
«STASERA IO VOGLIO PARLARE DA DONNA». Quando Alba De Céspedes era Clorinda
È una donna che vi parla, stasera. Una donna che ha lasciato la sua casa in due ore, si è cacciata in un treno all’alba, ha avuto giorni difficili fuggendo i tedeschi di paese in paese, e poi ha deciso di guadare il Sangro e traversare le linee di fuoco per venire da questa parte. Ma stasera io non vi parlo in veste di giornalista o di scrittrice. Stasera io voglio parlare da donna delle innumerevoli donne italiane che aspettano il ritorno dei loro uomini che sono quaggiù e che sono rimaste chiuse nel buio della separazione, senza notizie, senza promesse, senza date che pongano fine alla loro attesa. Tutti parlano agli uomini perché combattono e rischiano, ma alle donne che aspettano non è stato parlato finora. Ci vuol molto coraggio ad aspettare…
(Alba de Céspedes, È una donna che vi parla, stasera. La voce di Clorinda dalle radio libere di Bari e Napoli. 1943-1944 a cura di V. P. Babini,Mondadori 2024, p.3)
La Resistenza di Alba de Céspedes[1]
È un libro prezioso, il volume che raccoglie le veline scritte da Alba de Céspedes per i microfoni delle radio libere di Bari e Napoli. La scrittrice le conservò con cura, in una busta che fu insieme contenitore e sigla di quell’esperienza, su cui scrisse di suo pugno «Testi scritti da Alba de Céspedes-Clorinda – e letti dal nov.1943 alla liberazione a Radio-Bari, poi a Radio-Napoli». Valeria Paola Babini, curatrice del volume, le correda sapientemente di alcune lettere e alcune pagine tratte dai diari di quei giorni, che restituiscono la voce più intima di Alba accanto a quella battagliera di Clorinda (tassiano nom de plume); ma soprattutto le correda di un saggio illuminante (La Resistenza di Alba de Céspedes, appunto), che ripercorre non solo l’itinerario umano e artistico di De Céspedes, ma il logorante processo di Liberazione, tessendo una rete di relazioni fittissima e senza nodi, in cui la ricostruzione storica si intreccia alla riflessione culturale in una trama di singolare evidenza. La studiosa muove da un interrogativo da filologa scrupolosa: perché? «Perché Alba ha conservato tutte le veline? Forse immaginava o addirittura prevedeva la rimozione storica che sarebbe seguita all’impegno politico delle donne?» (p.VII).
(La storia) cancella e dimentica ciò che le donne hanno fatto, sono state e sono. Ovviamente Clorinda non è la prima né l’unica vittima di questa rimozione storica, né pochi sono gli ambiti disciplinari in cui la presenza attiva delle donne è stata cancellata o messa da parte. L’aveva presto temuto o quasi previsto un’altra scrittrice italiana, la fondatrice del premio Strega, Maria Bellonci, che di Alba de Céspedes era amica. Proprio sul numero speciale del dicembre del 1944 di «Mercurio» [la rivista ideata e diretta a Napoli da de Céspedes dal 1944 fino al 1948, ndR] (…) Bellonci riflette sulla difficoltà di essere stata donna durante la Resistenza, ma teneva soprattutto a precisare che finalmente, per le donne, impegnarsi, combattere occupandosi degli altri (…) non era stata l’ennesima espressione della cosiddetta naturale funzione materna, bensì una volontà di partecipazione sociale e politica alla storia del proprio Paese. (…) Questa rimozione, tuttavia, non è solo una questione di mancata giustizia: non rendere onore all’impegno sociale, morale, politico delle donne significa infatti lasciare difettoso, incompleto, inesatto, e dunque infedele, il quadro storico complessivo. (pp. IX-X) [sottolineatura dR]
