Abitanti di Neverland, in cerca di futuro: “La straniera” di Claudia Durastanti
Lo stigma dello straniero e il coraggio della diversità
Che significa sentirsi stranieri? Non sempre ha a che fare con il trovarsi fuori dal proprio Paese, in un luogo dove si parla una lingua diversa e si respira un’aria che ti contamina di solitudine. Vivere in una città dai meccanismi incomprensibili, certo, può far sentire isolati, come «dall’altra parte del vetro». Ma in realtà, sentirsi stranieri è una sorta di stigma interiore: te lo porti dentro come una leggera incrinatura nella voce, nella postura, come un reagente chimico dell’animo che può provocare una reazione inattesa. Come un odore che ti sorprende, appena girato l’angolo. Credi che gli altri avvertano questa tua mutilazione, ma non sempre è così. «Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo», altrimenti «è un colpo di pistola che ci siamo sparati da soli» (pag. 179).
La straniera di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019) racconta una storia familiare in cui si declina la diversità e per questo, a distanza di cinque anni dalla pubblicazione, resta un libro che ci riguarda.
I genitori sono muti, legati e avversi tra loro in modo primitivo; lei è una bambina che sfugge la scuola e scappa sui tetti a leggere per ore; la sua famiglia è di «emigranti al contrario»: da Brooklyn tornano in Basilicata a fare i poveri “strani”, con le Nike e i crampi allo stomaco per la fame. Quando la protagonista va all’estero le dicono: «Ah, Basilicata! Christ stopped at Eboli!» (pag. 141), immaginandosi cammini a dorso di mulo e antichi riti stregoneschi. Poi lei diventa un’adulta, va a vivere a Londra, ma non sarà mai parte di un sistema, perché ha una musica dentro che gli altri non sentono e rotte migratorie che la conducono sempre altrove.
La vergogna di non appartenere
In Italia nel 1940 fu pubblicato un altro libro intitolato La straniera, era di una scrittrice polacca, Maria Kuncewiczowa; poi fu riedito in Inghilterra col titolo The stranger. Così ancora oggi l’edizione inglese de Lo straniero di Camus non può intitolarsi allo stesso modo e si chiama The outsider, il “fuoriuscito”. I personaggi di questi libri, però, erano diversi dalla nostra protagonista: quella della Kuncewiczowa era regale, sebbene detestabile; Camus aveva alle spalle un intero movimento filosofico. Gli stranieri di oggi vivono un’altra storia, «fatta di vergogna, e di un senso di inadeguata appartenenza» (pag. 177). Come si vince questa malattia? Come riparare questo «disallineamento», questo «scollamento» dal mondo che persiste persino quando, come per l’eroina di questo romanzo, si è ormai fuori da ogni motivo di marginalizzazione? Siamo circondati da narrative di salvezza, ma le cose che salvano davvero spesso non vengono pronunciate.
La diversità come portatrice di significati
Quando la protagonista chiede alla madre come sarebbe stata se non fosse nata sorda, lei le risponde: «Penso che sarei stata insignificante» (pag. 285). La diversità è portatrice di significati, anche se fa paura. E allora magari aveva ragione il giovane Marx, che scriveva «Quando tutto cade, indomito il coraggio resta» (pag. 285).
A volte la scrittura ti invischia, pur rimanendo leggera, a volte ti trascina a capofitto dentro la storia. Le soste di riflessione sono quelle tecnicamente più interessanti.
Tempo fa, l’ecologista Suzanne Sinnard ha dimostrato che la foresta è un sistema cooperativo e gli alberi “parlano” tra loro per scambiarsi sostanze nutritive o rilasciarle in caso di minaccia […] Prima di imbattermi in queste teorie, credevo che l’amore coincidesse quasi sempre con il destino o con una forma spaventosa di ignoranza – non sappiamo chi ameremo, né perché ne avremo bisogno. Ma […] valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’uno dell’altro, e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi e rilasciava particelle elementari nell’aria ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo. (pag. 34)
Eppure queste soste non reggerebbero senza il coraggio di una narrazione che racconta, senza orgoglio né commiserazione, quanto sia duro essere un po’ “franati”, imperfetti, esplosivi: impossibili da incastonare.
E, infine, siamo a New York, vicino alla linea N di Brooklyn: la protagonista racconta che lì c’è un vecchio graffito, un writer maldestro ha scritto Neverland. È ipnotizzante, perché lei sente proprio «di vivere lì in mezzo» (pag. 284) in un non-luogo dove gli stranieri – che siano migranti o seguano invisibili, disorientate traiettorie interiori – vivono come «ologrammi di se stessi in giro per il futuro» (pag. 284).
Durastanti è una narratrice senza difese, senza vergogna, inquieta e brillante. In un tempo di demonizzazione del diverso scrive della condizione di chi non ha scelta: i muti, gli emigrati, gli irriducibili. Questo romanzo-memoir è un invito alla forza di essere spudoratamente se stessi, ma anche un inno alla mobilità del desiderio, che spinge sempre ad essere altro.
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