“Exterminate all the brutes”
La cronaca orribile degli eventi in Medio Oriente dei nostri giorni non può esimerci da riflessioni complesse, pur in un sito letterario. Voglio provare a sondare, più che gli aspetti politici (o al di là e al di qua di questi) quelli culturali che riguardano soprattutto la civiltà occidentale e le sue doppie verità, partendo, a ritroso, da un breve e noto romanzo-saggio, per poi confrontarlo con la narrazione mediatica degli eventi.
Conrad e Kurtz
L’anno 1899 è quello in cui Joseph Conrad completa la stesura del suo Heart of darkness, forse il suo romanzo più celebre (le traduzioni in lingua italiana oscillano fra Cuore di tenebra e cuore di tenebre); è anche quello di una celebre poesia di Kipling, Il fardello dell’uomo bianco, e, se vogliamo, anche quello della pubblicazione della Interpretazione dei sogni di Freud. Coincidenze, forse, ma non così fortuite.
Mi soffermerò brevemente solo sul primo libro qui citato. In esso un uomo di mare, Marlow, in un complesso gioco di specchi che qui non è il caso di ricostruire, racconta del suo viaggio in Congo, su incarico della sua compagnia di navigazione, volto a risalire l’omonimo fiume e recuperare un singolare e mitico personaggio, un funzionario di un certo rango, che era lì rimasto bloccato da una malattia e da vari incidenti in una base interna all’immenso continente: Kurtz. La vicenda narrata si svolge tutta in questo territorio, oscuro così come oscura e funebre, leggiamo nelle prime righe, era la più grande città del mondo, Londra. Il romanzo è, insomma, l’inseguimento, l’incontro, lo scioglimento dell’enigma-Kurtz. Il regista americano Francis Ford Coppola rilegge a suo modo questo personaggio nel film Apocalypse now, ambientato nel Vietnam.
Richiamo l’attenzione sul punto cruciale, sul motore narrativo, dissimulato ma non troppo. Verso i due terzi del testo Kurtz, infine raggiunto a fatica da Marlow ed effettivamente in cattive condizioni fisiche e in parte delirante, si dilunga a spiegare la sua filosofia di vita, le ragioni che l’hanno spinto a diventare quello che era: Kurtz si dichiara figlio di un padre per metà francese, di una madre per metà inglese:
Tutta l’Europa contribuiva a fare Kurtz; e poco dopo appresi che, molto appropriatamente, la Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva dato l’incarico di redigere un rapporto, che le servisse come indicazione futura.1
La Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi ovviamente non esiste, ed è un’allegoria satirica. Come esponente e delegato di questa Società, Kurtz si dichiara di fatto per quel che era, un avventuriero senza scrupoli e oltre tutto corrotto, uno schiavista, un tipico esponente della Compagnia per la quale lavorava, l’incarnazione stessa del sistema coloniale europeo, del fondo oscuro della cultura e della civiltà occidentale.
Naturalmente Kurtz non dice questo. Dopo infiniti rigiri e arzigogoli, che sembrano talvolta noiosi ma che in realtà sono necessari proprio per scoprire quanto invece è occultato (la sostanza del colonialismo, la sua verità interna o se vogliamo la sua ideologia), Kurtz consegna a Marlow un suo denso manoscritto. In esso, in una prosa esotica e lirica, gli occidentali si presentano agli indigeni come esseri soprannaturali angelici e onnipotenti, oggetto di venerazione e di adorazione, unico modo per trarre fuori dai «bruti», dagli animali africani colonizzati, la scintilla della civiltà. La storica missione dell’Occidente, infinite volte ripetuta e rivendicata! In una nota scarabocchiata a pie’ di pagina, tuttavia, si leggeva la sostanza, la verità vera di questo progetto di “educazione”: «exterminate all the brutes», sterminate tutti questi animali.
Concludo qui ogni riferimento a questo importantissimo monumento letterario, chiedendo perdono per averlo malamente scempiato. Ma il mio intento è un altro, e il povero Conrad è stato da me usato strumentalmente. Ancor oggi non capisco come una fine e pugnace critica “di sinistra” abbia in anni lontani letto in Conrad un esponente del colonialismo, un conservatore, se va bene. Ma questo è un altro discorso.
Colonialismo, e “bruti” dei nostri giorni
“Bruto”, prima ancora che essere violento e irragionevole, significa proprio animale, persona dominata da istinti animaleschi («fatti non foste a viver come bruti», in Dante; «universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d’animali bruti», Boccaccio, nella seconda novella del Decameron). Il bruto non ha umanità, non ha dignità, è privo della scintilla della ragione e della distinzione, è feroce o piagnucoloso, subalterno e gesticolante. Un animale, ma indegno di quella simpatica indulgenza che spesso si ha per gli animali.
Per i colonialisti di ogni tempo e generazione, per i sopraffattori di ogni geografia e storia, i sottomessi sono appunto bruti. Esseri indegni e da considerare come massa, come ingombro o residuo e scarto da sfruttare o da eliminare. Così gli schiavi per tutte le società antiche e moderne, da Atene e Roma antica, dai nativi indonesiani o americani, dai neri a tutti gli altri “diversi”; e naturalmente agli internati nei campi di concentramento nazisti, ebrei, zingari, omosessuali, politici, disadattati, matti e così via. Pura carne, puri oggetti, puri numeri.
