“I confini contano”. Psicologia, filosofia e politica nella riflessione di Frank Furedi
In effetti, l’infantilizzazione degli studenti universitari ha finito per istituzionalizzarsi: spesso i rettori degli atenei trattano gli alunni come se fossero bambini biologicamente maturi, anziché giovani uomini e giovani donne, e danno per scontato che necessitino di un sostegno terapeutico per compiere la transizione dalla scuola superiore all’università.
In alcuni casi, l’infantilizzazione è una caricatura di sé stessa: numerosi atenei forniscono agli studenti ansiosi che devono sostenere gli esami teneri giocattoli e cuccioli da accarezzare in stanze appositamente concepite per rilassarsi. La facoltà di Medicina di Harvard e la facoltà di Legge di Yale mettono a disposizione cani da terapia nelle rispettive biblioteche, mentre all’università di Canberra, in Australia, le attività per alleviare lo stress prima degli esami comprendono una fattoria didattica e schiacciare le bolle degli imballaggi pluriball (…).
Frank Furedi, I confini contano, 2021 Meltemi, pag. 221
“I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere” è un saggio del sociologo inglese Frank Furedi su un tema molto attuale: il significato e il valore di confini e frontiere nella società globalizzata, di fronte a processi migratori sempre più estesi e a una profonda crisi delle forme democratiche di governo che dovrebbero gestirli.
Lo studioso affronta l’argomento da diverse prospettive. Sul piano storico-politico, ragiona sulla crisi della democrazia, che una diffusa tradizione di pensiero intende come il luogo in cui dovrebbero trovare conciliazione e soluzione i problemi contemporanei: la guerra, per esempio, o i processi migratori. Sul versante psicologico e cognitivo, esplora la funzione simbolica e pubblica dell’idea di “confine”, come elemento di riconoscimento individuale e collettivo e come collante sociale: le differenti frontiere fra le persone e il tema delle identità culturali costituiscono in questo caso il suo ambito argomentativo privilegiato.
Crisi dell’idea di confine, crisi della democrazia
Nel solco di intellettuali e politologi come Colin Crouch, Furedi riconosce lo stato di profonda crisi della democrazia istituzionale, evidente nella personalizzazione della politica, nella persistente presenza di atteggiamenti discriminatori e razzisti, nel diffuso nazionalismo, nelle tragedie causate dall’assenza di una politica comune sulla migrazione. Tuttavia, confuta il pensiero dei critici radicali di questa forma di governo che ne vorrebbero la liquidazione, insieme appunto alle frontiere che ne costituiscono il fondamento e ne indirizzano le dinamiche.
La democrazia non è, a suo avviso, un metodo di organizzazione burocratica e di gestione razionale di meccanismi di segregazione, esclusione, e coercizione. Al contrario, ne sottolinea il valore di luogo condiviso di elaborazione culturale di giudizi morali, e l’aspirazione a costruire un mondo di regole che salvaguardino l’umanità e l’uguaglianza. Esiste quindi il concreto rischio che la lotta per l’abbattimento delle frontiere non costituisca una riscrittura attualizzante di nobili ideali del passato (il pensiero utopistico, l’Illuminismo e i loro eredi culturali), bensì la loro radicale negazione. Questo potrebbe avvenire se a una prospettiva storica se ne sostituisse una ontologica, sulla base della quale gli errori e i limiti della democrazia non sarebbero emendabili: essa sarebbe infatti fondata su un’idea divisiva, e si tradurrebbe per sua natura in pratiche di regolazione delle differenze e delle distanze fra individui e gruppi sociali, senza proporsi di superarle.
Non giudicare: elogio dell’irresponsabilità
La critica delle istituzioni democratiche è la manifestazione più evidente di quella che Furedi definisce “ideologia dell’illimitatezza” (in altri punti del discorso “dell’indefinitezza”). Essa trova il suo fondamento nel rigetto radicale delle forme logiche e dei processi dialettici che costituiscono l’impalcatura cognitiva e etica della nostra (di qualsiasi?) cultura.
Oggetto di rifiuto è la logica binaria, nella quale non si individua un processo ragionativo utile a costruire mediazione e condivisione, bensì la radice stessa della discriminazione, che ha nel linguaggio il suo strumento operativo. Di conseguenza, proprio sul linguaggio si concentra l’attenzione di movimenti e attivisti anti-binari e anti-confini, nel tentativo di denaturalizzare ciò che la storia sociale ha travestito di falsa “naturalezza”.
