Voglio solo evidenziare che età vulnerabile possano essere i quattordici anni. Non più bambini, e non ancora adulti, giochiamo a rimpiattino fra quello che siamo stati e quello che stiamo per diventare.
(Paul Auster in Esperimento di verità, Einaudi 2005, trad. di M. Viardo, M. Bocchiola, I. Legati, p.51)
RILEGGENDO PAUL AUSTER
Come spesso accade, quando ci lascia qualcuno che abbiamo molto amato, ci mettiamo sulle sue tracce: un modo per impedirgli di andare via. Così anch’io, alla morte di Paul Auster. Ripercorrendo a ritroso, a partire dal romanzo estremo (Baumgartner, Einaudi 2023; ne accennavo qui), l’itinerario scabro ed elegante della sua narrativa, mi sono ritrovata per le mani una raccolta smilza di brevissimi racconti. Sono riuniti sotto il titolo di Esperimento di verità e suddivisi in quattro sezioni: Il taccuino rosso, Perché scrivere?, Denuncia di sinistro, Vuol dire niente, con Il racconto di Natale di Auggie Wren come appendice. Sottotitolo eloquente: Come un piccolo contrattempo può cambiare il corso della nostra esistenza. Li acquistai dopo aver letto Trilogia di New York e Il libro delle illusioni: disarmata dall’ironia di quelle pagine (rivelazione tragica delle assurdità dell’esistenza), forse cercavo un accesso più agile e confortante. Non ce lo trovai; anzi: il racconto asciutto, la misura solo apparentemente aneddotica mi diedero la sensazione che suscita qualsiasi prodotto concentrato: odori, sapori, colori, morbido ruvido freddo caldo percepiti con una intensità consistente, spessa, corposa; a volte lancinante. Credo sia stato quello smarrimento di donna già adulta a tenere quei racconti lontani dalle mie classi, come si cerca di proteggere un bambino dalla sostanza inquietante annidata dietro le forme rassicuranti del quotidiano. Ma oggi leggo meglio nel mio smarrimento di adulta e nella inquietudine dei miei allievi e delle mie allieve; comprendo meglio le conseguenze della invenzione della solitudine; vedo avverarsi le profezie di disintegrazione di Morante e di Calvino e cerco in quel concentrato l’antidoto, per portarlo nelle classi e sperare che ne assumano almeno un po’. Quest’anno provo addirittura a portarlo nella mia prima, alle prese con l’apprendimento degli strumenti della narrazione – del sé e dell’altro-da-sé.
LEZIONE N. 1: CONCENTRATO VS POLVERE
È noto (ma giova ricordarlo) quel che scriveva Morante in Pro o contro la bomba atomica:
…si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi.
Si insinuerà che il primo germe di questa tentazione è spuntato fatalmente nel nascere della specie umana, e si è sviluppato con lei; e perciò quanto oggi avviene non sarebbe che la crisi necessaria del suo sviluppo. (…) E difatti alcuni psicologi parlano di un istinto del Nirvana nell’uomo. Però, mentre il Nirvana promesso dalle religioni si guadagna per la via della contemplazione, della rinuncia a se stessi, della pietà universale, e insomma attraverso l’unificazione della coscienza, al suo maligno surrogato piccolo-borghese (…) si arriva appunto attraverso la disintegrazione della coscienza, per mezzo della ingiustizia e demenza organizzate, dei miti degradanti, della noia convulsa e feroce… (E. Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi 1987, pp.99-100).
In quella medesima deflagrazione affonda lo sguardo Italo Calvino e scorge nella letteratura una possibilità estrema di recuperare una forma, un disegno, una prospettiva. Anche le sue parole ci sono note:
L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo. La poesia è la grande nemica del caso, pur essendo anch’essa figlia del caso e sapendo che il caso in ultima istanza avrà partita vinta. (I. Calvino, Esattezza in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori 1993, p.78)
Forse sono parole difficili da portare in una prima classe, ma noi docenti le portiamo comunque con noi: sono chiavi d’accesso a quella realtà polverizzata in post, clip, screenshot, selfie, reel nella quale le nostre allieve e i nostri allievi (per tacer di noi) vivono immersi come in un liquido amniotico nuovo, ma sfuggente e ingannevole, perché non protegge dai traumi esterni ma li produce o li insabbia con la stessa facilità. Da insegnante sento allora quasi il dovere di porgere alla mia classe una lezione di essenzialità, di brevità diversa da quella omissiva e semplificatrice dello short message o dell’emoticon; una brevità densa, capace di compattare, sottraendoli al caso, i frammenti sparsi della realtà in un aggregato nuovamente, improvvisamente significante. Di questa brevità, di questa compattezza Auster è veramente maestro e i suoi Esperimenti di verità sono bussola e guida. Rapidissimi, conversevoli, si prestano alla lettura ad alta voce. Raccontano, con il piglio accattivante dell’aneddoto, di piccoli accadimenti apparentemente senza importanza, casuali, intrisi di quotidianità (coincidenze inspiegabili, incontri fortuiti, omonimie sorprendenti, ritrovamenti insperati…), catturando immediatamente l’attenzione; ma subito disattendono le aspettative della lettura veloce, mordi-e-fuggi, al contrario dilatando per quanto possibile lo spazio di significazione di un attimo, trasformando il pulviscolare granello di tempo in un nucleo di spessore quasi fisico:
A me sembra che un momento del genere meriti di prolungarsi – sia pure per pochi secondi – perché la cosa sul punto di succedere era talmente insolita, talmente peregrina nella sua sfida alle probabilità, che prima di lasciarla andare via viene voglia di gustarsela ancora per un po’. (p.66)
LEZIONE N. 2: SCRIVERE PER FISSARE IL MOMENTO
Dunque, immediatamente connessa alla lezione di compattezza è quella (già oraziana) sul tempo: Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem (Odi, I, 11, 8). Nel bellissimo Racconto di Natale di Auggie Wren, un tabaccaio di Brooklyn, entrato in qualche confidenza con lo scrittore, gli mostra la sua collezione di fotografie: lo stesso angolo tra una Avenue e una Street fotografato per dodici anni consecutivi tutti i giorni alla stessa ora. Sconcertato, lo scrittore sfoglia gli album senza sapere cosa dire finché il tabaccaio lo riprende:
– Vai troppo svelto. Se non rallenti non riuscirai mai a capire.