Ed è proprio alla ricostruzione di quel quadro che il saggio contribuisce notevolmente. Babini si mette sulle tracce di Alba che, all’indomani dell’8 settembre, in fuga verso il Sud attraverso un Abruzzo martoriato ed eroico (cui giustamente Babini riserva pagine dedicate, XXII-XXVII), ha trentadue anni, ha subito un arresto da parte della polizia fascista per «aver detto liberamente quel che pensavo» («Mercurio», III, 27-28, novembre-dicembre 1946), è una scrittrice già molto affermata, tradotta in varie nazioni d’Europa e censurata in Italia, è la compagna di Franco Bounous, funzionario del Ministero degli Esteri, è madre di un figlio, che, nella fuga, è costretta a lasciare Roma, e in attesa di annullamento del matrimonio, contratto a quindici anni, con il conte Antamoro; ma soprattutto è «una persona politica» (così si definisce nei Colloqui, P. Carroli, 1993), nata e cresciuta in quella famosa famiglia cubana che alla politica aveva dedicato vita, risorse, idee, energie. Seguendola, Babini incrocia le traiettorie di moltissime personalità importanti dell’epoca, da Benedetto Croce ad Antonio Gramsci, da Natalia Ginzburg a Massimo Mila, da Fausta Cialente (anche lei impegnata in un programma radiofonico, ma per l’emittente britannica Radio Cairo) ad Arnoldo Mondadori a un giovanissimo Aldo Moro – difficile qui ricordarle tutte, ma impossibile dimenticarle, perché tutte ugualmente figure di «patrioti»[2]:
L’uso quasi esclusivo del termine «patrioti», con cui peraltro si apriva e si chiudeva la trasmissione L’Italia combatte!, vuole sottolineare che non c’è distinzione tra quanti, i partigiani, stanno combattendo con le armi e chi si è schierato, in qualsiasi modo, contro il nazifascismo, come la stessa Clorinda che per la libertà del Paese ha lasciato la penna – l’Alba scrittrice – per fare di Radio Bari prima, e di Radio Napoli dopo, la sua trincea. Da quei microfoni Clorinda definirà «Resistenza» la guerra che è stata affrontata a partire dall’8 settembre da tutta la popolazione: «un ragazzo a un angolo di strada, una donna dietro una finestra, un uomo senza uscire da una stanza. […] Tutti hanno resistito, ognuno a suo modo, al tedesco, hanno spianato la via ai liberatori». (p.XLV)
Ognuno di questi patrioti (un centinaio quelli raccolti intorno a Radio Bari, assai di più quelli incontrati per via) segna una tappa, aggiunge un tassello, consegna un lascito al patrimonio collettivo di valori, istanze, speranze, illusioni, conquiste, che la studiosa non solo puntualmente annota, ma riconosce come materia costitutiva di un progetto altissimo di rinascita etica, culturale e civile – laddove la parola «civiltà» assume inequivocabilmente per de Céspedes un significato preciso: non necessariamente «mondo comodo, mondo progredito» quanto piuttosto «l’intima civiltà di ogni individuo che si esprime col suo modo di vivere, col rispetto dei diritti e della vita altrui» e non solo con «treni d’alluminio, libri o statue» (p.152). A ragione osserva dunque Babini:
È ben chiara in Clorinda la necessità di promuovere, da subito, una rinascita etica dell’Italia uscita dalla guerra, al fine di creare una nuova, sorgiva coscienza civile: perché ciò che va riedificato non sono solo muri, strade, palazzi, ponti, ma anche l’idea della cultura come bene morale, alla cui realizzazione è indispensabile la partecipazione attiva delle donne. Insomma, in una Italia non ancora tutta liberata, dai microfoni delle radio libere Clorinda combatte già per il risveglio di una dignità non solo civile che si esprima in azioni politiche contro l’oppressore e il nemico, ma capace anche di calarsi all’interno della famiglia e dentro le relazioni affettive, e di promuovere l’emancipazione da un’arcaica (patriarcale) impostazione di vita. Non è però femminismo, il suo, è più semplicemente esercizio di democrazia: perché per Alba de Céspedes l’antifascismo non si esaurisce nella lotta contro l’oppressore nazifascista, ma dovrà farsi portatore di una nuova concezione della vita democratica, basata sulla responsabilità personale di tutti, indistintamente, uomini e donne. Valori, quelli della partecipazione e della parità, in cui individua lo strumento più efficace, l’arma più forte per minare alla radice ogni totalitarismo e affacciarsi liberi a un «mondo nuovo». (pp. XLVI-XLVII)
Davanti alla nostra coscienza