Per raggiungere questo scopo, il nemico viene individuato nel giudizio, soprattutto quando ambisce a stabilire regole e idee morali socializzate, per esempio attraverso le leggi di uno Stato o le consuetudini sociali e culturali. Si promuove quindi un atteggiamento non giudicazionista come forma di rispetto e riconoscimento di minoranze e gruppi sociali. Agli stessi valori si ispira la polemica contro le istituzioni tradizionali, cui si imputa di trasmettere idee di identità e di appartenenza fondate su falsi giudizi e falsi valori, nella convinzione che l’uomo (la persona) idealizzata e vagheggiata a partire dall’Illuminismo e definita poi attraverso le esperienze storiche successive costituisca una sorta di monumento al passato: l’umanesimo liberale, in questa visione, è semplicemente un anacronismo e una zavorra da superare. La lotta contro un simile costrutto etico e linguistico si deve condurre, secondo i suoi critici, prima di tutto sul terreno del linguaggio: questo atteggiamento è esemplificato con efficacia dalle norme di policy e dalle speech rules adottate da molte istituzioni pubbliche, cui Furedi fa frequenti riferimenti. Si tratta di una vera e propria ingegneria linguistica comportamentale, che si prefigge l’obiettivo di modificare i comportamenti attraverso una nuova lingua. Su un piano più ampio, è la politica del nudge (in inglese “sprone”) inaugurata in Inghilterra dal governo Cameron, che la considerò un legittimo strumento di policy pubblica: una serie di tecniche di management ispirate alle teorie dell’economista statunitense Richard Thaler, convinto che poiché le persone spesso non agiscono razionalmente e nel proprio interesse sia legittimo indirizzarle, attraverso vere e proprie campagne di propaganda pubblica, da parte di governi ed esperti.
A una simile prospettiva, Furedi oppone diverse voci di intellettuali, fra le quali spicca quella di Hannah Arendt che, in “Che cos’è l’autorità”, scrive:
La filosofia può immaginare la terra come la patria del genere umano e di una sola legge non scritta, eterna e valida per chiunque. La politica riguarda invece gli uomini, abitanti di molti paesi ed eredi di molte storie; le sue leggi sono le recinzioni positivamente stabilite, che circondano, proteggono e limitano lo spazio nel quale la libertà non è un concetto ma una concreta realtà politica.
Il pensiero di Arendt viene ripreso anche a proposito del dovere morale e civile del giudizio, un atto che pone le basi per qualsiasi dialogo tra un individuo e gli altri: giudicare – sono le sue parole – “è una delle più importanti, se non la più importante, attività nella quale si manifesti il nostro condividere il mondo con altri”.
L’antitesi fra la demonizzazione e la valorizzazione del giudizio appare all’autore irriducibile.
Nuove soggettività
Il quadro concettuale entro il quale si combatte la guerra culturale per l’abbattimento dei confini è definito dallo scontro fra “vecchio” – l’eredità morale e valoriale trasmessa dalla tradizione – e “nuovo” – la lotta di liberazione delle persone discriminate, dimenticate dalla storia, dalle nuove identità e soggettività emerse nel presente. Alla “vecchia” centralità di istanze sociali e collettive tende a sostituirsi il “nuovo” valore del singolo individuo, che pretende per sé rispetto assoluto. Ѐ un movimento, sottolinea l’autore, che si accompagna alla progressiva perdita di valore della critica e del suo strumento necessario e insostituibile: l’argomentazione. I nuovi libertari, invece, propugnano forme di mobilitazione e rivendicazione giocate sul piano dei sentimenti, definendo “riscatto” e “liberazione” ciò che per Furedi è “indifferenza” e “arbitrio”.
