Le nostre vite labili e preziose – Su “La condizione della memoria” di Giulia Corsalini
Due anni fa, raggiungendo in auto la costiera amalfitana, in un giorno tiepido e limpido di fine aprile, e passando nei pressi del paese d’origine del mio nonno materno, un piccolo paese della Ciociaria arroccato su un’altura alle pendici di una rupe che sfilava arida e ripida sulla mia sinistra, ho sentito il desiderio di rivedere i luoghi in cui mia madre – ancora viva in quella primavera di cambiamenti – aveva trascorso parte della sua infanzia e di cui aveva conservato memoria mitica. Non tornavo lì da più di trent’anni.
Si apre così il nuovo romanzo di Giulia Corsalini, La condizione della memoria (Guanda, 2024), il terzo dopo La lettrice di Čechov (Nottetempo, 2018) e Kolja. Una storia familiare (Nottetempo, 2020), e già con queste poche righe l’autrice ci fornisce alcuni indizi su quello che possiamo aspettarci dalla lettura, sia per quanto riguarda i contenuti, sia sul versante delle scelte stilistiche e strutturali.
Una madre, una figlia, un paese
Al principio di tutto c’è l’incontro con un paese e un cortocircuito della memoria. La protagonista del romanzo, Anna, una donna sui cinquant’anni, passa per caso vicino ad un luogo caro alla memoria della madre Maria, un paesino della Ciociaria assolato e decadente, e decide di fermarsi e visitarlo: si ritrova così improvvisamente immersa in uno spaziotempo insieme familiare e estraneo, in quella via centrale su cui affaccia l’antico palazzo di famiglia, venduto da molto tempo ma ancora custode di memorie familiari che proprio quella visita riattiva. Da qui la decisione di Anna, che sta vivendo una «primavera di cambiamenti» non facili (la separazione dal marito, la perdita del lavoro, il figlio che parte per studiare lontano), di prendere in affitto la casa e tornarci per una vacanza con la madre, che proprio in quella casa aveva vissuto un pezzo significativo della sua prima giovinezza. Sarà l’occasione, l’ultima, per le due donne di confrontarsi con il loro passato e con la relazione (profonda e controversa come tutte le relazioni genitori-figli) che le lega; e tutto avverrà nello scenario di questo paesino senza nome, illuminato da una luce limpida e spietata che mette a nudo cose e persone, abitato da presenze familiari ma fantasmatiche – le tre zie zitelle che per ultime hanno abitato le stanze di quella casa – oppure da altre molto più concrete ma apparentemente incongrue, come i giovani africani ospitati nel centro di accoglienza ricavato nel palazzo di fronte a quello di Anna, ora in degrado ma un tempo signorile dimora della famiglia Russo. Famiglia, questa, di cui resta solo, ultimo e stralunato rappresentate, Luca, un uomo più o meno coetaneo di Anna che all’inizio, con la sua «evidente condizione di disagio» sembra enfatizzare «quel senso della fine di un mondo» che invade la protagonista nei primi giorni di quella «strana villeggiatura» (p. 48) con la madre, ma che in definitiva si rivelerà essere la possibile guida (l’unica, forse) in quello strano mondo sospeso fra memoria e presente.
Una tenace fiducia nella scrittura
Dicevamo che quelle prime righe non introducono soltanto i temi, i paesaggi e i personaggi principali del romanzo, ma lasciano indizi anche sulle scelte stilistiche di fondo di Corsalini. Accenniamo intanto le prime due, le più evidenti. Prima di tutto, il dato stilistico di una scrittura ampia e avvolgente, che non ha paura della complessità ma che non per questo diventa artificiosa o barocca, mirando anzi ad una compostezza ad un tempo densa e fluida, a suo modo classica. E poi un elemento strutturale: la scelta di procedere per frammenti, di spezzare le linee narrative, e di non concedere nulla ai meccanismi romanzeschi dell’intreccio e della suspense. Del resto, non è ancora finita la prima frase del romanzo quando, con un inciso, ci viene anticipato un evento centrale nella vicenda: «due anni fa», ci dice Anna, sua madre era «ancora viva». Dunque ora, nel tempo del racconto, non lo è più. Con quell’inciso (e spesso proprio negli incisi, nelle parentesi, trovano pudicamente posto le immagini più dolorose, le parole più ulceranti della scrittura di Corsalini) il romanzo diventa immediatamente tragedia, e nel racconto si innesta sin da subito la prospettiva del lutto, lo struggente senso della perdita, quel lacerante e mai fino in fondo accettato incombere dell’insensatezza che percorre carsicamente tutto il libro.
Queste scelte stilistiche e strutturali contribuiscono insieme a definire la particolare natura, l’anima di questo romanzo poco convenzionale nel panorama della narrativa italiana contemporanea. Un’anima misteriosa, fatta di sfumature e di silenzi, di dettagli e di tensioni sotterranee; elementi, questi, che sembrano abitare anche alcune vecchie foto in bianco e nero che ogni tanto, senza un ordine prestabilito e senza intenti didascalici, accompagnano il testo: il dettaglio di un giardino, una cartolina d’epoca, la foto di due bambine vestite a festa… elementi che non hanno un legame diretto con la vicenda narrata, ma che aiutano a percepirne la vibrazione di fondo. La vicenda, dal canto suo, procede per andamenti sinuosi e spiraliformi, fra incursioni nel passato che diventano indagini sul presente e immersioni nel qui e ora che lasciano aperta la porta a epifanie impreviste di ciò che sembrava irrimediabilmente perduto. Il tutto nella perenne lotta – che avviene in primo luogo proprio attraverso la scrittura, attraverso lo stile – contro «l’indistinzione di ciò che è stato», mossa da una tenace fiducia (o forse dovremmo dire adesione) alla vita, giustificata dal fatto che «la sorgente della vita continua ad alimentare l’infinita varietà delle sue ramificazioni minime, come se ognuna le fosse cara» (p. 15).
