Una tovaglia ricamata all’ombra di Pinochet: su “Ho paura torero” di Pedro Lemebel
“Ho paura torero” di Pedro Lemebel (Marcos y Marcos, 2011), forse il più noto intellettuale cileno queer, è al contempo una delicatissima storia d’amore e un’esemplare vicenda di resistenza politica nell’America latina delle dittature: da una parte vi si narra l’incontro tra un maturo travestito – la Fata dell’angolo – e Carlos, un giovane militante del Fronte patriottico “Manuel Rodríguez” e, dall’altra, vi si ritrae con piglio grottesco, seppur sullo sfondo, la figura di Pinochet, alle prese con ricorrenti incubi notturni e logorroici sproloqui della moglie. La storia si svolge a metà degli anni Ottanta quando ormai le proteste contro il regime, instauratosi con il golpe del settembre 1973, vengono duramente represse e, pertanto, la resistenza è costretta alla clandestinità. É in questa congiuntura che la traiettoria esistenziale della Fata dell’angolo incrocia quella di Carlos, mettendo in cortocircuito destini individuali e collettivi nel racconto di una peculiare storia d’amore, narrata da uno scrittore che gli editori italiani non esitano a definire un “oppositore creativo e tenace del regime in tempi durissimi, testimone disincantato di un cambiamento dov’è più insidioso e altrettanto necessario difendere un’idea di libertà” (Tarolo-Zapparoli, Pedro Lemebel, maestro incantatore in Pedro Lemebel, Baciami ancora, forestiero, Marcos y Marcos, 2008, p. 10).
La Fata dell’Angolo: leggerezza e follia di una ricamatrice
La vicenda, narrata in terza persona, trova il suo indiscusso punto di forza nella figura della protagonista, che colpisce con tutta la forza di un travestitismo capace di rompere una scontata percezione binaria del personaggio. La Fata vive in una fatiscente soffitta della periferia di Santiago del Cile: fare la ricamatrice e accontentarsi di avventure erotiche occasionali le è sempre bastato, fino al momento dell’incontro con Carlos. Di politica, poi, non si è mai interessata: alle trasmissioni radiofoniche di opposizione preferisce programmi musicali sentimentali e nostalgici come “Al ritmo del cuore” e “Notti di quartiere” che le tengono compagnia finché ricama finemente biancheria su commissione per le signore altolocate della città. Carlos, alla ricerca di un luogo insospettabile per le riunioni clandestine del Fronte e di un nascondiglio per armi e volantini, provoca nella Fata uno sconquasso sentimentale tale da non potergli negare nulla di ciò che le chiede, per quanto non capisca chiaramente di cosa si tratti:
Le prime tre casse le lasciò in corridoio. Però lei protestò che lì ingombravano, che le portasse in camera da letto, le serviva giusto un tavolino per appoggiarci la radio. […] Le altre le distribuì nello spazio vuoto della sua immaginazione, come se stesse allestendo un set cinematografico, dicendo: Di qua, Carlos, di fronte al finestrone. No, Carlos, non così vicine che sembrano una bara. Più al centro, Carlos, come tavolini […]. Così, come un calabrone ronzante, girava per la casa avvolto nella sua stola di Sì Carlos. No, Carlos. Forse, Carlos. Non so, Carlos. Come se a furia di ripeterlo, il suo nome si ricamasse nell’aria cullata dall’eco della sua vicinanza. Come se il pedale di quella lingua mancina si fosse incantato su quel nome, chiamandolo, lambendolo, assaporando quelle sillabe, masticandole, riempiendola tutta di quel Carlos così profondo, di quel nome così ampio da lasciarla senza fiato, rannicchiata tra la C e la A di quel Carlos che illuminava con la sua presenza tutta la casa. (pp. 16-17)
La Fata, insomma, lo lascia fare, travolta da un innamoramento appassionato, insensato e irrinunciabile – che Lemebel rende con una “prosa vertiginosa e barocca” (G. Bizzarri) resa in modo esemplare dalla traduzione a quattro mani di Cortaldo e Mainolfi – e sembra dare per buone le fanfaluche o i “dopo ti spiego” con cui il ragazzo giustifica tanto i convegni notturni dei compagni nella sua soffitta, all’apparenza innocue riunioni di studenti, quanto l’accumulo di “libri” e altri improbabili oggetti.
