«Dear Charlie…». Sulle lettere di Eugenio Montale a Carlo Bo
Dear Charlie…
Negli ultimi mesi del 2023 è stato pubblicato, da Raffaelli Editore, Caro Charlie, la raccolta di lettere (ma anche cartoline e telegrammi) inviate da Eugenio Montale a Carlo Bo (i testi originali sono custoditi nell’archivio della Fondazione Carlo e Marise Bo per la Letteratura Europea Moderna e Contemporanea dell’Università di Urbino), con la curatela sempre scrupolosa e dettagliata di Stefano Verdino. Mancano invece gli autografi di Bo visto che, come è noto, Montale è sempre stato un vero e proprio «epistolclasta» (in un articolo su il «Corriere della sera», del gennaio 1982, lo stesso Bo affermava: «era abituato a stracciare le lettere in minutissimi pezzi quando le aveva lette per bruciarle nella tazza del caffè»). I testi coprono un arco di tempo che va dal settembre 1935 al novembre del 1975, ma lo scambio è più intenso nei primi anni («ben 29 testi riguardano gli anni 1935-42 e sono addirittura 25 concentrati nel triennio 1936-38»). Sono gli anni importanti di Firenze e delle Occasioni, delle Giubbe Rosse, di Clizia, sono gli anni drammatici del fascismo, sempre più assediante e brutale.
Le pagine in questione (come quelle degli altri carteggi montaliani) appaiono come una sonda sensibilissima in grado di fotografare le discontinuità e le frammentazioni dell’esistenza del poeta genovese e del reale, rivelando, direttamente o indirettamente, un impasto di precarietà, frustrazione e impotenza. Anche ciò che viene taciuto diventa uno spiraglio da cui filtra qualcosa di accecante, e conferma la misura ristretta dell’idillio. Si aggiunge, ed è questa la novità, una certa tematica erotica che serpeggia diffusamente in più punti, illuminando la lettura di un certo divertissement, con racconti apparentemente bizzarri, e ammicchi e allusioni comprensibili solo all’amico ispanista-francesista.
«Solo la poetessa di Lesbo ci consola fugacemente»
Significativa è proprio la seconda lettera, datata 7 maggio 1936, in cui politica e eros si fondono in un unico affresco storico: «La sirena dell’adunata m’era sfuggita, ma la Polacca si precipitò nel salotto rosa urlando: Signorine è stata presa Addis Abeba! E tutti insieme guardammo attraverso le stecche il primo muoversi dei plotoni accorrenti. Non diffamarmi nel tuo articolo: non ho neppur provato l’anello di Gige, e ho ceduto Magdalena a Mario Pannunzio. […] Th. Pandolfi gioca alla pelota e ammira i Promessi Sposi. Figurati che esultanza a Lovanio! Almeno ti convertissi al rito copto! Don’t you see that your God agrees with pallacorda?» (p. 29).
