“Il grande motivo”: dialettica e cultura di destra
Nella storia che caratterizza la cultura di destra nel 19° e 20° secolo, una serie di tematiche tendono a ripresentarsi in maniera caratterizzante: il principio della guerra come ritrovamento dell’identità nazionale, il mito della comunità caratterizzata da un’uniformità etnico-culturale (estranea agli effetti disgreganti della moderna società divisa), il ruolo delle élites, la fondazione di strutture politiche (ad esempio le corporazioni) in linea col carattere nazionale, la critica al sistema produttivo tayloristico per come impiantato, fuori Europa, dai ‘gemelli’ Ford e Stalin, ecc. Su nessuno di questi nuclei tematici, però, la destra mostra una visione compatta. In Drieu La Rochelle la guerra, la nuova “guerra di materiali”, già si presenta come trionfo di una modernità macchinica e razionalizzata; la sana Gemeinschaft agricola dell’Hermann Lons del romanzo Der Wehrwolf ha poco a che fare con la corradiniana esaltazione della macchina industriale che cementerà, fuori da ogni polarizzazione di classe, la nuova comunità italiana; le élite intellettuali di Stapel, o quelle agrarie di Edgar Jung, c’entrano poco con i “produttori” di Valois; anche la critica anti-modernista della tecnica e il nazionalismo, due temi che siamo abituati a considerare come colonna dorsale delle ideologie di destra, devono confrontarsi con l’elogio barrèsiano delle nuove mitragliatrici che aiuteranno la Francia a riconquistare la Lorena (e non apro il capitolo Jünger), e con il mito europeo, ancora di Drieu, sorpreso nel diario a sognare un’Europa finalmente unita… dai carri armati di Hitler.
Su due macro-tematiche, però, la destra mostra un volto uniforme: l’anti-materialismo e il rifiuto della dialettica. Addirittura Péguy, uno dei pochi a sostenere l’idea di una relazione dialettica fra materiale e spirituale, considera il dominio dell’economia (e di un approccio economicista) tanto più vero quanto più in relazione a un decadimento qualitativo del reale: “la dominazione dell’economico è pesantemente vera in tutto ciò che è volgare”[1]. Il rifiuto del materialismo serve naturalmente, a un primo livello, ad allontanare le interpretazioni di tipo strutturale subordinandole ad altri elementi (nazionali, etnici, spirituali, ecc.), ma serve anche a inquadrare il primato dell’economico appunto come degradazione, cioè come allontanamento da un corretto funzionamento del sociale che deve porre invece il politico in posizione di superiorità. Il materialismo è dunque posto sotto attacco in due direzioni (che per gli intellettuali di destra sono le due facce della stessa medaglia): nella sua variante marxista (interpretazione degli elementi sovrastrutturali come collegati all’economico) e nella sua variante liberale (interesse al puro livello materiale dell’esistenza, protetto da una democrazia che difende la natura egoistica degli individui, il business, in funzione anti-nazionale).
Il materialismo viene poi inteso come correlato tanto all’ascesa del proletariato (cioè al crollo degli antichi nuclei valoriali a favore di una cultura, appunto quella delle masse, di carattere puramente materiale), tanto alla trasformazione dello Stato (ne parla già Renan) in semplice strumento di servizio, incapace di modellare la comunità nazionale fuori dall’azione disgregante del capitalismo. Si sostiene solitamente come correttivo (soprattutto a fine ‘800) la necessità di una marcia indietro verso un potere a gestione elitaria (ideologicamente puntellato da considerazioni circa una diseguaglianza naturale che implica il ritorno ad antichi modelli di direzione gerarchica: quello greco, quello feudale, ecc.), oppure si difende la necessità di un assorbimento delle masse nel sistema valoriale (e amministrativo) delle vecchie élites, al fine di evitare la loro caduta nel materialismo, o infine si individua uno strato sociale in ascesa – intellettuali, piccola borghesia, ecc. – da porre alla direzione delle istituzioni in quanto espressione di un sentire immune dagli aspetti più anti-nazionali del capitalismo.