«Come se ognuna le fosse cara»: è probabilmente, questo, un passaggio decisivo per capire quale sentimento dell’esistenza, della condizione umana, e di conseguenza quale poetica, quale idea della scrittura, animi il romanzo di Corsalini. Una «sorgente della vita» alimenta «l’infinita varietà delle sue ramificazioni minime»: è, questo, solo un dato di fatto, non mette conto sapere se quella sorgente della vita sia una natura leopardianamente indifferente ai destini individuali o una forza provvidenziale e amorevole; quello che interessa è che noi sperimentiamo il fenomeno, la meravigliosa e spaventosa varietà e ricchezza di infinite e fuggevoli vite, e facciamo fatica ad accettare che tutto avvenga senza un motivo e senza amore, che tutto (ogni vita) scompaia nell’insensato. Ecco dunque la necessità di guardare a ogni ramificazione minima dell’esistenza «come se ognuna […] fosse cara». E allora è proprio in quel «come se» che sta il ruolo della memoria e della scrittura; in assenza di certezze, sta a chi scrive fare (come nei giochi dei bambini) «come se»: come se tutto avesse un significato, come se qualcuno o qualcosa custodisse per sempre il senso segreto delle vite degli umani, come se l’oblio non fosse l’unico nostro destino. E chi scrive storie deve farsi carico di questo compito assurdo e necessario del «come se».
Il ricordo fra stilizzazione e verità
Le cose però non sono così semplici: non basta scrivere la storia di qualcuno per salvarne la vita, per dare senso a un destino; un po’ perché il tempo perduto non si può mai recuperare davvero, se non per frammenti epifanici, un po’ perché la narrazione rischia sempre di cristallizzare la memoria, e quindi falsificare la vita, deponendola in «urne di vetro» (p. 102). È un fenomeno già messo a fuoco con coraggiosa lucidità da Primo Levi ne I sommersi e i salvati («un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese»; Primo Levi, Opere II, Einaudi, 1997, pp. 1006-1007), ma che sperimentiamo tutti ogni volta che ripetiamo fra amici o parenti, in una occasione conviviale, quell’aneddoto così divertente eppure sempre così disperatamente uguale a sé stesso. E lo stesso vale anche, ad esempio, per la memoria delle vite delle tre zie di Anna, che, solo grazie alla coabitazione asincrona e postuma resa possibile dal ritorno di lei e di sua madre in quelle stanze da loro un tempo abitate, smettono di essere le figure stereotipate e caricaturali di racconti familiari tante volte ripetuti:
Così, adesso che eravamo tornate nella loro casa, il mio ricordo delle zie si faceva profondo, ma non erano più le loro abitudini o i gesti divenuti nella memoria di mia madre ripetitivi e caricaturali a contare come quando parlavamo di loro in passato, quanto il fatto che in un modo o nell’altro erano esistite e la loro esistenza aveva avuto una fine, né, pur avvertendo tra quelle stanze il respiro della loro presenza, le avremmo di fatto riviste mai più. (pp. 42-43)
Il ricordo che si fa profondo, in ogni caso, ha sempre a che fare con la perdita: la densità della percezione della esistenza delle zie è strettamente legata alla presa d’atto che quella esistenza si è conclusa; e la perdita diventa, in definitiva, una condizione per la memoria. Tutto il romanzo gira intorno a questa insanabile contraddizione fra volontà di salvare il passato e presa d’atto che ogni tentativo di salvezza diventa la constatazione di una perdita definitiva. Ma la forza di questo libro sta proprio nel fatto che la consapevolezza più dolorosa non diventa mai resa: ogni personaggio, ogni ambiente, meritano lo sguardo amorevole e pietoso di chi racconta le loro storie «come se» quelle vite e quei luoghi avessero un’importanza assoluta, «come se» potessero essere salvati. Uno sguardo che, prima di tutto, è una scelta etica che sta al fondo della scrittura di Corsalini, quella di sforzarsi di riconoscere valore a ogni vita. Un impegno, questo, dichiarato in un passaggio che è anche una implicita dichiarazione di poetica: siamo nelle ultime pagine del libro, e la protagonista, dopo aver ricostruito con il massimo rispetto possibile la pur controversa vicenda umana del suo nonno materno, si ritrova a guardare il profilo di Luca Russo, lo strampalato vicino di casa, mentre dorme; e in quel momento si sorprende a pensare a cosa ne sarà, in futuro, della memoria di quella vita solitaria e irrisolta – eppure preziosa come ogni altra su questa terra, a chiedersi se qualcuno, raccontandola, la salverà:
L’avevo guardato nella trama delle ombre che ci avvolgevano e tra le quali il suo stesso volto, appena illuminato dal chiarore della lampada, si perdeva; mi ero chiesta chi, un giorno, avrebbe raccontato anche di lui con riguardo, impegnandosi a riconoscergli il suo valore, senza in nulla sminuirlo. (pp. 208-209)
Riconoscere valore alle esistenze dei suoi personaggi, spesso marginali o spaesati, senza in nulla sminuirle, è il lavoro che Giulia Corsalini porta avanti con coerenza fin dal suo primo romanzo del 2018 (frutto già maturo di un lungo, appartato e sapiente apprendistato), e che con questo La condizione della memoria raggiunge un più avanzato punto di consapevolezza teorica e stilistica.
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