E tuttavia, sotto l’armatura di Clorinda, si agitano ripensamenti, dubbi, rimpianti, delusioni, rabbia, timori: perché «tutti, in quei momenti, ci trovavamo d’improvviso davanti alla nostra coscienza» (p.36). E la coscienza emette un verdetto di colpevolezza, per quello che altrove, dai microfoni di Radio Napoli, de Céspedes chiamerà «benessere a credito» (pp.145-147), la supina accettazione, appena velata di inutile ironia, delle grossolane o feroci imposizioni del regime in pro della salvaguardia della placida e comoda quotidianità:
Adesso ridete. Guardate ai fascisti come a personaggi che si muovono su un palcoscenico, in una vicenda che vi è estranea. E ridete. Ma siete colpevoli anche voi. Più ancora adesso, che avete mostrato di intendere quanto appieno quanto triste e umiliante fosse la vita, in Italia. Essi ruggivano dai balconi, ma sotto c’era qualcuno che li applaudiva, essi davano ordini, ma c’era qualcuno che li eseguiva, essi compivano azioni farsesche o delittuose, ma c’era qualcuno che gliele lasciava fare. Colpevoli siamo stati, tutti [sottolineato nel testo, ndR]. E voi sarete complici addirittura, adesso, se non farete qualcosa per liberarvene. Anch’io ho fatto parte, come voi, di un popolo pigro, indolente, pago della barzelletta e dell’ironia. E vi dico che non potremmo aver più rispetto di noi stessi, né pretendere rispetto o comprensione dagli altri, se non usciremo dall’inerzia e dal torpore e avremo come primo pensiero, ogni ora, quello della liberazione, della dignità dell’Italia. (p.138)
Non è più indulgente, quella coscienza, con le donne; anzi. Consapevole (come scriverà Eugenio Garin nel 1962) che «ogni servitù si risolve nella servitù di tutti» (qui cit. a p.XI, già in La questione femminile, Belfagor, 17, 1), Alba-Clorinda le sprona a riconoscere nella loro subalternità all’uomo l’impronta colpevole della loro stessa mano:
Tra coloro che m’ascoltavano v’erano, certo, molte donne. Forse per ascoltarmi hanno alzato la testa da un romanzo, hanno detto «Ha ragione, ma io sono una donna, che cosa può fare una donna?». È strano, non trovate?, come le donne che spesso vorrebbero essere eguali agli uomini, godere dei loro stessi diritti, che pretendono di poter avere la stessa libertà di pensiero e di azione, siano sempre pronte, invece, a ricordare il loro stato quando si tratta di accettare, al pari dell’uomo, alcuni doveri. Ve ne sono di quelle che hanno casa o figlioli ed escono al mattino, appesa a un braccio la sporta della spesa, all’altro un bambino piccino e al ritorno il fornello le aspetta e una cesta di panni da rammendare. Quelle sono (…) come i patrioti sulle montagne con i loro fucili. Ma altre ve ne sono (…) che non hanno niente da fare, e si lagnano che nei cinema ci sono sempre i soliti films (…). Vorrei, donne italiane, che voi pensaste a queste mie parole, e aveste un poco di disgusto della vostra vita comoda… (pp.142-144)
Ma, dismessa l’armatura, la coscienza lucida di Alba non fa sconti neppure a lei stessa, che trova l’onestà per raccontare, tra le pagine del suo diario, tutta la sua fragilità e la sua delusione:
22 marzo 1944
Ho lavato tutta la mattina, ho steso sul davanzale. Vorrei fare a meno di scendere a colazione (…). Invece debbo scendere, poi andare in ufficio. Non ho più voglia di parlare alla radio: è una buffonata, solo una buffonata ormai. Vorrei dire qualcosa di bello e di profondo, che m’ascoltassero, che fossi seguita. Ma la gente è distrutta, come me. Che non credo più in nulla, la patria non esiste, esiste solo un grumo di ambizioni personali. Il popolo, anche i politicanti non pensano affatto alla patria. E allora anche io voglio pensare solo al Bosco e a Franco… (p.119)
Con la stessa schiettezza, ancora nella primavera del 1944, scrive del figlio («Penso a Franzi, all’ingiustizia che ho commesso lasciandolo», p.120), del compagno («Non ho voglia di fare altra cosa che pensare a lui», p.121), del denaro («Quel che guadagno non basta per vivere. Non ho nulla, nessun indumento», p.125). Eppure (e qui l’incrocio tra la scrittura pubblica e quella privata si fa davvero rivelatore) mai de Céspedes smarrisce il senso profondo del suo operato, nel quale la «persona politica», la scrittrice e la donna devono trovare modo di convivere. Esemplare la lettera ad Arnoldo Mondadori, datata 1 giugno 1944:
