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Ecce infans. Diseducare alla pedagogia del dominio

Nel novembre 2023, per Novalogos, è uscito il volume di Marco Maurizi, Ecce infans. Diseducare alla pedagogia del dominio. Pubblichiamo l’introduzione, ringraziando l’autore e l’editore per la disponibilità.

Introduzione

Questo libro rappresenta un omaggio che sinceramente rivolgo alla infanzia e all’età dell’adolescenza: la mia, come quella di tutti. Non perché le forme della vita non-adulta siano le stesse per tutti: come se si potesse darne una teoria, come se del tempo che precede l’età della ragione potessimo disporre nella forma dell’oggettività o di una astratta universalità. Al contrario, l’idea che guida le pagine di questo libro è che ciò che va salvato di quell’esperienza e reso condivisibile attraverso il concetto sia proprio ciò che in essa sfugge alla presa della razionalità, soprattutto della razionalità tecnocratica che si incarna in molte teorie pedagogiche. Alla logica di tale inappropriabilità sono destinate le indagini che seguono. Esse vorrebbero definire l’ideale di una diseducazione, cioè di un attivo rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di ciò che di necessariamente incompiuto c’è nell’infanzia. L’esito, insomma, di una pedagogia critica o, se vogliamo, una anti-pedagogia.

Questo tentativo paradossale, al limite della mistica, è maturato in chi scrive a partire dalla sua esperienza di educatore – come genitore e come docente –, un’esperienza in cui l’infanzia e l’adolescenza sono apparse sempre più come processi dialettici e contraddittori, destinati a rimanerci estranei tanto più quanto pretendiamo stringere la nostra presa su di essi, ridurli a schema, formula, regola. E proprio in questo sta il fondamentale omaggio che qui si rivolge all’irrequietezza del tempo senza tempo che ci siamo lasciati alle spalle. Perché nel modo in cui il pensiero cerca di far sorgere di fronte a sé l’oggetto della propria indagine questo si mostra non come qualcosa di “esterno” di cui si possa disporre in modo scientifico e reificante ma come traccia di un’interiorità in conflitto, al tempo stesso perduta eppure sempre presente, un doppio irrequieto che sfugge al binarismo burocratico di ogni logica e scienza dell’educazione.

Solo inseguendo questa tensione irrisolta è possibile, riteniamo, essere giusti con l’infanzia, lasciar emergere il bambino senza ridurlo all’esangue fantasma della nostra manipolazione intellettualistica. Ecce infans, dice il pensiero disponente e così lo perde per sempre. Eppure questo gesto di evocazione del bambino è anche l’inaggirabile, il compito che la Ragione non può esimersi dal mettere in opera: perché tale esigenza parte da una mancanza che essa reca dentro di sé. Occorre allora pensare il bambino, non per misurarlo, ma perché esso possa farci da misura: perché nel momento in cui il nostro interesse si rivolge a lui, come educatori o genitori, è chiaro che ciò che stiamo perimetrando, nell’atto stesso in cui ci interroghiamo, non è tanto chi abbiamo di fronte ma chi siamo noi e come intendiamo atteggiarci rispetto al nostro essere-stati. L’immagine del sapere che ne emerge, e che abbiamo cercato di delineare nei saggi che seguono, è dunque quella di una pedagogia dell’età adulta o di una pedagogia negativa, critica, volta all’emancipazione della razionalità pedagogica dal feticcio stesso dell’infanzia che la affligge.

Nella prima parte di questo libro (“Pedagogia della diseducazione”) proveremo a mettere in discussione l’immagine statica del bambino, la sua natura di oggetto del sapere per mostrarne la struttura intimamente dialettica, il suo essere parte costitutiva di quella storia del dominio in cui si sostanziano i grandi trionfi e, al tempo stesso, le laceranti sciagure della civiltà. Nella seconda parte (“La scuola della crisi”) affronteremo l’altro polo di questo rapporto: il docente, l’istituzione scolastica, la forma generale del sapere e della cultura che si tratta di trasmettere, mostrando come anche questi necessitino di una ridefinizione radicale, debbano cioè essere attraversati dalla negazione, riscoprire la propria natura intimamente conflittuale. Sarà l’occasione per ribadire, e pare ce ne sia bisogno, la centralità ineludibile della scuola pubblica e dell’insegnamento come momenti di rottura dell’ordine capitalistico che ne minaccia l’autonomia. Vedremo come non si possa parlare, se non astrattamente, di libertà del bambino e dell’adolescente se non la si mette essenzialmente in relazione con quell’altra libertà, quella dell’insegnante, che solo apparentemente la limita dall’esterno.

Non si fraintenda dunque questo discorso come una celebrazione del “fanciullo interiore”. Né come una sorta di teleologia dell’infanzia dal sapore primitivista. Tutt’altro. Certo, l’idea che i bambini vadano “protetti” dal modo di pensare degli adulti è una convinzione molto diffusa. Ma è un pensiero non solo reazionario – anche quando viene sbandierato da sedicenti anarchici o progressisti – ma completamente ignaro di cosa sia la mente infantile. L’infanzia non è né una tabula rasa su cui si iscrivono dei contenuti dall’esterno, né uno scrigno che racchiude chissà quale tesoro da proteggere. Come tutte le cose umane non è predeterminata né dall’interno, né dall’esterno. Non veniamo “plasmati” dalla famiglia o dalla società, esattamente come non nasciamo con o ci creiamo identità e idee da qualche misteriosa sorgente spontanea interna.

Occorre ammettere che la nostra strutturale fragilità e apertura verso l’esterno fa parte ontologicamente della condizione umana, così come il fatto che nasciamo in grado di negoziare il nostro essere più intimo nonostante la pressione cui siamo sottoposti. Chi vuole “proteggere” i bambini li fa sempre più stupidi e meno liberi di come sono in realtà. È vero peraltro che la mente infantile reagisce all’intelligenza e va alla ricerca di ciò che sente mancare alla propria libertà. La libertà è sempre qualcosa che eccede il mio essere immediato, altrimenti è un idolo. In gioco è sempre quell’anelito alla libertà che precede ogni contenuto dell’esperienza umana perché è piuttosto ciò che la rende possibile in quanto umana. Non c’è niente di programmabile nell’infanzia perché che essa si accomodi all’ordine esterno o lo rifiuti in tale gesto inequivocabilmente si esprime la potenza di una libertà che cerca la propria forma. Noi, gli altri, i familiari, gli amici, i docenti, la scuola, lo Stato siamo solo il tramite attraverso il quale quel possibile misura lo spazio della propria realizzazione. Che ogni volta declina al singolare una libertà che non può esistere se non come universale, come processo collettivo. L’infanzia è l’incompiuto perché in essa l’umanità contempla il proprio possibile. Compito degli adulti non è preservare una qualche purezza dalla contaminazione dell’esistenza, bensì contribuire a che quel possibile si realizzi e sia in grado, senza violenza, nell’atto stesso in cui dice “io”, di intendere “noi, tutti”.

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