In Italia l’attacco al materialismo si connette alla critica del giolittismo quale “politica del piede di casa” e di ciò che viene percepito come suo alleato a livello culturale: il positivismo, vale a dire una cultura incapace a indicare direzioni di marcia alla politica stessa. Alfredo Oriani è in particolare abile a fornire a un’intera generazione di intellettuali (a cominciare da Papini e Prezzolini) il collante ideologico mediante il quale interpretare la storia del Risorgimento nell’ottica del “tradimento”. Fa cioè derivare la situazione corrente (e la necessaria reazione a questa) dalle inadempienze del processo risorgimentale, cioè dalla sua svolta in senso materialista: “La borghesia guidò la rivoluzione nella sua prima fase mantenendole una certa spiritualità di idee; nella seconda l’irruzione operaia la degradò alla soddisfazione immediata”[2].
In tale linea si muoveranno numerosi elementi del sindacalismo nazionale, ma anche quegli intellettuali come Malaparte che, associando il giolittismo a quanto accade nei paesi anglosassoni, vedranno, nell’economicismo materialista, quella Zivilisation dei paesi capitalistici tesa a distruggere tradizioni e istituzioni in linea con le specificità nazionali italiane:
inconciliabile improprietà nostra alla vita moderna. Ogni volta che il popolo italiano si è trovato a doversi adattare a una condizione di vita moderna, il suo sviluppo nazionale […], si è impantanato […]. La civiltà anglosassone, che è poi quella moderna, introdotta in Italia dal liberalismo di Cavour […], non è discesa nelle vene profonde del nostro popolo[3].
Anche in Germania le specificità nazionali risultano far da contraltare alle concezioni materialistiche. In tale direzione la stessa prospettiva di superamento del capitalismo liberale viene inquadrata come valico verso una struttura economica in cui il socialismo (separato dal marxismo che è un prodotto del capitalismo) recupera la sua natura etica, connettendosi ad un’organizzazione dello Stato (quella tedesca) che avrebbe sempre favorito la partecipazione delle masse ma nel quadro di uno sviluppo economico non-conflittuale. Il proposito di superamento del materialismo, quello che già Johann Plenge (1789 e 1914) aveva ritenuto possibile come ristabilimento del tipo propriamente tedesco di economia (“l’integrazione spontanea nello Stato degli organismi economici”), viene cioè inquadrato da molti in una struttura a fondamento corporativo che permetta a tutti i cittadini di superare le pure preoccupazioni materiali – effetto dell’atomizzazione creata dal liberalismo e della polarizzazione creata dal marxismo – a favore delle più profonde caratteristiche germaniche, cioè quelle da cui l’economia (il materiale) deve dipendere.
Essendo del resto la mentalità marxista, come scrive Spengler in Prussianesimo e socialismo, sorta in un ambiente (l’Inghilterra manchesteriana) privo di Stato perché focalizzato sull’iniziativa individuale e sulla polarizzazione sociale, essa ha assorbito principi di natura individualistica e polarizzante. Bisogna dunque “liberare il socialismo tedesco da Marx” [4], ancorandolo a quell’“impero morale” che giudica come valore supremo la collettività, il servizio, l’obbedienza, vale a dire i valori archetipici dall’anima tedesca (a riprova della sua tesi Spengler fa notare che i socialdemocratici di Babel hanno appunto già seguito le caratteristiche della loro anima quando si sono associati allo sforzo bellico).
La visione anti-materialista è però da intendere in rapporto a un secondo motivo del pensiero di destra, che è appunto il rifiuto dell’approccio dialettico o, detto, in altro modo, la sostituzione della dialettica con un principio “emanativo”. Si tratta di una prospettiva simbolica, dove ogni elemento (opere d’arte, individui, forme dell’organizzazione politica), viene visto come derivato da un principio archetipico. In tale visione ogni espressione sociale (letteratura, comportamenti, sistemi politico-economici) discende da un valore centrale unificante che trasforma appunto le sue espressioni nella manifestazione dei medesimi motivi, come forme da uno stesso stampo. È un principio (in alcuni autori esplicitamente basato sulla teoria goethiana della Urpflanze) che serve a sottolineare come lo svolgimento storico (“In ciascun popolo agisce una determinata forza vitale, che tende a dispiegarsi realizzando l’essenza propria di questo popolo”) non proceda su linea evolutiva, ma come svolgimento di quanto già iscritto nella forma originaria: “L’energia della forma imprime al sangue un ritmo e ve lo fissa per tutto l’avvenire”[5].