Nel cammino verso un mondo inteso come specchio e continua percezione di sé stessi, si combattono soprattutto due battaglie: sul piano verticale, per scardinare la concezione tradizionale del rapporto fra le generazioni; su quello orizzontale, per cancellare non solo le differenze di genere e le pratiche che le istituiscono, ma lo stesso concetto, abbattendo dalle fondamenta l’idea stessa di “genere”. Il continuo attraversamento dei confini tradizionali – i bambini trattati come adulti (adultificazione), gli adulti che si comportano come bambini (infantilizzazione) – implica la repulsione verso qualsiasi definizione che pretenda di assegnare agli uni o agli altri ruoli precisi e precise responsabilità: in particolare viene meno l’idea di una condizione adulta come senso di responsabilità condivisa e collettiva, come esempio e veicolo di un passaggio di consegne e di un’eredità culturale. La stessa dinamica è alla base dell’enfasi posta sulla fluidità di genere, e sull’idea che sin dalla più tenera infanzia le persone debbano essere trattate come se fossero alla ricerca del proprio sé, senza nessuna possibilità di definirlo in base alle categorie e alle discipline che la tradizione utilizza (prima fra tutte, la biologia). L’autore ritiene queste battaglie una manifestazione di “trasgressione senza oggetto”, che trasformano la ribellione individuale in un “atteggiamento consumistico di fronte all’identità”. Secondo Furedi, la diretta conseguenza di questi atteggiamenti è la confusione deleteria fra la dimensione interna/ intima della soggettività e quella esterna/ relazionale; ancora peggio la sovrapposizione della sfera privata, caratterizzata spesso da emotività e da interessi egoistici, a quella pubblica, inevitabilmente indirizzata alla solidarietà e alla rinuncia razionale ad una parte del proprio interesse.
Impressiona, in questa parte del ragionamento, scoprire la sovrapposizione evidente fra le istanze dei libertari che lottano contro i confini e gli interessi e le logiche del neoliberismo e dell’industria culturale dell’intrattenimento, di quella del digitale e delle nuove tecnologie: l’assunzione di sé stessi a misura del mondo, il discredito gettato sulla dimensione pubblica della vita, la spinta pubblicitaria verso il superamento di ogni limite. Non meno impressionante, a mio avviso, è il riflesso politico della riflessione di Furedi, che descrive la parabola del “progressismo” contemporaneo, sempre meno incline a promuovere battaglie collettive in nome di ideali sentiti come “vecchi” (pensiamo al diritto al lavoro e all’uguaglianza sociale), sempre più incline a prendersi cura di ogni possibile diritto o minoranza che potrebbe essere minacciata.
Secondo lo studioso, questa tendenza di moda a mettere in discussione ogni valore e limite ereditato dalla tradizione, ad attualizzarlo rigettando senza distinzioni le differenze che si sono stratificate nella storia, non produce affatto una società meno violenta. Al contrario, genera una vera e propria cultura della paura: la società contemporanea è infatti letteralmente ossessionata dal problema dei confini personali e individuali, la comfort zone di cui tantissime persone sono alla disperata ricerca e che è diventata il tema centrale di campagne pubblicitarie martellanti.
Il posto della scuola nel totalitarismo morbido
Dall’ideologia dell’illimitatezza, definita dall’autore “forma morbida di totalitarismo”, viene investita anche la scuola, cui la tradizione assegna il preciso compito di trasmettere, attraverso le conoscenze, valori, giudizi e distinzioni. Gli esempi citati da Furedi sono tratti quasi sempre dal mondo angloamericano: descrivono quindi in parte una situazione presente in tutto il mondo occidentale, in parte un futuro prossimo.
Le tradizionali barriere che la nuova visione dell’illimitatezza vorrebbe sradicare dalla scuola sono soprattutto tre.
La prima è quella fra insegnante/ adulto e studente/ bambino o giovane, in cui alla centralità del primo sul piano educativo e culturale si sostituisce la centralità del secondo. In quest’ambito, alcuni fatti e riferimenti sono francamente inquietanti: in particolare, le norme che vietano il contatto fisico (molto severe con gli insegnanti che toccano bambini) e le relazioni (ci sono parchi in cui è vietato l’ingresso alle persone adulte che non accompagnano bambini). La seconda è quella fra studio e gioco, in cui attraverso l’introduzione di metodi e strumenti nuovi si ritiene di poter rimuovere dall’apprendimento la componente di fatica e talvolta di dolore che tradizionalmente gli si associa (a questa dimensione si riferisce la citazione che apre quest’articolo). La terza è quella fra apprendimenti formali/ istituzionali e informali/ popolari (folk learning) intesa come spinta verso un sapere più democratico e aperto al contributo di ciascuno.
Sono tutti temi che caratterizzano la discussione sulla scuola e creano conflitti intellettuali nel mondo di chi insegna, anche se ben sappiamo che i decisori politici sembrano avere da tempo assunto su di essi una posizione chiara, che va esattamente nella direzione dell’abbattimento della tradizione e dell’affermazione di una presunta “novità”: gli strumenti tecnologici sono gli alfieri, l’accento posto sul benessere e sulle soft skills e la svalutazione dei contenuti dell’insegnamento a favore dei metodi ne costituiscono l’asse portante.
