“Le ragioni dei topi”. Micro-bestiario per giorni difficili
Le ragioni dei topi. Storie di animali – pubblicato da Donzelli a cura di Gigliola De Donato, introduzione di Franco Cassano e postfazione di Guido Sacerdoti – è una miscellanea di testi (poesia e prosa, integrata da alcuni disegni) di Carlo Levi che mette in fila – infila come si infila una collana di perle – moltissimi dei luoghi in cui emerge la passione di Carlo Levi per gli animali, una passione che diventa empatia, simpatia, rispetto, attrazione, affetto, curiosità, fascinazione. Un Carlo Levi che si sente pure lui mezzo uomo e mezza bestia (“… pare che i potenti, nel loro terrore del sacro, abbiano scoperto che anche in me è una doppia natura, e che, anch’io, sono mezzo barone e mezzo leone”, così scrive di sé ne Cristo si è fermato ad Eboli).
Come gradualmente imparano tutti i lettori di Levi, la presenza degli animali nei suoi lavori (scritti, disegnati, dipinti) è una costante, una vena feconda che talvolta procede nascosta, spessissimo emerge in modo esplicito e va a definire una linea tematica che questo volume ben focalizza e ricostruisce arrivando a proporre, in chiusura, un suggestivo “Bestiario leviano” curato da Guido Sacerdoti; ricompaiono qui – in una successione commovente – Orune la cornacchia, Pasqua la tartaruga, il gufo Graziadio, Pica la gatta, Nenella la capra, il bastardino Barone, la vacca Bellavita e tutti quei compagni di ventura che rimangono spesso senza nome, ma mai senza la carezza di una degna considerazione.
E se tutta l’opera di Carlo Levi, nel suo complesso, potesse essere considerata come un grande bestiario dove ogni specie – compresa, ovviamente, quella umana – viene osservata e descritta attraverso il medesimo atteggiamento? Leggendo ad esempio una pagina qualsiasi dedicata ai contadini del Sud e comparandola a quella dedicata al riccio di Alassio non avvertiamo alcuna differenza di tono, sentimento, registro. Se questa ipotesi reggesse alla prova dei testi, allora sarebbe possibile comprendere a pieno l’intento dei curatori di questo volume e allora, forse, sarebbe anche possibile realizzare e proporre il seguente esperimento: ricavare dal grande bestiario leviano un micro-bestiario per i giorni difficili (i nostri, quelli di docenti e studenti che non pare se la passino benissimo).
Ho provato a prendere sul serio questa domanda/ipotesi e quindi, a seguire, si potranno incontrare alcuni degli amici di Carlo Levi: una piccola selezione di passi in cui gli animali sono protagonisti, accompagnata da brevi commenti – che i testi sono potenti e parlanti da sé – che intendono esplicitare alcune difficoltà dei nostri giorni e alludere ad alcune possibili lezioni impartite inconsapevolmente (e perciò magistralmente) dagli animali stessi.
La speranza è che questi angeli che non si possono comprare (così Levi definisce gli animali, angeli con gli occhi pieni del severo, misterioso, innocente giudizio) diventino anche amici nostri e che ci possano aiutare ad affrontare il nostro tempo con uno sguardo diverso[1].
I Ratti di Alessandria
Un grande mazzo di garofani e di rose che avevo lasciato qualche ora prima sul tavolo, non aveva ora altro che gambi, meticolosamente segati a mezza altezza. I fiori erano scomparsi. Li ritrovai poi, aprendo una libreria dove tengo la raccolta delle traduzioni in varie lingue dei miei libri. I topi li avevano ricoperti di fiori. C’erano quelli di oggi, e mille altri più vecchi e ormai secchi, e penne di uccelli, rubate in passato da altre parti della casa. (…). Mi disse poi un francese, che si vantava di conoscere bene questi animali, che questi topi amanti dei fiori si chiamano «ratti di Alessandria». Non valsero contro di loro né le trappole, né il veleno: continuarono protervi a trascinare la frutta, gli oggetti, i dolci, a nascondere i pinoli estratti da vecchie pigne, e i noccioli delle ciliegie, e a bearsi dei fiori. (RdP, p. 33, contributo pubblicato in «La Nuova Stampa», 15 luglio 1958)
Carlo Levi spiega in seguito d’aver ceduto le armi e di essersi convertito ad una amichevole convivenza (nel suo appartamento romano) con i ratti di Alessandria. In fondo se l’erano conquistata la benevolenza dello scrittore! Più di molti di noi (docenti di ogni ordine e grado, studenti di ogni ordine e grado, critici letterari, letterati di professione, editori…) quei ratti hanno saputo dimostrare autentico affetto verso i libri portando loro non solo fiori, ma dolcetti, piume, gingilli rubati con discrezione; hanno realizzato corone fiorite adagiate segretamente sulle copertine dei libri di Levi. È vero, quelli erano libri che i fiori se li meritavano… Ma possiamo anche noi – come i ratti di Alessandria – allenarci a riconoscere i libri che meritano i nostri doni e possiamo anche insegnare agli studenti a fare lo stesso: in un mondo in cui i libri sembrano aver perduto l’aura, in un’Alessandria globale dove tutti i libri sembrano reclamare lo stesso diritto d’attenzione per il solo fatto di esistere, possiamo ancora insegnare a dispensare doni segreti, ben inteso, solo a quei libri che veramente se li meritano.