È proprio tale principio formale (Gottfried Benn lo chiamerà “il grande motivo”) a influenzare le prospettive della letteratura di destra.
Fra il 1907 e il 1908 le Lettere del rimpatriato di Hofmannsthal si aprono istituendo anzitutto una precisa distinzione fra i tedeschi del passato e quelli del presente, dove questi ultimi sono inquadrati proprio nei termini della frantumazione, divisione e ambiguità:
ciò che pensano non s’accorda con ciò che sentono, […] la loro vita pubblica non con la loro vita privata. […]. E con le loro parole avviene come con i loro visi. Anche qui c’è sempre qualcosa di così precario, di così incerto. […] non mi posso immedesimare in colui che non sa egli stesso su che cosa poggia[6].
Contro di essi, però, viene ora avanti la figura del contadino, che Hofmannsthal, in questi e altri scritti, presenterà sempre con le caratteristiche della religiosità, del rapporto diretto con passato e tradizione, dell’anti-individualismo. Il ricorso al Volk connette naturalmente Hofmannsthal all’ideologia herderiana che fa del sostrato popolare un contenitore in grado di collegare, unificandole, le diverse espressioni culturali (linguaggio incluso) del popolo stesso: “nuova mitologia” interpretata come produzione collettiva di un ethos comunitario. Hofmannsthal rientra in ciò in quella linea ideologica che, da Julius Langbehn a Ramiro de Maeztu, idealizza il mondo contadino quale contenitore della Kultur in dissolvenza, vale a dire dell’organicità sociale a rischio sparizione nel passaggio all’orizzonte cittadino della Zivilisation. D’altro canto però, la relazione fra popolo e arte (l’idea di un’identità di popolo e poeta), lo conduce subito sulla strada del politico, perché la presunta dialettica fra i due termini (ed è una finta dialettica: una relazione di assoluta identità) richiede la preservazione di quel tipo di società che permette la possibilità dell’opera d’arte stessa, la quale sarà sia simbolo sia rafforzamento della forma che il contadino e il suo paesaggio esprimono.
Il simbolo, così come s’incarna tanto nel paesaggio austriaco (natura) quanto in un gruppo selezionato dei suoi abitanti (storia),è una forza ordinativa che, dall’architettura al teatro alla poesia, rimanda alla società quello stesso ordinesignificante che da essa (o almeno da un settore di essa individuato dal poeta come centrale) ha ricevuto. Naturalmente, il significante del reale viene selezionato proprio a partire da alcuni valori intimamente riferiti all’assenza di mobilità e polarizzazione sociale e a principi gerarchici e cetuali (devozione, pazienza, saggezza) che tendono a diventare l’essenza stessa della comunità: “Se incontri uomini […] che nel sopportare i pesi della vita vedono il naturale destino dell’uomo, […] uomini tra i quali […] provi una sorta di nostalgia per una condizione dello spirito […], sappi allora che sei tra il popolo”[7]. D’altro canto l’intellettuale è colui che può appunto della società rivelare la Kultur, dal momento che il suo sentire è, secondo il principio dell’emanazione, della stessa stoffa di quello del settore sociale scelto a modello. Il significato simbolico delle attività inferiori non viene infatti degradato – come accade in quell’orizzonte industriale e massificato che si sta espandendo – ma è sempre riflesso del significato delle attività superiori: “quel non so che dello stile austriaco che nel castello ampio e possente fa presentir la fattoria comodamente disposta e in questa di nuovo il castello”.
