Nel tempo breve e infinito di una stagione – Su “L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi” di Tatiana Tîbuleac
L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi di Tatiana Tîbuleac (Keller editore) pone al centro della rappresentazione uno dei temi letterari più significativi di ogni tempo e luogo, ossia quello del rapporto madre-figlio.
In questo romanzo chi dice io è il figlio, un affermato pittore alle soglie dei quarant’anni invitato dallo psicoterapeuta a rielaborare la sua storia familiare per cercare di superare sia l’impasse creativa in cui versa, sia le conseguenze dell’incidente d’auto che lo costringe in carrozzina. La narrazione si coagula così intorno a un’estate lontana, un breve arco di tempo – tre mesi – determinante per conoscere davvero, giorno dopo giorno, la madre da lui odiata di un sentimento inveterato, viscerale, insopprimibile:
Quella mattina in cui la odiavo più che mai, mia madre aveva compiuto trentanove anni. Era piccola e grassa, stupida e brutta. Era la madre più inutile che fosse mai esistita. La guardavo dalla finestra mentre se ne stava al cancello della scuola come una mendicante. L’avrei uccisa senza pensarci due volte. Muti e spauriti, gli altri genitori mi passavano accanto. Un triste cumulo di perle finte e di cravatte da due soldi che veniva a prendere da scuola ai figli falliti lontano dagli occhi della gente. Almeno loro avevano fatto lo sforzo di venire su. Mia madre se ne sbatteva di me e del fatto che, nonostante tutto, avessi finito la scuola. (T. Tîbuleac, L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi, Rovereto, Keller, 2023, p. 9)
Non stupisce che l’incipit del romanzo rivesta, come sostiene Doninelli parlando di questa zona liminare, “un’importanza speciale”, che catturi l’attenzione del lettore che viene attirato da “un senso di forza, di necessità, di violenza talvolta, di originalità […] che ha la sua origine prima della parola o della frase e imprime a esse il loro movimento” (L. Doninelli, Tre lezioni sul romanzo, Schibboleth),
Quella che sembra squadernarsi davanti a Aleksy in quella mattina di fine anno scolastico è un’intera estate da trascorrere, secondo i suoi progetti, a Amsterdam con una coppia di amici, Jim e Kalo, tra prostitute e oppiacei. Tuttavia, durante il penoso pranzo di compleanno con la madre, il ragazzo – un adolescente disturbato e violento – viene convinto a passare i tre mesi successivi con lei in un piccolo paesino della costa francese. In cambio la donna gli promette, a partire dall’autunno, una totale libertà, coronata dalla cessione dell’auto e dei documenti – falsi – per poterla guidare: “Fu la prima volta in vita mia che scelsi mia madre invece di qualcun altro” (p.52), conclude alla vigilia del viaggio che dall’Europa dell’est lo porterà in Francia.
Ha inizio, così, un’estate di forzata vicinanza nel racconto della quale il lettore apprende che la rabbia e la nevrosi di Aleksy hanno la forma della perdita e del trauma: la madre ha infatti congelato la sua affettività dopo la morte improvvisa della secondogenita, Mika; il padre ha ben presto abbandonato la famiglia per una donna più giovane; Aleksy nutre un sordo livore tanto per la mancanza della sorellina, quanto per il disamore che lo circonda:
Penso spesso a come sarebbe stata la nostra vita se Mika non fosse morta. Se quell’inverno freddo, d’improvviso, non si fosse persa come si perdono le caramelle dalle tasche dei bambini poveri. Mika era il nostro collante, il nostro caro ragno, che ci aveva acchiappato come moscerini nella sua ragnatela incantata e ci teneva lì tutti ammucchiati. Mika fu l’unico motivo per cui, durante qualche anno, ci sentimmo una famiglia e non ci azzannammo le giugulari come cani rabbiosi quali eravamo. (p. 53)
Dunque, il collettore e l’amplificatore della collera accumulata da Aleksy giorno dopo giorno è costituito dalla madre, colpevole ai suoi occhi di concentrare su di sé tutti i difetti fisici e comportamentali possibili e immaginabili: nei primi capitoli del romanzo l’io narrante non lesina immagini e paragoni impietosi nei confronti della giovane donna (“Mi veniva da infilarla nella lavatrice e schiacciare il programma di lavaggio a novanta gradi. Chiuderla nel congelatore e tirarla fuori in brandelli. Esporla a radiazioni”; “Fosse stato per me, l’avrei portata dallo sfasciacarrozze, a cominciare dai capelli.”); l’unica eccezione in questo disastro irritante e insopportabile è un particolare del volto:
Un’unica cosa stonava in tutta questa storia: gli occhi. Mia madre aveva degli occhi verdi talmente belli che sembrava uno sbaglio sprecarli su una faccia lievitata come la sua. (p.20)
E sono proprio gli occhi incastonati come smeraldi in una donna apparentemente sgraziata, sempre fuori posto, a costituire il leit motiv del romanzo. A intervalli non prevedibili e incorniciati tra i capitoli narrativi, le definizioni di Aleksy sugli occhi della madre si conficcano – apodittiche – in una frase-capitolo e, mentre chiudono o sembrano chiudere un episodio, cuciono insieme la storia di un progressivo riavvicinamento, di una lenta scoperta, di una dolorosa conciliazione. Si tratta di una serie di accensioni liriche che si stagliano sulla pagina bianca; eccole riportate di seguito:
Gli occhi di mia madre erano uno sbaglio. (Cap. 4, p.21)
Gli occhi della mia brutta madre erano i resti di una madre sconosciuta molto bella. (Cap. 11, p. 47)
Gli occhi di mia madre piangevano da dentro. (Cap. 18, p.77)
Gli occhi di mia madre erano il desiderio di una cieca avverato dal sole. (Cap. 24, p.95)
Gli occhi di mia madre erano campi di steli infranti. (Cap. 28, p.103)
Gli occhi di mia madre erano le storie che non mi aveva mai raccontato. (Cap. 33, p.119)
Gli occhi di mia madre erano gli oblò di un sommergibile di smeraldo. (Cap. 49, p.179)
Gli occhi di mia madre erano conchiglie cresciute sugli alberi. (Cap. 55, p.201)
Gli occhi di mia madre erano cicatrici sulla faccia dell’estate. (Cap.63, p.229)
Tutte queste immagini verranno riprese e infilate l’una dopo l’altra, come perle di una collana, nel penultimo capitolo – il 76 – che si chiude con la definizione “Gli occhi di mia madre erano germogli in attesa” (p.273).
Al di là della trama, che si sgomitola pagina dopo pagina tra analessi e prolessi intrecciando le esistenze di più personaggi, raccontando per tessere la storia di Aleksy (da quella che ne aveva preceduto la nascita a quella che lo attende accanto alla madre malata, dagli accenni ai quadri dipinti pensando a quell’estate alla sua storia con Moira), i pregi del libro di Tîbuleac – tradotto dal rumeno da Ileana Pop – sono essenzialmente due.
Il primo va individuato nella piena (e piana) adesione al genere romanzo, scelta narrativa che permette al lettore l’immersione nella mente dell’io narrante e l’immedesimazione negli stati emotivi originati da una relazione cruciale per chiunque – quella con la propria madre – e qui intensamente rievocati.
Il secondo, strettamente legato a quanto si è appena rilevato, consiste in un tratto stilistico costante in tutto il romanzo, ossia nella scelta di coniugare la rappresentazione realistica dell’ambiente, delle persone, degli stati psicofisici con tratti marcati di figuralità, liricamente espressi con frequenti paragoni o metafore, rilevabili negli stralci fin qui riportati.
Nel suo romanzo Tîbuleac tematizza, con uno stile originale e con uno scandaglio interiore che non teme gli affondi nel dolore, non solo l’infelicità familiare e il senso di solitudine ma anche la rigenerazione di un legame fondamentale come quello con la madre. L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi è una storia che non annulla la sofferenza dalla vita, non ne risolve le contraddizioni ma che addita la possibilità – anche terapeutica – di guardarsi gli uni gli altri con occhi diversi nel tempo breve e infinito di una stagione:
Mi coricavo sulla soglia, di proposito, per spaventare mia madre che, indipendentemente da dove mi trovassi, spuntava al volo come un fantasma. Mi chiedeva tutta preoccupata se mi sentissi bene. […]
La vedevo nel corso della giornata sulla porta, o a una finestra, oppure nel campo in mezzo ai fiori, come uno spirito capace di attraversare pareti e muri con il solo potere della mente. Era sempre mobile e diafana, in uno di quei vestiti da cui ormai non si separava più, che contemplava le cose per minuti di fila, come gli attori dei film muti. Mia madre era un’altra. (p. 84)
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