Almeno Paguri!
Conchiglia, chi vive dentro di te o in te s’annida, è fatto della tua forma. Ma anche il paguro curioso che si aggira cercando una sua casa provvisoria tra le sabbie del fondo, quando entra nel nicchio cavo che abbandonato lo accoglie, non può non essere avvolto dal rumore sussurrante che riecheggia nell’elice delle spire, il frastuono perduto del tempo. La madreperla brilla mutevole e solare, le incrostazioni scrivono su di essa geroglifici di lingue misteriose. Mille immense conchiglie accolgono il viaggiatore e lo chiudono nel loro cerchio incantato, dove il modulo si svolge variando di continuo inesorabilmente secondo la legge delle sue curve, e ogni pietra è un pensiero durissimo e colorato, e i marmi del muro sono foreste di sentimenti cristallizzati, e le misure misurano e costringono a misurarci. (RdP, p. 137, da Un volto che ci somiglia. Ritratto d’Italia, XIV, 1960)
Come sarebbe bello riuscirci, riuscire a far annidare gli studenti nella conchiglia delle discipline che studiano! Annidarsi e annidare in un testo, un’immagine, una formula o quel che volete. Ma ci vuole tempo, pazienza, dedizione, spreco senza ritorno di energie e tempo (il frastuono perduto del tempo) per annidarsi, per far sì che, gradualmente, chi s’annida nella conchiglia ne assuma la forma. E questo tempo, questa pazienza, dedizione, spreco di energie senza immediato ritorno sono ancora possibili? Anche il paguro curioso, girovagando tra fondali sabbiosi e desolati, può trovare un nicchio cavo giusto per lui e lì annidarsi per poter ammirare scintillii, incrostazioni, curve mozzafiato, sassolini aguzzi e colorati e sfuggire a tutte quelle misure che costringono a misurarsi. Ma la nostra Scuola, oggi, è ancora un fondale buono per paguri curiosi e vagabondi? “Fate in modo che lo sia!”, mi par quasi di sentir rispondere Carlo Levi, dolce, ma fermo.
La mosca bambina
La mosca bambina volava: il suo ronzio estivo era quello di altre estati lontanissime, quando il tempo era un altro, e aveva un altro ritmo e un’altra durata; ed ecco, il letto era una distesa di neve, o un teatro, o un paesaggio mosso di colli e di montagne; e sul muro appaiono vaghe le immagini mobili e rovesciate dei passanti, e pare giungano le grida modulate dei venditori di cappelli, e si apre il tempo nuovo e sconfinato del giorno, e si aspettano con orecchio trepidante i rumori della famiglia e il suono dei cucchiaini sulle scodelle, e la voce del padre. La piccola mosca d’estate era un’immagine di gioventù, prima della guerra e delle passioni. Era noiosa e simpatica come un gioco di bambini: petulante, ostinata, ripetuta come una favola. Portava con sé, minuta e nera madeleine, la realtà perduta di un’infanzia mitologica. Ora, senza le mosche, e i loro giochi ronzanti, dov’è il gioco, dov’è la realtà? In questo mondo borghese senza mosche, i bambini sono fatti adulti, precoci e seri come la mia piccola mosca inafferrabile. (RdP, p. 36, contributo pubblicato in «La Nuova Stampa», 31 luglio 1958)
Prima di leggere questa riflessione di Levi sulla sparizione delle mosche, non me ne ero resa conto, ma, appena arrivata alla conclusione del testo, ho dovuto concordare: è vero, le mosche estive sono sparite e anche il nostro “presente borghese” produce bambini (e pure ragazzi) “fatti adulti, precoci e seri”, bambini e ragazzi che hanno un’agenda di impegni sicuramente più fitta della mia. Quando è capitato di preciso? Quando sono sparite le mosche senza che me ne accorgessi? Quelle mosche che ronzavano nei lunghi pomeriggi estivi dandoti il tormento, ma amplificando lo scorrere lento del tempo e il vuoto della noia… Ripescando il ricordo delle mosche perdute, ho ripescato pure quello della paletta ammazza-mosche: quella comprata per due lire dal ferramenta, con il manico in ferro e la paletta in plastica traforata (arancione). Micidiale. Tu te ne stavi buttato a terra, cambiando posizione per cercare il fresco delle mattonelle, e intanto sterminavi le mosche bambine (petulanti, ostinate, ripetute come una favola). E l’immaginazione correva, libera. Io associo il ronzio delle mosche estive alle lunghe ore di fantasticherie, palestra formidabile dell’immaginazione. Sparite le mosche estive, che fine farà l’immaginazione dei bambini/ragazzi fatti adulti precoci e seri?