Voi sapete quale orrore io abbia della vita dispersiva (…), come solo mi piaccia leggere e lavorare (…). Ebbene qui non ho più un’ora di vita mia, lavoro in ufficio (…); ma sentivo la necessità di fare qualcosa in questo momento, di fare qualcosa con gli altri. E oltretutto debbo ancora guadagnarmi da vivere. (…) Ho tanta voglia di scrivere. E forse tante cose da dire. E, mi sembra, assai più belle di quelle che ho dette finora. Ma qualcosa c’è che a tutti ci impedisce di riprendere a vivere liberamente come prima, quasi un purgatorio che si debba esaurire, nel quale tutto quello che era semplice prima è proibito. (…) A lungo, certe volte, rimango distesa a pensare alla mia vita passata, (…) al mio egoismo. (pp.126-128)
Quasi a scontare il senso di colpa del sopravvissuto, Alba prosegue pertanto la sua battaglia, convinta della «Necessità di rifarsi» come di primario, urgente bisogno individuale e collettivo:
Nessuno ha mai detto «Bisogna che tutti si rifacciano, a cominciare da me». Ognuno crede naturalmente di escludersi, presupponendo la propria semi-perfezione; senza capire che è proprio questo ragionamento presuntuoso a impedire il miglioramento del popolo italiano. Alludo a un miglioramento etico, naturalmente. Noi rischiamo, insomma, di essere simili ai fascisti, che predicavano un sistema di vita e ne conducevano un altro. (p.148)
Non posso aspettare d’aver tempo libero per scrivere
Ma nonostante l’adesione convinta, perseverante al ruolo di «donna che vi parla», dettato dalla «necessità di rifarsi», permane in Alba de Céspedes la consapevolezza profondissima della propria reale identità di scrittrice, quasi che partigiana, compagna, madre, giornalista e ogni altra funzione in cui sarà capace di declinarsi trovino genesi, senso, sostanza in quella percezione originaria di sé. Lo scrive chiaramente nel suo diario, annotando perfino l’ora di quella disarmante confessione:
21 aprile [1944], ore 18
Non posso aspettare d’aver tempo libero per scrivere. Non posso tra una voce e l’altra, tra un discorso e l’altro, come si fa un solitario. Ho bisogno di scrivere, sempre, quassù, nella stanzetta. S’è fatto il clima in me, s’è fatta matura a ogni ora la voglia di scrivere. […] Avrei voglia di scrivere e invece debbo andare a parlare alla radio. È una vita odiosa: che rimpiangerò. (p.122)
E di fatto scrittrice abilissima, ma soprattutto straordinaria narratrice Alba de Céspedes rimane pur nel racconto succinto cui la obbliga la misura vincolante di mezz’ora, il tempo della trasmissione radiofonica. Lo si potrebbe dire di ogni intervento, di ogni pagina; ma a volte (non di rado) le “tirate” di Clorinda (soprattutto a Radio Bari, per il programma L’Italia combatte!) si risolvono nelle descrizioni di un personaggio, di un paesaggio, di una situazione, di uno stato d’animo, che hanno di per sé, nella loro stessa orchestrazione, forza e capacità di penetrazione senza il ricorso alla retorica dell’esortazione, all’armamentario enfatico della incitazione al coraggio, alla lotta, alla dignità, alla resistenza. La forza è del racconto, nel racconto. «Questi che io vi racconto sono fatti veri, visti con i miei occhi. Non è propaganda» (p.33); ma quei fatti sono narrati come romanzi, per quanto compressi, sincopati; ma inequivocabilmente romanzi, in cui la scrittrice, pur nello spazio brevissimo che le è consentito, riesce a definire con esattezza azione, sistema dei personaggi, intreccio, tempo, luogo e, tracciando quelle coordinate sicure, a fissare vigorosamente un valore, un’idea, una potente domanda esistenziale. Alcuni tra questi episodi restano impressi nella memoria di chi legge come fossero miti, come gli snodi essenziali dell’Iliade o dell’Odissea, tanto che ai protagonisti, alle protagoniste si assegnerebbero istintivamente i nomi per antonomasia: Giovanna Di Paolo-La Madre (Storia di una madre, pp.70-74); Genoveffa-La Vedova (Si chiamava Genoveffa, p.112); Donato Fiore-Il Ragazzo Eroe (Mito del soldato tedesco, pp.109-112); L’Amante Italiana del Tedesco (Parole a una ragazza, pp.105-107)… È un repertorio cospicuo e denso, da cui traiamo soltanto due esempi, quello della Giovane Sposa e quello di Olinto-Il Buon Vecchio: in entrambi il sostrato davvero profondamente epico della narrazione si intreccia a movenze già neorealiste, in un impasto di straordinaria intensità:
