L’eredità di don Milani. Riallacciare le fila di un discorso, oggi
1 – Alla fine del mese di maggio 2023 è finalmente andato in onda sui canali della RAI un documentario annunciato da tempo su don Lorenzo Milani: l’occasione è stata quella dei cent’anni dalla nascita. Vecchi filmati e interviste di studiosi e seguaci, talvolta commoventi e istruttivi. Vi appare Barbiana nella sua condizione degli anni sessanta, non molto diversa, dicono coloro che l’hanno visitata, da quella attuale. Vi appare anche, coi suoi allievi, don Milani, stranamente disposto all’intervista, forse perché consapevole del suo grave stato di salute. Alla fine la damnatio memoriae non ha vinto del tutto. Ho tardato un po’ ad affrontare il problema, sia perché non sono competente sulla figura e sull’argomento, sia perché ho voluto attendere un’occasione importante: quella delle “tracce” ministeriali in occasione degli esami di maturità 2023. Non sia mai, pensavo, che qualcosa ci scappi. Naturalmente non speravo molto, e così è stato: invece di don Milani ci siamo sorbiti i pensieri di Oriana Fallaci e di un ex ministro dell’Istruzione. Giusto così, quando il Ministero è ormai sotto il vessillo del Merito. Non abbandoniamo perciò la questione, riprendendola, semplicemente, a partire dal “caso” don Milani. Ne scrivo senza alcuna specifica competenza, sia chiaro, ma partendo da alcune considerazioni di carattere storico e sociale.
In primo luogo: nonostante la permanente attualità del suo messaggio culturale, credo che non vada dimenticato il fatto che l’esperienza, certo eccezionale ed esemplare, di don Milani sia impensabile al di fuori del periodo della ricostruzione ed entro un clima culturale e sociale duro e forse aspro, ma definito nei cuoi contorni, orientato comunque alla “crescita”, nelle sue varie accezioni, compresa quella civile. Impossibile sarebbe oggi riproporne l’esempio – sic et simpliciter – senza tener conto delle condizioni mondiali e locali totalmente diverse da quelle attuali: quando ormai il capitale pienamente dispiegato cannibalizza esseri umani, relazioni, lavoro, mondo naturale, e sconvolge sempre più rapidamente i riferimenti culturali e le classi sociali. Se il Priore di Barbiana poneva, soprattutto nella scuola e nella trasmissione della conoscenza, della coscienza e dell’esperienza, il problema del potere e dell’egemonia, pur dentro un’esperienza ecclesiale laicamente vissuta, oggi i medesimi problemi non possono essere riproposti con gli stessi contenuti: perfino a proposito di una delle sue più importanti intuizioni, l’importanza della parola, della nuda conoscenza delle parole e poi del loro valore critico, problema che oggi si pone daccapo per via della rinascente povertà educativa, va ricordato che la miseria culturale è oggi di ritorno, certo, ma che soprattutto è una costruzione sociale: in qualche modo progettata e intenzionale, e non frutto degli stenti e dei limiti di sessanta o settant’anni or sono. Sottolineiamo dunque la distanza fra i tempi nostri e i suoi; fra quelli (per dirla, sia pur schematicamente, con una formula che ha fatto breccia, riconducibile a Lacan) che separano il discorso del padrone (padre-padrone), dal discorso, anonimo e informale, del capitalista: ossia l’etica della rinuncia e del divieto, da una parte (quella che caratterizzava le società ancora in parte premoderne) da quella, opposta, che propone lo scialo, la dispersione e la trasgressione.
In secondo luogo, e per risultante logica: gli stenti di oggi, sociali ed educativi, culturali ed emotivi, la barbarie di ritorno di cui molti si preoccupano, vengono da eccesso di stimoli comunicativi banali e farciti di luoghi comuni, da impersonalità crescente del potere, da una immane distanza fra la ricchezza sociale prodotta (e privatizzata) e quella distribuita al “popolo”: oggi, sempre più, volgo disperso (manzoniano) e plebe (marxiana).