Come scivola solenne…
In un certo senso, un rapporto tra noi e le lumache esiste, ma non ne esiste alcuno fra il nostro modo di vedere e il loro, il nostro tempo e il loro, il nostro spazio e il loro, le loro e le nostre misure: e non sarebbe possibile pensare di confrontarle. (…). Il linguaggio della gradazione igroscopica e quello della mobilità della lumaca sono confinati alla pietra che le fa da letto e rifugio e nascondiglio, dalla fessura che le schiude l’orizzonte, dalla foresta d’erba dove si aggira con delizioso coraggio, portando casa e corazza, per nutrirsi e imparare la vita. E tutto è perfetto nella sua necessaria variabilità elementare, fatta di vapori, di nebbie, di rugiade, di nevi, di piogge, di temporali, di giorni inesistenti di sereno asciutto e di aridità mortale. Come si aggira beata nel suo elemento di terra bagnata! Come scivola solenne come una nave, con le bandiere levate, e le antenne, e la felice concordia strisciante e peristaltica di tutto il suo corpo, così utile, dicono, per guarire ulcere di stomaco, con quei suoi tessuti bavosi prenatali! Come sta da regina nel suo mondo di fungo, di licheni, di radici, di erbette d’orto o selvatiche di argilla, di sabbia umida, di gocce tremanti al sole velato! Tutto qui è concorde (a meno che non passi feroce e insensibile il galletto col suo becco di ferro). (RdP, p. 153, da Quaderno a cancelli, 1979)
Se la lumaca può vantare un raffinato linguaggio igroscopico, noi, invece, no. Non più. Mi sembrava d’aver capito, ma volevo essere sicura e sono andata a cercare: “igroscopico” è aggettivo che si utilizza per descrivere un corpo (o una sostanza) capace di assorbire acqua e vapore. Il corpo della lumaca – la lumaca intera – è caratterizzato dalla capacità di assorbire umidità/vapore anche negli ambienti apparentemente più secchi e aridi. Nella generosa umidità erbosa si aggira beata, sta da regina, scivola solenne come una nave e, nel mentre, assorbe da ogni poro quanta più umidità possibile. E i nostri corpi? E la nostra capacità – in base alla nostra struttura – di assorbire dall’ambiente quanto ci può nutrire? Tutti i nostri meravigliosi sensi vengono ancora trattati – soprattutto nell’età cruciale dell’infanzia – con la cura che spetterebbe loro? Non li lasciamo forse avvizzire chiudendo tenere lumachine in ambienti secchi e sterili dove le antenne non si allungano e i pori si rattrappiscono? Mettendo al riparo le lumachine nelle nostre sterili e sicure scatole eviteremo certo che un galletto insensibile le arpioni, ma precluderemo loro ogni possibilità di sviluppare quel delizioso coraggio che consente di godersi i vapori, le nebbie, le rugiade, i temporali, le radici e le erbette. Insomma, il nutrimento necessario per imparare la vita.
In coda (di ramarro)
Con gran dispiacere mi fermo, ma confido che il lettore abbia colto le regole del gioco e desideri continuarlo da solo: Pasqua la tartaruga, Nenella la capra, la vacca Bellavita, Barone il mezzo leone e tutti gli altri amici aspettano solo di essere ammirati (e accarezzati).
Lascio l’ultima parola alla cornacchia Orune, nero uccello di Sardegna che Carlo Levi amò in modo struggente. La lezione di Orune ognuno la potrà capire da solo.
Orune, tra gli alberi e i fiori, gorgheggiava con il fringuello e l’usignolo, fischiava con il merlo, cantava con ogni sorta di pennuti con la sua grossa voce comica e commovente; ed era felice del sole del mattino. Ma un giorno sparì. Erano stati visti, nel parco, dei cani sconosciuti, dei gatti selvaggi, dei vecchi malati, dei bambini feroci: non fu trovata né una penna né un segno. Forse è morta, ma io amo credere piuttosto, contro ogni verosimiglianza, che sia volata via, che abbia rifatto, dopo tre anni, fatta adulta, il suo volo infantile in aeroplano, sopra il mare, fino all’isola dei sardi, alle rocce di granito, ai prati di asfodeli, alle querce contorte che sorgono solitarie sui campi deserti. Là io ritorno con lei, nella memoria, a Orune battuta dal vento, patria di pastori e poeti.[2]
[2] Carlo Levi, Tutto il miele è finito, Ilisso Edizioni, Nuoro 2003, p. 61.
[1] Per comodità tutti i passi scelti verranno estrapolati dal medesimo volume (Le ragioni dei topi, RdP) dove, se interessato, il lettore potrà recuperare tutti i riferimenti specifici alle opere di Carlo Levi. A seguire, quindi, verranno soltanto esplicitati i titoli dei lavori di Levi ai quali si farà riferimento nel micro-bestiario (i numeri di pagina servono a recuperare i passi nel volume edito da Donzelli).
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