Naturalmente aveva ragione. Se non ci diamo il tempo di osservare, non riusciamo a vedere nulla. Allora ho preso un album e mi sono sforzato di stare più attento ai dettagli, di notare i cambiamenti del tempo, di osservare le diverse angolazioni della luce col passare delle stagioni. Infine sono riuscito a cogliere le variazioni del traffico e a prevedere la sequenza dei giorni (…). Poi a poco a poco ho cominciato a riconoscere la gente che si vedeva in secondo piano, i passanti che andavano al lavoro… (pp.86-87)
La scrittura ha per Auster la stessa funzione che hanno le foto per Auggie: afferrare l’attimo e fissarlo, sottraendolo al fluire indistinto del tempo, per tentare di coglierne i particolari e il senso. Ma Auster lo racconta senza enfasi, senza autoinvestiture da vate, senza trarre dagli eventi premonizioni come un aruspice dalle viscere animali; semplicemente ripesca nella memoria un episodio che potremmo rintracciare (uguale e diverso) nella memoria di ognuno di noi, e anche dei nostri giovani allievi. Racconta, per esempio, quando, ragazzino, si trova a dover rinunciare all’autografo del suo idolo del baseball perché sprovvisto di matita:
Dopo quella sera, dovunque andassi incominciai a portare con me una matita. Mi abituai a non uscire mai di casa senza essermi accertato di avere una matita in tasca. Non che avessi progetti definiti in proposito di quella matita, ma non volevo più farmi sorprendere. Ero già stato colto impreparato una volta, e non avrei permesso che succedesse di nuovo.
Se non altro, gli anni mi hanno insegnato questo: se hai una matita in tasca, ci sono buone probabilità che un giorno o l’altro ti venga la tentazione di usarla.
Come mi piace dire ai miei figli, fu così che diventai uno scrittore. (p.60)
Magari non ci aspettiamo che i nostri allievi e le nostre allieve diventino scrittori e scrittrici; ma che comprendano il valore della scrittura, quello sì. E anche che si mettano a osservare con più attenzione la vita che gli scorre tra le mani, ad ascoltarla per un tempo appena più lungo di un videoclip, finché gli venga la tentazione di usare una delle molte penne che hanno nel borsellino (e ne hanno di bellissime), di usarla come scanner e non solo come post-it.
LEZIONE N. 3: CERCARE LO SWING
Sono dunque “lezioni” – quelle di Auster – che si è voluto chiamare così per dire la docilità con cui il racconto si porge al lettore (anche a quello giovanissimo di una prima classe liceale) portando con sé, dentro di sé, la dimensione di un tempo diversamente scandito e orientato. Ma il narratore non ha cattedra da cui parlare né vangelo da annunziare. Al termine di ciascuna fabula non c’è l’ ʽo μῦθος δηλοῖ ὅτι, la morale che condensi il significato della storia narrata e induca ad aderirvi o a prenderne rigorosamente le distanze. C’è l’epilogo e basta, il finale – atteso o inatteso – che naturalmente conclude il racconto, nel quale ognuno è chiamato a leggere (legĕre) estrapolandone la lectio. E può darsi pure che, di lectio, non se ne tragga alcuna, perché «it don’t mean a thing if it ain’t got that swing. Vuol dire niente se non ha quello swing» (p.77; che è anche il titolo di una magnifica canzone di Duke Ellington, interpretata in modo travolgente da Ella Fitzgerald ed espressamente citata da Auster). Forse è proprio questo l’unico insegnamento: nei casi più disparati dell’esistenza cercare lo swing, l’impulso, lo slancio, le cadenze vitali. Esemplare è ancora una volta il Racconto di Natale (destinato a diventare anche un film importante di W. Wang, con sceneggiatura dello stesso Auster), del tutto privo di echi dickensiani nonostante racconti di solitudine e miseria e contenga dentro di sé, come una matrioska, più racconti: il tabaccaio-fotografo, di cui s’è già detto, lo scrittore in cerca di una storiella natalizia che soddisfi il New York Times e ancora il tabaccaio che gliene offre una, spacciandola per vera, la storia (edificante a metà) di come si fosse procurato, la sera di Natale, la macchina fotografica rubandola a casa di una vecchia cieca, a cui finisce per fare compagnia nella notte santa per eccellenza, illudendola di esserne il nipote:
– Ecco, adesso la novella di Natale ce l’hai, vero?
– Sì, – ho risposto, – penso di sì.
Vedendo Auggie sorridere malizioso con una luce misteriosa e intimamente compiaciuta negli occhi, m’è sorto il dubbio che la storia fosse tutta inventata, ma al momento di chiedergli se mi avesse preso in giro ho capito che non me l’avrebbe mai detto. Era riuscito a farsi prendere sul serio, e quella era l’unica cosa che contava. Nessuna storia è falsa finché una sola persona ci crede. (p.93)
Potrebbe essere la traccia per il prossimo compito in aula… Ragazze, ragazzi, siete avvisati.
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