L’episodio a cui Montale allude è evidentemente quello della presa di Addis Abeba da parte del Maresciallo Badoglio (5 maggio 1936) e, quindi, la fine della guerra di Etiopia. L’evento fu annunciato da Mussolini, in un famoso discorso, dal balcone di Piazza Venezia, provocando trionfali adunate nelle piazze delle città italiane per celebrare la vittoria. Quello che risulta meno chiaro è dove si trovi il poeta, e con chi. È Bo a svelare il mistero durante un’intervista del 1999, in cui afferma di possedere una lettera in cui l’amico racconta che il giorno della proclamazione dell’Impero si trovava nel locale di Madame Saffo (era stato lo stesso Bo ad introdurlo nella casa di tolleranza più famosa di Firenze, all’ultimo piano di un palazzo tra via Giacomini e Piazza Antinori, vicino a Via Tornabuoni e non è un caso che Montale in una lettera a Clizia del 21 febbraio 1936 lo presentasse così: «the Catholic writer, whore-lover, Carlo Bo», Lettere a Clizia, p. 204), che in quei giorni frequentava con una certa assiduità perché si era invaghito di una austriaca, che faceva parte delle ragazze della prima quindicina di maggio («Ci andavamo un po’ tutti noi giovani e lui non c’era mai stato, perché era timido. Ho una sua lettera, qui a Sestri, scritta il giorno della proclamazione dell’Impero: lui si era invece innamorato di un’austriaca», C. Bo in una intervista a cura di S. Verdino, Quando portai Montale per la prima volta al casino…, in «Il Secolo XIX», 10 gennaio 1999). In realtà il luogo era un punto di riferimento per molti intellettuali dell’epoca, un diversivo o, come scrive Pratolini a Parronchi, «il surrogato di un ideale colpo di rivoltella alla tempia» (su questa citazione e la rete di amici che si riuniva lì, leggere p. 36)
Un riferimento velato alla casa di Madame Saffo compare anche nella lettera del 26 agosto 1936, tra considerazioni di ordine più generale («Sono stato a Feltre. La fidanzata di Silvio è […] migliore del previsto. Gadda è poi andato nelle 5 terre? Visitato Giacomini street […]. Ho pagato ma sono fuggito sine labe. È la prima volta che mi succede con una professionista e artista», per poi concludere: «Non mettere in archivio questa lettera disonorante», p. 33), e in quella del 14 febbraio del 1938 in cui tira in ballo Gadda («C.E. (Gadda) vorrebbe visitare Sapho ma nessuno lo conduce: occorre il tuo intervento»); a questo proposito vale la pena di citare quanto raccontava Bo nella già citata intervista Quando portai Montale per la prima volta al casino…: «Poi portai anche Gadda, che moriva dalla paura: “non lasciatemi solo, non lasciatemi solo”. Poi era molto cerimonioso: Buongiorno signorina, come sta? La sua famiglia sta bene?».
«Bloody Hell!»
Il valore delle lettere non è solo documentario, interessante è, soprattutto, il tono giocoso e il linguaggio, che diviene una zona franca desacralizzata in grado, forse, di rendere meno costrittive le maglie rigide degli eventi storici e delle vicende personali intrise di «caligine e tristezza» («Passo le mie notti piangendo a calde e non metaforiche lacrime e ho già varcata l’età di anni 38 nella quale Papini s’è convertito. È tardi… Non si può vivere aspettando il Maggio musicale e con la sola risorsa di vedere (il Sabato) la Signora Berti gravida. (Così mi pare che sia)», lettera del 3 maggio 1937, p. 54). E, quindi, la scrittura risulta un mosaico poliglotta e polifonico, in cui si alternano lingue diverse (come era già accaduto nei carteggi con Contini e Clizia) e registri variegati («Qui sono rimasto solo; e cominciano le crudelissime giornate lunghe. Adios muchacho, y con juicio», p. 48), come accade nella lettera del 6 luglio 1937, tutta giocata sulla mescolanza e sull’alternanza di frasi in italiano, in spagnolo e in inglese («Caro Charlie, sono rimasto solo. Oreste mi ha scritto una lettera filosofica che comincia “Egregio Montale”. Alas! Ti prego di non nascondere a Doña Carmen che sus ojos encantadores turbano il mio verano ensolellato y muy triste, e che bajo tierra ne sarò ancora profondamente commosso. Don’t there’s nothing to do with her», pp. 63-64) e ad altre interamente scritte in lingua inglese. E, oltre alla diglossia, vi è ovunque, in generale, una certa coloritura nel linguaggio, basti pensare ai soprannomi per Bo («Caro Charlie, sei un pig, un piggone», p. 44; «O Carlaccio Porcaccio» p. 52), al racconto di «un grande veglione notturno nello studio di Capocchini» («con tedesche seminude e ballo di cucaracha […]. Landolfi, senza barba, era drunk; la parola “scopiren” usciva dalle labbra di Traverso, e Tod Tod da quelle di Tom», 44), al resoconto di una visita di Guarnieri («È passato Guarnieri che va insegnare nel banato di Timisoara. Gli hanno chiesto castità assoluta, perché i suoi predecessori trombavano e facevano scandalo. Credo anzi sia stato scelto apposta. È pieno di grammatiche rumene, legge Curentul. Si sposa a Pasqua e poi tromberà anche lui col permesso del Ministero», p. 81).