Di conseguenza, il senso dello studio, dell’applicazione, del rigore, del cosiddetto “merito”, non possono essere trattati e affrontati o riproposti secondo un modello e uno schema direttamente ripresi da Lorenzo Milani: va accolta certamente la trasmissione della forma dell’esperienza educativa da lui proposta, una forma che aggiungeva, alla distribuzione del pane del sapere (e, anche, delle relazioni) anche l’additarne, del sapere stesso, il veleno: un problema che rimane sempre attuale, forse oggi ancor più di ieri, ma in modi del tutto diversi e, in gran parte, da ripensare e da riorganizzare. La Scuola, o meglio la frazione di insegnanti per i quali il nome di don Milani significa qualcosa o molto, ha questo gigantesco compito, e non potrà svolgerlo senza una forte consapevolezza del vuoto da cui si riparte, e senza l’aiuto di quelle frazioni di società per i quali la ricomposizione sociale è un obbiettivo centrale, che lo si voglia esplicitamente o che ad esso si ambisca implicitamente.
2 – Si pone perciò, in qualche modo, un problema antico, quello dell’egemonia. Sembra paradossale porlo quando in molti saremmo contenti di poter, almeno, respirare e praticare spazi minimi di civiltà. Ma proprio per questo occorre avere uno sguardo lungo, accontentarsi di territori e orizzonti non minimali, di risulta. Io credo che occorra perciò tenere sempre visibile un obbiettivo, uno scopo apparentemente (e forse realmente) irraggiungibile in toto, ma indispensabile come orizzonte di ricerca, quello di una democrazia reale. Il primo passo da compiere è, a mio avviso, quello di una radicale negazione, di un radicale ripudio della meritocrazia, e, tout court, del merito, al di là delle grottesche incarnazioni politiche e istituzionali nelle quali questa ideologia liberista si manifesta oggi: ossia del “successo” individuale, frutto (illusorio per il 99% della popolazione) dell’applicazione e della volontà di potere. Insomma, se questa vecchia e marcia ideologia, spacciata per nuova, oggi è dominante e (quasi) indiscussa fra le idee correnti, una delle ragioni è stata l’avanzata dell’idea meritocratica: nata come ribellione alla protervia della «casta», come rifiuto della trasmissione del potere e dei privilegi per via familistica e clientelare, l’idea salvifica della «meritocrazia», con i vari corollari legati alla competizione e all’eccellenza, ha finito per rivelarsi tossica e grottesca. Essa confina con il darwinismo sociale, se non nasce dall’interno delle sue viscere o non vi sprofonda dentro. Chi ha volontà e forza per sgomitare, ha “merito”: chi non ne ha… peggio per lui.
E qui la lezione di don Milani resta fondamentale e cristallina, proprio nella forma radicale che essa ha assunto, soprattutto nella celebre lettera a una professoressa stesa dai ragazzi della Scuola di Barbiana. Al merito individuale va opposta una cooperazione e uno scambio, un lavoro e un sapere collettivi e, se mi è concesso un vezzo al quale sono affezionato, gregari, ossia aggreganti. Dalla cooperazione nasce, fra l’altro, anche l’eccellenza, come frutto di un sapere, un agire e di un progetto sociale. Cominciare dagli «ultimi», dalle periferie tanto diverse da quelle dei nostri giorni, è un grande progetto politico e culturale proprio per questo, non solo per la vocazione evangelizzante e umanistica che lo nutriva. Questo è il significato delle sue idee, ma anche della sua pratica didattica: le immagini, presenti anche nel documentario da cui siamo partiti, e del resto in parte note, di un don Milani sulla antiquata sdraio, contornato da squinternati allievi, parlano oggi con grande chiarezza e lungimiranza della cooperazione che egli chiedeva ai ragazzi e che coinvolgeva in prima persona lui stesso. E significano molto di più delle intelligentissime suggestioni che un pedagogismo di stampo americano (discendente, credo, dalle posizioni a suo tempo espresse da Talcott Parsons, certo più intelligente e complesso dei suoi epigoni) vorrebbe imporre, col controllo oggi dei test, domani forse dell’intelligenza artificiale, insomma dei famigerati algoritmi, alla pratica dell’istruzione, della formazione, delle relazioni.