Negli stessi anni, in Italia, Giovanni Boine, guarda a un’idea di comunità come resultante della tradizione di un luogo determinato (e di un popolo determinato), opponendo cioè a ciò che avverte come disgregazione sociale, il senso di una continuità con la propria gente così come espresso nel rapporto con la terra e le tradizioni del luogo. Si tratta del ritrovamento di un legame socio-simbolico che fa perno su un’idea di comunità come retaggio sovrapersonale che nella terra, che è il simbolo che sottende la presenza di una comunità che produce tale simbolo, si incarna:
Pietra su pietra […]! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese […]: hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici […]; qui ogni generazione fece il sacrificio di se stessa alla generazione veniente. […] E l’opera trionfale della razza, di tutta la razza fu compiuta […]. La nostra cattedrale![8]
La “travatura” che la tradizione (linguaggio, costume, abitudini) offre, si fa resistenza dinnanzi all’inesorabile avanzare di un’atomizzata civiltà capitalistico-industriale che viene inquadrata nella catena semantica connessa, esattamente come in Hofmannsthal, alle immagini del movimento e dell’ambiguità. È cioè il contrasto a-dialettico fra organicità e disgregazione, fra Kultur e Zivilisation, che Boine registra nei termini di uno scontro fra terra e denaro, fra la saldezza della terra dove ogni mutamento si inscrive nella continuità della tradizione, e il movimento inarrestabile del denaro (non a caso metaforizzato nell’immagine già schmittiana del mare):
I frantoi in vallata son chiusi ed i magazzini al mare sono spalancati. […] E denaro e denaro: […] ricchezza di commercianti […]. E questo popolo del mare che impingua. […] questa tribù del commercio […]. Libero scambio, libera lotta. […] L’anima di quelli che si dicono i conservatori in Italia, […] è una ibrida anima di servi del Danaro […] al servizio delle forze ambigue, delle forze dissolvitrici[9].
Altro esempio in tale direzione (e sono poi tutte movenze dell’“estetizzazione della politica”) è il Lemmonio Boreo (1912) di Soffici. Lemmonio, intellettuale che sogna di sanare le ingiustizie da cui è afflitta la sua terra mediante il ritorno al vero spirito della nazione, intraprende la sua opera a difesa del mondo rurale dopo non a caso aver registrato il declino dell’arte italiana mediante la lettura di libri e riviste: “Dai cieli della fantasia e dell’intelligenza, il marcio pioveva sul terreno della vita sociale”[10]. Lemmonio interviene per ricostruire una comunità fedele alla propria tradizione, perché solo all’interno di una comunità sana si potrà produrre l’arte che ha poi il compito di rivelare (ancora il simbolo) la comunità a sé stessa. Ciò avviene appunto perché lo stesso legame fra società e arte è visto in modo non dialettico, ma interpretato, in una società funzionante, come legame di tipo identitario: emanazioni dagli stessi principi. Necessariamente connesso a una struttura sociale che deve ricevere tale simbolizzazione (tale forma) dall’arte, è però inevitabile che la saldezza di tale struttura sociale divenga poi il campo ideale per il funzionamento del medesimo progetto artistico. Il presupposto dell’organicità con un territorio-stirpe darà dunque origine a un’arte che però, al contempo, è ciò che quel territorio-stirpe (quando sano) porta ad espressione. In tal senso l’arte non interviene come elemento dialettico nel quadro del sociale, perché l’arte che Soffici stesso produce è già quel sociale selezionato come autentica realtà del paese-Italia.
