Sul Narratore postumo di Sergio Zatti
Il volume di Sergio Zatti Il narratore postumo. Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale (Quodlibet, 2024), fin dal sottotitolo manifesta un intento onnicomprensivo: un’eco auerbachiana (Mimesis, la realtà rappresentata nella letteratura occidentale).
Nonostante la mole (oltre 500 pagg.), è un saggio la cui lettura risulta molto gradevole: la scrittura è affabile, arguta e conversevole e il rigore critico e teorico non è mai soverchiante, in aperto dialogo con una pluralità di voci critiche, da Lejeune a Starobinski. Il titolo allude alla condizione paradossale di ogni autobiografia: l’incompiutezza della vita, l’impossibilità di narrarne la fine, la pretesa di fedeltà e di verità della memoria a fronte della sua inevitabile labilità e deformazione. La triade del sottotitolo Confessione, conversione, vocazione rinvia ai codici letterari con cui il magma del vissuto memoriale in un testo può trovare una forma: la scena confessionale e giudiziaria e la scena della conversione, intesa nel senso di autocoscienza trasformativa, o metànoia. Sul piano del metodo, il libro è fondato sull’imperativo di Jameson, che di Auerbach è stato allievo: per descrivere e interpretare il testo autobiografico, forme e temi si debbono sempre storicizzare.
In estrema sintesi, l’ipotesi storicizzante di lunga durata che regge il libro è la seguente: nell’antichità classica la “dicibilità” delle vite individuali in letteratura è ammessa solo in quanto esemplare e l’infanzia è inessenziale; in epoca cristiana il racconto del sé acquista una sua dicibilità grazie alla retorica del proselitismo religioso agostiniano; nella modernità il racconto dell’io viene secolarizzato e democratizzato, con irruzione della centralità dell’infanzia. Nella nostra età ipermoderna, questa secolarizzazione e democratizzazione dell’espressivismo dell’io trova infine nel narcisismo dei social il suo paradossale inveramento.
La breve Premessa, in cui si esplicita il debito con il magistero di Francesco Orlando a cui il libro è dedicato, è seguita da quattro parti. La prima, del titolo, Due confessioni per iniziareè dedicata ai due archetipi del genere: Agostino e Rousseau. Pur dando spazio a numerosi esempi premoderni, da Petrarca a Tasso, la vicenda delle scritture dell’io ricostruita da Zatti ha il suo vero e proprio epicentro moderno nelle Confessioni di Rousseau, a cui è dedicato il paragrafo dal titolo scherzoso Rousseau: aggiungi un posto a tavola. Zatti seleziona e interpreta magistralmente alcuni episodi dal libro roussoviano: due storie giudiziarie e due romanzetti d’amore. Si trattadella celebre scoperta del piacere legato alla punizione (la sculacciata), l’episodio del pettine spezzato e la scena del nastro rubato, del furto del quale Jean-Jacques accusa ingiustamente la cuoca Marion, la brava ragazza di cui è innamorato. La falsa, infame accusa ha a che fare in modo perverso con il desiderio: e il racconto (la scrittura) non è altro che una tarda soddisfazione differita di quel desiderio. Le confessioni dell’io inoltre corrispondono a un conflitto storicamente determinato: Jean-Jacques sedicenne, domestico in una casa nobiliare illustre a Torino nell’inverno 1729, vive un’avventura sociale e sentimentale analoga a quella di Julien Sorel: posa gli occhi dove non gli sarebbe consentito posarli, sulla giovane padrona dalla pelle bianchissima, riesce a servirla a tavola e poi a guadagnarsi un suo sguardo, perché riesce a dire la sua – da servo-intellettuale –, ma finisce anche col versare l’acqua per aver troppo riempito il bicchiere: dietro lo schermo amoroso il racconto roussoviano è dunque una illuminazione politica, poiché il desiderio erotico è una trasgressione della gerarchia sociale di un uomo del Terzo Stato.
La Parte seconda è dedicata alla Fondazione moderna del genere autobiografico.
È soprattutto il quarto capitolo che a mio parere risulta decisivo sul piano degli strumenti teorici e ermeneutici: Spazi della memoria e oggetti epifanicidove si fa sentire in modo più marcato l’eredità di Orlando. Si tratta di una eredità assunta in modo non dogmatico e del tutto libero e originale sia nella contaminazione dei modelli teorici che nello stile, che in Zatti non è geometrico e sequenziale come accade nel maestro, ma saggistico e narrativo.