Come si è accennato, la Fata dell’angolo sbarca il lunario ricamando per le ricche signore di Santiago, mogli di notabili e generali fedeli a Pinochet. Lemebel dedica un lungo, rilevante flashback all’apprendistato della Fata, dove si legge come l’uomo abbia imparato l’arte dell’ago e del filo dalla Rana, “una checca veterana di novanta chili che l’aveva accolta come una madre” (p.76):
Così, la vecchia Rana le aveva dato gli strumenti per guadagnarsi da vivere ricamando fazzoletti, tovaglie e lenzuola a punto croce, con il fusello, con lo sfilato e la spola che imparò a maneggiare da esperta in poco tempo. E la sua vita cambiò quando cominciò a ricevere ordinazioni per lavori ben pagati da negozi sciccosi e famiglie dell’aristocrazia che conservavano ancora l’usanza della biancheria ricamata a mano. E per questo fu costretta ad andarsene da quella casa, perché superò la Rana con i suoi disegni più nuovi, con il suo punto preciso, meticoloso e delicato, che colorava d’oro le stoffe con il suo ricamo di seta. (P. 77)
Centrale nello svolgersi della vicenda diviene pertanto un oggetto solo apparentemente marginale: la tovaglia che la Fata dell’angolo ha ricamato per la signora Catita, moglie del generale Ortazar, che la vuole sfoggiare in occasione dell’anniversario del golpe. Si tratta di un manufatto particolarmente elaborato, al quale la Fata ha dedicato tempo, cura e la fantasia di “mammoletta ricamatrice” e che ha però usato per un inaspettato picnic con Carlos al Cajón del Maipo. La Fata, ignara dei progetti del giovane, intenzionato principalmente a ritrarre con la macchina fotografica gli spostamenti sulla costa del dittatore cileno, accetta entusiasta e, oltre a indossare un vistoso cappello giallo intonato ai guanti a pois, porta tutto l’occorrente per lo spuntino en plein air, da adagiare sulla splendida tovaglia. É certamente uno di momenti più intensi di questa storia d’amore incompiuta e impossibile: da una parte la Fata vive con la pienezza della sua disincantata maturità un momento di solitudine esclusiva con Carlos: “ una fata vecchia e ridicola che se ne stava di lato, di profilo, mezza seduta, con le cosce strette, perché una brezza immaginaria non le sollevasse una gonna altrettanto immaginaria”; dall’altra il giovane, sulla via del ritorno, deve riconoscere di fronte a se stesso che “mai una donna gli aveva provocato un cataclisma simile nella testa. Nessuna era riuscita a fargli perdere tanto la concentrazione, con tanta leggerezza e follia” (p. 37) e posa delicatamente il suo maglione tiepido e odoroso sul corpo della Fata addormentata.
La svolta politica in una tovaglia
Il giorno dopo quell’uscita felice, la signora Catita telefona, astiosamente risentita per non aver ancora ricevuto la biancheria ordinata: la Fata promette di consegnarla il giorno stesso, prima di sera: “Doveva lavarla con lo sbiancante, inamidarla, stirarla e consegnarla con la morte nel cuore” (p. 52).
Sono quelle poche ore a segnare il discrimine che traghetta la Fata dall’inconsapevolezza rispetto alla lotta politica alla consapevolezza dell’opposizione, come se le azioni reticenti di Carlos avessero inoculato in lei il germe della resistenza; nel corso dell’attraversamento della città in autobus la Fata prende le difese dei giovani che contestano il regime:
Alla fine non riuscì più a trattenersi e le parole le uscirono a fiotti: Guardi signora io credo che qualcuno deve dire qualcosa in questo paese, con quello che sta succedendo, non va tutto bene così come dice il governo. Si guardi intorno: militari da tutte le parti come se fossimo in guerra, non si può dormire con tutti quegli spari. Si guardò intorno anche lei, e di colpo si spaventò per quello che stava dicendo, a dire la verità non si era mai impicciata di politica, però quello sfogo le era uscito dal cuore. (p. 60)
Il culmine di questa presa di coscienza avviene, tuttavia, nella casa del generale dove la Fata deve attendere, come sempre, che la Signora Catita si liberi dai suoi impegni di rappresentanza per riceverla e pagarla; mentre la Fata squaderna la tovaglia sul grande tavolo della sala da pranzo dove si dovrebbe tenere la cena di gala e ammira la bellezza del suo stesso manufatto, inorridisce immaginandola macchiata dai militari:
Così, con molta attenzione, tirò fuori la tovaglia dalla busta di plastica e la dispiegò come una vela sulla splendida tavola. Un chiarore aureo incendiò la sala mentre la fata lisciava le pieghe e allargava sui bordi il giardino ricamato di angeli e uccellini che volteggiavano sulla stoffa. […] E si fermò lì, incantata, immaginando la cena di gala che l’11 settembre si sarebbe tenuta su quell’altare. […] Nella sua testa di fata innamorata il tintinnare dei bicchieri si trasformò in frastuono di vetri rotti, e il liquido sanguigno cominciò a scorrere dai polsini degli allegri generali. Il vino rosso inzuppava la tovaglia, stagnava in pozze dove annegavano i suoi uccellini, dove sbattevano le ali invano i suoi cherubini, come insetti di filo naufragati in quel lurido festino. (p. 66)
Immaginare una simile tregenda sulla sua tovaglia e scappare dalla casa del generale Ortazar portandola con sé, rinunciando per sempre alla sua committente più danarosa, é tutt’uno: in un moto di dignità, che fa da pendant alla reazione avuta in autobus, la Fata riattraversa “la sua Santiago […] che si dibatteva tra gli abusi di una dittatura dura a morire e gli striscioni tricolori che fluttuavano nell’aria settembrina” (p. 68)
La grande Storia incrocia il destino della Fata dell’Angolo quando il Fronte popolare attenta, fallendo, alla vita del dittatore. I “sovversivi” decidono di farla espratriare in fretta essendo divenuta un’inconsapevole ma pericolosa complice: nell’ultimo incontro con Carlos, prima di lasciare per sempre il Cile canticchiando una delle canzoncine sentimentali a cui allude il titolo, la tovaglia torna a fare da sfondo a un tenerissimo picnic di addio tra i due, simbolo di un amore impossibile a cui la Fata sa rinunciare per sempre.
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