La popolazione di Gaza è fatta di bruti di questo genere, per l’élite politica israeliana; e per l’élite occidentale in genere, con il corollario dell’asservimento ideologico e politico dei giornalisti, per la maggior parte, agli interessi e allo sguardo dell’occidente globale. Non penso affatto questo per l’insieme del popolo israeliano, ma certo è così per una quota non indifferente di esso, per quei settlers che hanno abusivamente invaso i territori della Cisgiordania col sostegno dei vari governi; e per chi si trova a dover combattere Hamas, e invece produce una orrenda mattanza. Il soldato armato fino ai denti, atterrito a sua volta, produce terrore e morte, e non può far questo senza aver prima disumanizzato i suoi avversari: anzi, tutti coloro che si trova di fronte; la guerra fa il soldato, la tortura fa il torturatore. Sartre ha spiegato questo processo in modo splendido e tuttora insuperato, introducendo I dannati della terra di Frantz Fanon e La tortura di Henri Alleg. E questi stessi autori hanno mostrato (il primo, ovviamente, in modo molto più ampio) come avviene la disumanizzazione, e come si costruiscono discorsi e controdiscorsi, fra colono e colonizzato, fra carnefice e vittima.
Il passaggio mentale (discorsivo e istintuale, razionalizzato e di copertura a un tempo) perché si possa giungere a questo orrore è uno e uno solo, in ogni caso: appunto la disumanizzazione del “nemico”. Così sentiamo ministri del governo di Israele e importanti figure pubbliche lanciarsi in dichiarazioni incredibili, definire bestie umane tutti i palestinesi, chiederne la deportazione generalizzata. Cose da far venire i brividi. E che occorra parlare proprio di un processo di disumanizzazione, lo conferma, nel libro intervista J’accuse (pubblicato nel novembre 2023 da RCS libri) la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, che dedica proprio a questo tema un capitolo intero del suo libro; citando uno studioso, Enrique Galvan-Alvarez, Albanese scrive che «il dominio sull’altro non si manifesta solo attraverso lo sfruttamento economico o il controllo delle strutture politico-militari, ma anche mediante la costruzione di quadri epistemici che legittimano e avallano tali pratiche di sottomissione» (p. 48). Il linguaggio, nella sua capacità di definire ma anche di occultare, è dunque al centro del conflitto non meno che i bombardamenti dal cielo, da terra e dal mare, il terrore e l’angoscia provocati anche dalla mancanza di cibo, di acqua, di medicine, ecc. Da qui, soprattutto, il disequilibrio emotivo, l’astuta propaganda umanitaria che mette l’uno contro l’altro il bambino israeliano preso in ostaggio e presentato in foto o brevi filmati (ed è giusto suscitare l’empatia generale su di lui) e l’insieme dei bambini morti, ma in massa, come semplice numero, che tuttavia non possono, proprio per questo, suscitare alcuna commozione. Un meccanismo al servizio del potente di turno, decrepito ma sempre efficace. E chi volesse, e giustamente, parlare di disumanizzazione anche a proposito di Hamas, non dovrebbe dimenticare che nella costruzione e rappresentazione mentale dell’occidente Hamas è un gruppo terroristico, Israele uno stato “democratico” che tuttavia non ha una costituzione, non tratta tutti i suoi cittadini con parità di diritti, e considera carne da cannone e da sfruttamento i “vicini” palestinesi.
È proprio questo il punto che al momento mi interessa, nel voler legare (e so di farlo affannosamente), letteratura (anche saggistica) e cronaca, orrenda, dei giorni nostri; e sfondo, sfumato ma incombente, della storia. Mi pare infatti che ci troviamo qui, per l’ennesima volta, di fronte a una sorta di maledizione, di coazione a ripetere, del pensiero o del «discorso» o della «narrazione» occidentale dominante. Un pensiero, badiamo bene, asservito alla forza e alla sopraffazione, nel quale potere e razionalità (ma quale?) si sostengono a vicenda; e che dilaga, non certo a caso, sui media e nei finti dibattiti su giornali e televisioni, là dove il punto di vista “oggettivo” da cui si parte ha già deciso chi sono i buoni e chi i cattivi.
E qui la letteratura ci può aiutare, e può aiutare anche insegnanti e discenti. Il caso di Conrad, la noticina scarabocchiata in fretta da Kurtz come corollario veritiero dei discorsi umanitari sulla civilizzazione è solo un esempio, fra i più noti e radicali, che mostrano la capacità che ha la letteratura di rovesciare il tavolo delle idee ricevute, e di dar spazio a riflessioni; di presentare il rovescio e l’ombra di ogni enunciato; a partire da quello che ho posto come titolo e che può essere opportunamente valorizzato solo rileggendo poi, a ritroso, l’intero testo, nel quale ogni singola scena rivela l’ambivalenza, la dualità o meglio complessità del giudizio. La storia, la cronaca, l’etica pubblica, il senso stesso delle parole «civiltà», «progresso», «libertà», possono così essere valutate criticamente e passate a contrappelo.
1 Cito da J. Conrad, Heart of Darkness/Cuore di tenebre, ed. bilingue a cura e con traduzione di Ugo Mursia, Milano, Mursia 1984, p. 147.
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