Al movimento ostinatamente contrario al Merito va aggiunta dunque un’ulteriore prassi: quella di un’idea di apprendimento come relazione: è una conseguenza, un corollario forse superfluo, ma che va dichiarata e nominata; e che può essere espressa anche in senso inverso e fruttuoso: ossia di un’idea di relazione come apprendimento; cosa che esprime la ragione fondamentalmente politica dell’esperienza di Barbiana; e quella, anche, da cui discendono le sfortune, fra i mangiatori di esseri umani, del suo Priore.
3 – Ma credo che non si possano chiudere queste pagine senza mettere in luce altre due componenti dell’insegnamento di Lorenzo Milani. La sua scuola, sappiamo, non era “dolce”. La severità vi era connessa con l’impegno e la dedizione allo studio e al sapere, come pratiche civili, come diritti e come doveri. La serietà e il rigore ne erano parte integrante, e non solo per la durezza degli anni e dei luoghi sociali e fisici in cui essa si dispiegava. La nota attenzione per la parola, per le parole, che il maestro vi dedicava, proprio per l’importanza che la ricchezza del lessico e del discorso doveva avere per i subalterni e i diseredati, era volta non a costruire ascensori sociali per i pochi “vincenti”, ma ad arricchire di senso e di relazioni, di progettualità e di domande l’intera società. Quanto la cosa sia importante, lo dimostrano le attuali ricerche sulla devastante povertà educativa dei nostri giorni, sulla povertà e limitatezza crescente del vocabolario giovanile: una situazione che sembra essere stata studiata a tavolino, ma che – se anche non fosse così – discende diritta dalle logiche culturali determinate dal tardo capitalismo.
Severità, serietà, rigore, dunque, organizzati nella lentezza e solidità dell’apprendimento, nell’approfondimento e nella compiutezza delle acquisizioni. Ma a questo indirizzo mi pare che occorra aggiungerne un altro, complementare: quello della dialettica fra disobbedienza e obbedienza. «L’obbedienza non è più una virtù», ossia la frase che riassume la sua accusa ai cappellani militari, la scelta decisa per la non violenza e l’obiezione di coscienza che gli costò, nell’ultimo tempo della sua vita, un celebre processo penale, segnalano la necessità di sottrarsi agli obblighi di violenza e sopraffazione (militari ieri e oggi, di qualunque altro genere domani) in nome di una scelta libera ma non individualistica; perché d’altro canto comportava il suo inverso, ossia la necessità, radicale, di obbedire ad altri ordini, ad ordini altri e diversi da quelli provenienti dalla città visibile, da Babilonia, in favore di quelli che venivano dalla città invisibile, da Gerusalemme insomma (mi sia consentita per brevità, questa metafora). Questa scelta rivoluzionaria (non mi pare un’esagerazione definirla così) è iscritta nella tradizione radicale ed eretica del Cristianesimo e del Giusnaturalismo europeo, in una successione millenaria ed escatologica di minoranze, ma non certo minoritaria, irrinunciabile proprio nei giorni che viviamo e soprattutto in quelli che vivranno coloro che oggi sono ragazzi o bambini.
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G.B. Palumbo Editore
Grazie infinite per la lucidità e il rigore di questa appassionata analisi.
Quella di don Milani è una scuola in cui lo studio della letteratura non può trovar posto e dove, con la concentrazione esclusiva sulla lingua dell’uso, s’avvera «il sogno d’una lingua che possa esser letta da tutti, fatta di parola d’ogni giorno» (e solo di quelle), come predicava don Milani in uno dei manifesti della contestazione sessantottesca alla scuola “borghese”. E in effetti che l’utopia scolastica di don Milani mirasse a seppellire la tradizione culturale italiana, veicolo di una complessità linguistica considerata oppressiva, risulta con chiarezza da passi come il seguente (“Lettera a una professoressa”): «io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventato il Foscolo perché non voleva bene ai poveri». Dove si vede molto bene: a) che populismo e infantilizzazione delle masse procedono di pari passo; b) che quello di don Milani è un mito, se non da abbandonare brutalmente, da ridimensionare seccamente.