di apprendimento possono essere diversi e non comparabili, i risultati lo sono. E allora si potrebbere dire che, all’Esame di Stato, i docenti, che hanno interpretato la parte dei cuochi, diventano soprattutto clienti. E anche questa sovrapposizione di ruoli così diversi è certamente un aspetto che può creare qualche disagio.

Come si vede, la valutazione chiama in causa, in ultima analisi, questioni complesse, che a loro volta ne richiamano altre, di fronte alle quali l’abolizione dei voti o dell’Esame di Stato non mi pare essere la direzione da imboccare per una loro risoluzione.

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