Dal 1938 il tono cambia, si fa meno mosso, meno vivace. Dopo l’allontanamento di Clizia (il cui nome non compare mai) e, successivamente, la morte della sorella Marianna, diventa impossibile, per Eusebius, individuare alcuno spiraglio di salvezza («Scusa il silenzio. Io non ne posso più della vita e non invidio neanche la sopravvivenza (tua) a Urbino. Se va così non avrò neppure la notizia della tua prolusione. […] Se può servire (a me e un po’ anche a te) ti prego di ricordarmi nelle tue preghiere. Ho bisogno di un miracolo. Dico BISOGNO. Il tuo Eusebio», lettera del 28 luglio 1938, p. 101).
Un libretto vulcanico
Questo libretto di circa 140 pagine si presenta come un pentolone vulcanico, in cui il prosaico e lo humor hanno la meglio sul sublime e sul poetico. Compaiono pochi e vaghi riferimenti alla poesia montaliana («Io ho fatto tre o quattro nuove poesiole, ma non so che valgano; in ogni modo nel 39 avrò il 2° e ultimo libro di poesie bell’e finito, e nel 40 potrò morire» p. 74; «Le tue parole mi hanno fatto molto piacere, anche perché mi pareva di sentire un certo gelo intorno a queste ultime cose mie; gelo che non mi persuadeva, sia pure ammettendo che nessuna mia poesia è piaciuta prima di qualche annetto di anticamera. Ma per ora, fare un libro di sole 25 poesie (alcune delle quali vere e proprie nugae) non posso: occorre arrivare a 40. Mi sono fissato su questo numero, non so perché. E dopo smetto con pace di tutti e gioia dei vari Sinisgalli», p. 86), in compenso vi sono molti pettegolezzi, commenti taglienti che riguardano le riviste (il «Frontespizio» soprattutto, ribattezzato «laido Frontispizio»), intellettuali e poeti dell’epoca («È venuto Sereni, latore di pettegolezzi milanesi e di futuri punch-balls di poeti maledetti. Colpa tua che hai sollevato per primo quella pietra facendo uscire gli scarafaggi. Pèntiti!», p. 96), e numerosi riferimenti alla cerchia di amici comuni, come Gadda, Guarnieri, ma anche Lucia Rodocanachi, ricordata sempre con affetto.
In un certo senso, con la stesura di queste lettere, Montale sembra iniziare (ante-litteram) quella discesa verso il basso e all’indietro, nell’umile intimità del mondo fisico, che troverà il suo punto più alto nella sua ultima fase poetica; il dominio dell’elemento prosastico concede al poeta genovese il privilegio (momentaneo) di ritrovarsi, al di là della cultura e dello stesso fare poetico, in ogni minimo brandello del tempo che rimane, lontano dalla «notte definitiva». I soprasensi, il metafisico sopravvivono se accompagnati dalla nudità della materia che li annulla e li divora: «[…] Non ce la faccio più (non alludo al fucking) ma pazienza. Molto ancora si farà attendere, forse, il mio accesso alla notte definitiva, Ma le voci chiamano chiamano. Che n’è di Marise la maliarda? Sentii dire persino che tornava al prisco tetto; saran balle probabilmente. È una sera bellissima sui lungarni. Fa fresco. Sono alle Giubbe Rosse; vedo fuori Di Prete, hopeful. Non c’è nessun altro. Sono un fesso ma ho capito, oh quante cose ho capito negli ultimi dieci anni!» (lettera del 21 luglio 1942).
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