Dalla forma che sottende e esprime la Kultur devono di conseguenza restare esclusi tutti quei valori interpretati appunto come… assenza di Kultur, vale a dire come non poggianti su un sociale di tipo organico, ma facenti riferimento solo ad aggregazioni di tipo meccanico (possono essere la conformazione cittadina in opposizione a quella rurale, così come le strutture sociali create dal capitalismo liberale o dal collettivismo marxista). Tali manifestazioni, produrranno infatti espressioni artistico-simbolico-linguistiche (l’avanguardia, il realismo socialista, ecc.) non dotate di vera forma, perché proiettate a scardinare quei valori omogenei che la Kultur sottende. In questa direzione gli agenti della Zivilisation passano a essere identificati in tutta una serie di gruppi etno-sociali la cui stessa capacità mitopoietica (le forme da loro prodotte) sottolinea di un mancato legame con la Kultur. Nel Céline di La scuola dei cadaveri, per esempio, tale incapacità viene incentrata in un “balbettio ebraico” che minaccia la lingua francese, cioè, per lo scrittore, la forma suprema che simbolizza la Kultur nazionale. Gli ebrei, “poco dotati per l’arte” e motori della Zivilisation, sarebbero così portatori di un principio anti-poetico (il “balbettio” che è assenza di forma) teso a inficiare il gusto degli ariani, teso cioè a connettere questi ultimi a quella mancanza di forma che secondo Céline si manifesta nella standardizzazione dell’arte moderna: cinema, design industriale, ecc. Riscoprire il ritmo autentico della lingua francese diventa così per Céline il mezzo per opporsi all’“ebreizzazione” nel recupero di quella Kultur archetipica che vive nel linguaggio.
È chiaro che siamo ancora nei pressi del “principio estetico” schilleriano, vale a dire dell’idea di ricreare, mediante il simbolo,quell’unità del mondo reale attualmente sotto attacco. E però, mentre il principio romantico tendeva a riconoscere realtà al mondo corrente, all’essere-sociale, negli interpreti novecenteschi della Kulturkritik l’attuale realtà del mondo è data appunto come apparente, cioè con non-conforme a quei principi archetipali solo medianti i quali la realtà stessa assurge al rango… di vera realtà. Ciò, nel campo politico-economico, significa appunto negare realtà alla situazione corrente (cioè alla società divisa), affermando invece come reale un’immagine archetipale della società stessa (e ecco gli appelli alla necessità di rigenerazione e risveglio), e dunque presentando il “principio estetico” che riporta la frammentazione a unità non come un atto d’accusa verso ciò che la modernità (la modernità capitalista) ha fatto al mondo, ma come proiezione di una soggettività (quella dell’intellettuale) che si vuole intatta perché essa stessa parte del modello archetipico, estranea dunque agli effetti che dalla struttura ricadono sulle ideologie.
Anche le diverse attitudini degli intellettuali di destra rispetto alle questioni concernenti sviluppo tecnico e industrializzazione, non contraddicono il punto. Il campo di indagine si divide certo in un due opposti orientamenti, ma entrambe le prospettive si sviluppano in moduli di pensiero dove la dialettica risulta comunque annullata. Se la destra antimodernista tende direttamente a invalidare gli effetti dello sviluppo storico-materiale, contrapponendovi l’immagine di un passato intatto a cui tornare, cioè l’immagine di una totalitàdi significato che la modernità avrebbe posto in crisi imponendo una direzione sbagliata all’esistenza (Evola è l’esempio estremo di questo modo di pensare), la destra modernista individua sì la progressione storica quale alveo di sviluppo di nuove concezioni, ma riempie poi tale progressione (è proprio il caso del Malaparte fra emersione delle masse e Controriforma) con valori non-dialettici, finalizzati ad assegnare a uno dei tratti della modernità (può essere il popolo come, è il caso di Jünger, addirittura la tecnica) il quadro valoriale di una significazione, capace di redimere il reale e la modernità stessa. In tali casi, voglio dire nella cultura di destra modernista, la storia, pur presente, è però sempre soggiogata a un agaton che è il principio formale dominante l’indole socio-nazionale.
Bisogna in conclusione però chiedersi se questa prospettiva, che tende a immobilizzare – nel principio emanativo – le direzioni del processo storico, non abbia in realtà qualcosa a che fare con la stessa cultura razionalistico-strumentale che pone a proprio bersaglio.