Un giorno uno studente che aveva sette anni di servizio militare sulle spalle scappò d’improvviso. Disse soltanto: «Io me ne vado, passo le linee». E prese il sentiero che scendeva al Sangro. Allora la giovane sposa venne da me: «Andiamo anche noi, bisogna salvare i nostri uomini, salvarli». Mi guardava con gli occhi sbarrati e non era più quella ragazza alla quale piacevano i dolci e i vestiti di seta: il suo cappotto era logoro, le scarpe sfondate. «Salviamoci» diceva. Guardammo giù verso il fiume. Sapevamo di che si trattava: terreni minati, morti ancora insepolti, mitragliatrici in agguato. E il Sangro gonfiato di piogge recenti, la corrente, l’artiglieria che, in prima linea, sparava senza tregua. Era un rischio tremendo. Non si sarebbe giunti dall’altra parte, forse. Ma forse sì, invece: e allora non avremmo più dovuto fuggire nel bosco come traditori o vigliacchi, la vita sarebbe stata dura laggiù, ma libera. E noi eravamo giovani, potevamo ricominciare. Andammo dai nostri uomini, allora; anch’essi guardavano lontano verso il fronte. – Siamo pronte – dicemmo.
Fu così che loro ci presero pel braccio e incominciammo a camminare. (Il bosco, pp.34-37)
Dove sei tu, vecchio Olinto? Tutto è pace ormai nella tua casa: ormai i tedeschi sono lontani, gli uomini sono tornati dai boschi, col bestiame. A quest’ora tu dormi nel gran letto bianco che mi cedesti, sotto l’odorosa cornice di mele rosse conservate sul ramo. E non mi senti lo so: nella tua casa non c’è luce, né radio. E del resto tu che m’hai accolta e sfamato, non hai neppure chiesto il mio nome. Ma io voglio parlarti ugualmente, vecchio Olinto, per quell’abbraccio che ci desti, lì, sull’aia, e che fu il primo saluto, il primo cenno d’affetto che ci accolse nell’Italia libera. Il tuo abbraccio, la tua accoglienza, e la voce con la quale chiamasti per la casa tua moglie, Ninetta, Ninetta, a farci festa: «Questa è una gran giornata per la casa di Olinto!» dicesti. Finché ci sarà gente come te ci sarà sempre ragione di aver fede, gran fede nel popolo italiano. (…) Nota [aggiunta successivamente a mano e firmata A.deC.]: I tedeschi uccisero il figlio di Olinto che accompagnava un patriota travestito fino al loro campo. Li uccisero tutti e due, lui morì di crepacuore. (Gente d’Abruzzo, pp.41-43)
La voce di Alba-Clorinda risuona ancora oggi non solo in questi racconti, non solo in ogni velina, ma nelle azioni, nelle parole, nei pensieri verso il futuro di ogni persona che dignitosamente, coraggiosamente resiste e si oppone al cinico dilagare della «razzia» (p.85).
Perciò vi prego, miei cari ascoltatori, lasciate la radio accesa, quando noi vi parliamo. (p.86)
[1] Su questo blog si è intervenuti più volte a proposito del contributo imprescindibile delle donne alla Resistenza e, più in generale, alla costruzione della memoria collettiva di quegli anni durissimi. In particolare si ricordano gli interventi più recenti di Emanuela Bandini, Morena Marsilio e Gabriele Cingolani.
[2] Val la pena di riportare le parole pronunciate ai microfoni di Radio Londra da Paolo Treves il 5 gennaio del 1944, a proposito della parola “patrioti”, tornata di grande attualità: «Sì, questa parola “patrioti” dà maledettamente ai nervi ai neofascisti venduti ai Tedeschi, lo sappiamo. Dà loro ai nervi come la prova palmare, irrefutabile, viva, del loro tradimento, della loro diserzione. Per questo strillano come galline rauche, per questo perfino nei comunicati della prefettura di Milano si scrive minacciando le più tragiche rappresaglie contro “coloro che una radio nemica osa definire patrioti”». (cit. p.XLV, già in P. Treves, Sul fronte e dietro il fronte italiano, 1945, p. 83).
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