Di Orlando viene assunta soprattutto la pertinenza storica delle costanti tematiche e formali. Nella rappresentazione letteraria e memoriale di spazi e oggetti, i relitti del passato individuale divengono, al contempo, macerie di un ordine sociopolitico precedente: come accade a esempio in Chateaubriand, nel cui capolavoro (Memorie d’oltretomba) la rivoluzione francese interviene a conferire una dimensione traumatica al tempo storico che muta, o come accade in Marx che nel Diciotto Brumaio, dopo il fallimento della rivoluzione del ‘48 e il colpo di stato di Luigi Bonaparte, commenta: “della vecchia rivoluzione non circolò altro che lo spettro; e questo spettro continuerà ad aggirarsi nelle generazioni successive” (p. 127).
Sulla scia di questo fantasma storico, i confini del genere autobiografico nella lettura di Zatti divengono così permeabili e così porosi da includere I fiori del male, il libro capitale della poesia moderna europea. È qui che nel Narratore postumo ci si concede la massima libertà interpretativa: a proposito de Il cigno di Baudelaire, Zatti si serve infatti a fondo di Benjamin (che a Orlando non piaceva troppo, per la sua asistematicità aforistica). Poesia della trasformazione urbanistica e del trionfo dell’inautentico, Il cigno è allegoria dei traumi memoriali e delle amnesie della modernità, come accade anche in Infanzia berlinese di Benjamin o negli oblii traumatici che abitano i testi più recenti, di Perec e di Sebald.
Centrale, inoltre, è il modo in cui Zatti dà conto del nesso fra le scritture dell’io e le scoperte di Freud (p. 165 e sgg.). Gli apporti della psicoanalisi allo studio dell’autobiografia messi in luce nel libro sono il paradigma indiziario, la valorizzazione freudiana del dettaglio, l’après coup lacaniano, o azione differita, in cui ha sede la concezione freudiana della temporalità: una temporalità secondo cui la coscienza “costruisce” il suo passato, ovvero ne rielabora il senso in funzione del proprio progetto presente, come accade ai “ricordi di copertura” che funzionano come “fabbricazioni” del soggetto.
Un altro interessante tratto del libro, che attualizza la lezione controcorrente di Orlando, è la polemica antifoucaultiana: è infatti venuto il tempo di riconoscere che il successo planetario di Foucault negli studi culturalisti presenta dei forti limiti sia nella prospettiva di una critica politica del presente, che di una critica letteraria – oggi per lo più ignorata o considerata superata – incentrata sul riconoscimento della coesistenza conflittuale di più significati nel testo. Questa salutare presa di distanza dalle mode culturali riguarda la scena della confessione, uno dei codici con cui si semantizza la scrittura dell’io. Nel capitolo La parola confessionale (pp. 194-209), si argomenta che la confessione – che nei giansenisti e nei moralisti francesi è veicolo di introspezione – in Sorvegliare e punire è trattata da Foucault in modo univoco, solo come dispositivo del potere pastorale repressivo che controlla la moralità sessuale. A Foucault, Zatti oppone Jameson (p. 185) che ha contestato la semplificazione di questa impostazione sottolineando viceversa la natura complessa della forma culturale della confessione che, pur nata dagli istituti repressivi cattolici, in un testo autobiografico può essere ambiguamente intessuta di potenzialità liberatorie: a partire da Rousseau, in una formazione di compromesso.
Il “duttile storicismo” che Zatti assume dai suoi modelli (soprattutto Auerbach e Orlando) può insomma aiutarci a riportare la nostra attenzione, dopo mezzo secolo di egemonia di studi culturali contenutistici e di superficie, sui livelli di senso nei testi e sulla storicità delle forme (p. 259), a vantaggio della rappresentabilità testuale del conflitto entro l’individuo in rapporto ai conflitti sulla scena della storia.
Il libro, che spiega molto bene comela mercificazione del mondo abbia a che fare, nella modernità, con le amnesie e con gli spettri della memoria, lascia aperta tuttavia una questione capitale, a cui Zatti accenna (pp. 205-209): il significato antropologico e politico delle dimensioni assunte dal “racconto dell’io” nel nostro secolo ipermoderno, in cui la cultura del narcisismo e l’espressivismo diffuso dilagano.
Zatti interpreta il motto “esprimi te stesso” che sembra permeare il racconto di sé nella sfera dei social come iperbole della democratizzazione e della secolarizzazione iniziate con Rousseau, secondo un’idea di “democrazia espressiva” (p. 205). Dati gli esiti barbarici dell’ipercapitalismo, la soggettività autorappresentata digitalmente non mi sembra un prolungamento di quella borghese e roussoviana, secolarizzata e democratizzata, ma piuttosto un suo pervertimento postdemocratico. Davanti alle tragedie contemporanee, al collasso della sfera pubblica democratica e soprattutto al ritorno della guerra autorizzata e conclamata – tutto è da fare: probabilmente occorre di nuovo agire per convertire l’io in noi, come accade a esempio, secondo Romano Luperini, in Gli anni (2008), l’autobiografia generazionale di Annie Ernaux.
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