In Storia e coscienza di classe Lukács, come è noto, assegna al solo proletariato la possibilità di arrivare a comprendere il funzionamento dell’intero della struttura sociale. Questo perché, fra i vari soggetti sociali, solo il proletariato si avverte immediatamente nella condizione di soggetto e oggetto (reificazione),al tempo stesso, dell’accadere sociale. Tale condizione, secondo Lukács, non permetterebbe al proletariato l’illusione di arrivare a dominare col pensiero l’intero della struttura sociale, costringendolo a spostare tale possibilità in un’operazione connessa alla prassi. Gli altri soggetti sociali, invece, non avvertendosi reificati, continuano a ritenere possibile una visione culturalista della totalità del reale, appunto perché non riescono a comprendere la relazione dialettica fra quanto accade a livello sociale (razionalizzazione, specializzazione, strumentalizzazione) e lo sviluppo del loro stesso pensiero. Qui si sviluppa l’anti-materialismo. Le posizioni filosofiche tese ad afferrare la realtà fuori da questa relazione dialettica diventano così espressioni astratte di un pensiero che può immaginarsi autonomo (può cioè pensare di dominare il reale nella forma dell’archetipo, del simbolo) solo perché si immagina separato da quanto accade sul piano concreto (la prassi) dell’essere-sociale.
Ma in tal senso alla base delle opzioni di tipo morfologico-mitologico tese a postulare un orizzonte di verità fuori dalle continue modifiche storiche, risiederebbe proprio lo stesso principio di razionalizzazione strumentale (la stessa che sta dominando il mondo materiale della produzione) che tende ad approdare alla verità eliminando gli elementi che non si adattano al quadro dell’interpretazione: cercare i mezzi più adatti allo scopo e dichiarare il fine prefissato come verità. Il simbolo diventa così il principio strutturante la ragione strumentale, cioè la modalità base del sistema produttivo capitalista. Può essere fatto di tradizione, di comunità, di Kultur, ma la metodologia del suo funzionamento è affine, è poi la tesi di Benjamin, al modo in cui funziona la produzione industriale. La teoria archetipica, proprio nel negare la sua connessione dialettica con la sfera strutturale, cioè col funzionamento corrente della società divisa, diventa così a sua volta sintomo (anche se parla di tradizione, comunità, Kultur, ecc.) del modo in cui la struttura sta operando. Qui si aprono le connessioni con la destra attuale.
[1] Charles Péguy, “Vita e usura della democrazia parlamentare”(prefazione al Cahier di Édouard Berth, La politica anticlericale ed il socialismo,3 febbraio 1903), in Id., Questioni di metodo, a cura di A. Prontera, Milella, Lecce 1992, pp. 125-126.
[2] Alfredo Oriani, La rivolta ideale (1908), Cappelli, Bologna 1933, p. 62.
[3] Curzio Malaparte, “Fascismo operaio: gli umori del popolo” (La Nazione, 26 ottobre 1922), in Edda Ronchi Suckert (a cura di), Malaparte, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, vol. i, pp. 300-301.
[4] Oswald Spengler, Prussianesimo e socialismo (1919), ar, Padova 1994, p. 10.
[5] Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1918-22), Longanesi, Milano 2008, a cura di G. Raciti, p. 68.
[6] Hugo von Hofmannsthal, “Lettere del rimpatriato ii”, in Id., L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, Adelphi, Milano 1991, pp. 288-290.
[7] Id. “Appunti e diari”(1917), in Id., Il libro degli amici, Appunti e diari, Ad me Ipsum, Vallecchi, Firenze 1963, p. 167.
[8] Giovanni Boine, “La crisi degli olivi in Liguria” (La Voce, 6 luglio 1911), in Id., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, Garzanti, Milano 1983, pp. 396-399.
[9] Ivi, pp. 400-405.
