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diretto da Romano Luperini

Due film di luce e oscurità nella Germania nazista

A distanza di una settimana l’una dall’altra, sono approdate sui nostri schermi due opere cinematografiche ambientate nella Germania hitleriana negli anni della guerra mondiale sul fronte russo. Entrambe basate su fatti realmente accaduti, hanno il vigore dell’urgenza realistica ma presentano anche stile e forza espressiva differenti. Berlino, estate ’42 alterna, con un montaggio che infrange la successione temporale, il periodo della lotta e dell’amore con quello della prigionia e della morte della protagonista: non a caso la luce estiva si contrappone all’oscurità della cella, gli spazi aperti a quelli chiusi e la scelta narrativa di Andreas Dresen assicura il climax necessario per lasciarci in un doloroso presente, con la voce del figlio di Hilde Rake che non ha mai conosciuto né la madre né il padre. Le assaggiatrici si muove invece quasi sempre in interni e nell’oscurità, in una successione lineare del tempo e con una messinscena severa ma piuttosto orizzontale sul piano emotivo. La scelta di Silvio Soldini di girare in lingua tedesca è sicuramente encomiabile, ma probabilmente non è solo il doppiaggio a rendere il film non così memorabile. Ma vediamo le due opere nel dettaglio.

Berlino, estate ‘42 (Andreas Dresen)

Berlino, 1942. Mentre infuria la guerra sul fronte russo, l’assistente odontotecnica Hilde Rake entra in un gruppo di giovani comunisti oppositori al nazismo. Il tramite è Hans Coppi, che Hilde conosce a una festa e di cui si innamora.  L’estate si trasforma così in una storia di amicizia, amore e condivisione di una lotta clandestina fatta di volantinaggio e tentativi di comunicare informazioni con Mosca. Hilde e Hans si sposano ma presto vengono arrestati dalla Gestapo, interrogati e processati. La donna, che in carcere si mette volentieri al servizio degli altri, dà alla luce un figlio, che le sarà permesso di allattare fino al giorno in cui verrà giustiziata, alcuni mesi dopo il marito, nell’agosto del 1943.

Ispirato alla storia vera del gruppo antifascista “Orchestra rossa” composto da giovani leninisti tedeschi, il film è strutturato in un montaggio alterno tra la prigionia di Hilde e i flash back del suo rapporto con Hans e i suoi amici, con il criterio di un progressivo allontanamento temporale dall’epilogo. In questo modo il regista giustappone il buio della storia tragica al sole di un’estate che resta scolpita nella memoria di Hilde come un anelito di luce seminale, dove il lascito prezioso è costituito dal figlio (Hans come il padre) e dallo scrigno di valori che dovrà regalare al futuro. Berlino, estate ’42 è un’opera intima che cresce fino allo struggente finale, equilibrata nella rappresentazione storica, che evita il disegno abusato del nazista feroce ma non nasconde certo la ferocia del potere hitleriano. Il suo limite veniale è forse nella definizione dei personaggi di contorno nella parte “solare”, che non trovano il tempo e la scrittura per imprimersi nello spettatore e lasciare una traccia più profonda del loro transito nella storia. Ma la Hilde di Liv Lisa Fries regge il film quasi da sola, da minuta “dattilografa” clandestina piena di coraggio e dignità. Il suo desiderio di ritrovare quella luce dell’estate del 1942 ci tocca come una ferita ancora aperta, come il grido soffocato di una gioventù morta con il sogno di “fare guerra alla guerra”.

Le assaggiatrici (Silvio Soldini)

Germania, autunno 1943. Dopo la scomparsa della madre, la giovane berlinese Rosa Sauer – il cui marito Gregor è al fronte – raggiunge la casa dei suoceri in un villaggio di campagna non lontano dal quartier generale nazista Tana del Lupo, dove insieme ad altre donne è costretta a mangiare i pasti destinati al Führer: un “lavoro coatto” che le obbliga ad evitare l’avvelenamento di Hitler per mesi fino al tramonto del 1944, spingendole a trovare complicità e alleanze, solidarietà e sostegno anche nei momenti più delicati e difficili per alcune di loro.  Tratto dalla storia vera che la protagonista (in realtà Margot Wölk) ha reso nota soltanto nel 2012 e ispirato al romanzo omonimo di Rosella Postorino, il film è un racconto robusto e teso, quasi un kammerspiel austero e senza fronzoli e digressioni ammiccanti. Il fatto che sia stato girato in lingua tedesca aggiunge una nota di asciuttezza e verità, confermando il tentativo da parte del regista di cercare adesione e immedesimazione. È anche vero che forse la sceneggiatura a più mani e la gestazione non semplice spiegano una scrittura di respiro internazionale priva di colpi d’ala, nella quale anche la regìa fatica a infondere una forza espressiva più intima e una cifra stilistica più personale. Non si può discutere, peraltro, l’importanza storica di un racconto che alza il sipario sulla guerra vissuta dalle donne rimaste a casa e che hanno vissuto sulla propria pelle la follia nazista e il dolore della perdita di tanti mariti, fratelli e fidanzati mandati al massacro sul fronte sovietico. Anche se meno empatico rispetto a una storia che non è forse nelle sue corde naturali, Soldini conferma la sintonia con ritratti femminili capaci di inseguire la vita e la libertà in un mondo di uomini che seminano morte fisica e gabbie sociali.

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