[10] Ardengo Soffici, Lemmonio Boreo, in Id., Opere, Vallecchi, Firenze 1959, vol. ii, p.24
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“Se la destra antimodernista tende direttamente a invalidare gli effetti dello sviluppo storico-materiale, contrapponendovi l’immagine di un passato ‘intatto’ a cui tornare […], la destra modernista individua sì la progressione storica quale alveo di sviluppo di nuove concezioni, ma riempie poi tale progressione (è proprio il caso del Malaparte fra emersione delle masse e Controriforma) con valori non-dialettici…”. Così scrive l’autore dell’articolo, che rende pleonasticamente complesso un discorso semplice, il cui succo è questo: Curzio Malaparte è stato un “selvaggio” strapaesano e “controriformista”, ma è soprattutto un “maledetto toscano”, esattamente come Indro Montanelli, laddove questo aspetto della toscanità ha una grande importanza per capire il linguaggio e l’ideologia dei corifei di quella cultura di destra che confluirà nel fascismo e che comprende, oltre ai due intellettuali citati, Giuseppe Prezzolini, uno dei campioni, insieme con Giovanni Papini e Ardengo Soffici, della riscossa della borghesia nei primi due decenni di quel secolo. Al loro esempio di padri fondatori si ispireranno, quali fiancheggiatori, Leo Longanesi, Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo. Questa gente incarna quel tipo di intellettuale che, una volta imboccata la strada della “servitù volontaria”, serve il potere con una fedeltà canina, ma lo serve per poterne poi dir male, per prendersi il gusto di farlo provandone schifo (chi volesse approfondire questa fenomenologia di carattere masochistico e intellettualmente banausico può leggere l’introduzione premessa da Guido Piovene al libro “La coda di paglia”, in cui lo scrittore vicentino recita uno sconcertante ‘autodafé’ per la sua compromissione con il regime fascista). Insomma, è il tipo d’intellettuale che mette alla berlina con grande umorismo il potere, per poterlo poi servire con la massima fedeltà. In questo senso, la famosa dichiarazione di Indro Montanelli: “Invito a votare Democrazia cristiana turandomi il naso”, è il motto memorabile di un’educazione e di una cultura, che in Italia possono vantare una tradizione plurisecolare. Dopodiché, conviene ribadire che una cultura, identificabile anche come una tradizione, non costituisce mai o quasi mai qualcosa di omogeneo e di compatto: essa, al contrario, come la dialettica insegna, è costituita di correnti e sottocorrenti, ciascuna delle quali annovera una destra e una sinistra, un’avanguardia e una retroguardia, oltre a ‘compagni di strada’ d’ogni tipo. Pertanto, la biforcazione che segnerà questo troncone della cultura di destra ricalcherà fedelmente l’alternativa di fronte alla quale si troverà, dopo l’esperienza del ‘fascismo-movimento’, il ‘fascismo-regime’: definire l’identità della nazione tenendo conto della sua realtà effettiva. Orbene, va detto che nel ‘selvaggismo’ di “Strapaese”, il quale è riconducibile alla linea Papini-Soffici-Malaparte, vi è qualcosa di più e di diverso persino rispetto al fascismo diciannovista, che, pur attraverso l’uso strumentale di ideologie come il futurismo e il sindacalismo rivoluzionario, era rimasto ancorato a certi momenti topici della storia della cultura europea. Qui vi è, invece, una vera e propria riscoperta delle radici della razza, che porta il gruppo di intellettuali legati a quella rivista a propugnare un nazionalismo etnocentrico, che fuoriesce dai binari della modernizzazione reazionaria su cui il regime si proponeva di far avanzare la politica e l’ideologia del fascismo. Quest’ultimo può dunque accogliere il programma ruralista ultrareazionario del “Selvaggio” solo in parte, in quanto uno Stato ad economia capitalistica deve assumere la ruralità come una grande forza di riserva, ma non può esaurirsi in essa. La biforcazione politico-economica spiega allora tanto la biforcazione ideologico-culturale quanto il frondismo che caratterizzerà i successivi percorsi di quel gruppo di intellettuali con lo spostamento a sinistra di Malaparte e lo spostamento a destra di Longanesi, ferma restando la fondamentale ispirazione scettica, reazionaria e qualunquista, di tale corrente, in apparenza all’opposizione sotto il regime fascista e in realtà ‘nostalgica’ sotto il regime democristiano: in entrambi i casi sempre ben tollerata e ben foraggiata dal blocco dominante per la sua utile opera di “apologia indiretta” del sistema capitalistico.