Ma il punto più interessante e attuale del discorso di Furedi è quello in cui egli si sofferma sulla capillare diffusione di indicazioni processuali e burocratiche sempre più stringenti, in ogni ambito della vita. Dalla sfiducia nelle decisioni delle persone e nei loro giudizi deriva infatti un incremento esponenziale di processi automatizzati, form e procedure.
La formalizzazione di regole di comportamento che prima erano informali porta a disegnare nuove linee di confine, che intersecano aspetti diversi delle relazioni interpersonali. Quindi, paradossalmente, la svalutazione del giudizio porta alla proliferazione di nuovi confini nella vita quotidiana.
A differenza dei confini simbolici del passato, che si sono evoluti in maniera organica a partire dalle consuetudini etiche e dalle reciproche obbligazioni morali nell’esperienza di comunità, il “processo formale” è costruito amministrativamente. I codici di condotta prodotti dai reparti delle risorse umane sono letteralmente inventati da professionisti che non hanno alcun legame morale o organico con le persone che dovranno attenersi alle nuove norme. (…)
L’obiettivo delle nuove norme che governano le relazioni interpersonali e dell’implementazione dei “processi” nelle istituzioni pubbliche è regolamentare, e in ultima analisi controllare, il comportamento degli individui; il che mette in luce tutti i limiti all’idealizzazione del valore dell’apertura. I confini costruiti amministrativamente sono concepiti per arginare le libere e spontanee interazioni connesse a un’autentica apertura all’esperienza.
Eliminare errore e alterità, incanalare e controllare l’esperienza, tradurre l’umanità in numero e procedura: difficile immaginare qualcosa di più antidemocratico. Eppure, sostiene Furedi, è a questo che porta l’ideologia della cancellazione dei confini.
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Ritengo che sia filosoficamente, culturalmente e politicamente necessario sottolineare la divergenza che sussiste tra un orientamento ‘orizzontalista’, borghesemente cosmopolitico, e un orientamento dialetticamente modulato in senso ‘verticalista’. Si tratta infatti di cogliere, traducendola con il termine di “orizzontalità”, la differenza categoriale tra i due opposti antitetico-speculari rappresentati dal paradigma “orizzontalista” e dal paradigma “verticalista”, che – come viene giustamente rilevato da Furedi, il quale limita la propria analisi al periodo della globalizzazione – si sono fronteggiati, incrociati e alternati nel corso della modernità. Laddove per il primo paradigma, caratterizzato dall’immanenza e dagli individui, l’ordine procede (se e quando procede) non da un”auctoritas’ centrale ma dalla dinamica spontanea delle interazioni tra i soggetti sociali, e per il secondo paradigma la società è un sistema che funziona secondo un principio di unità che occorre saper identificare, giacché esistono dimensioni trascendenti ed invisibili che informano i soggetti. Naturalmente, l’orizzontalismo conduce costantemente una lotta per l’egemonia contro il verticalismo sia in campo teorico sia nella sfera sociale e istituzionale. Tanto per citare l’esempio storico più noto del paradigma orizzontalista, basti pensare al cosiddetto “libero mercato”, che è il perno attorno al quale ruota il modello istituzionale dominante, ossia il liberalismo e, nelle sue accezioni più radicali, il libertarismo anarchico, fautore della cancellazione dei confini e delle culture. Fra i sostenitori del paradigma verticalista si può invece citare Marx per almeno tre motivi: la demistificazione del ruolo fondativo dell’individuo nell’azione sociale, lo smascheramento della natura verticalista dello stesso regime orizzontale e la denuncia degli esiti catastrofici della regolazione orizzontale (gli stessi che vanno denunciati a proposito delle politiche migratorie perseguite da tale ‘regolazione’). E’ proprio sul tema del rapporto tra natura e società che Marx rompe decisamente con il paradigma orizzontalista, quando dimostra che la presunta naturalità delle interazioni di mercato (lavoro, terra, moneta) non è altro che “ideologia”, vale a dire un prodotto culturale che maschera i rapporti di dominio nella sfera della produzione, la narrazione che una classe specifica tenta di promuovere al fine di preservare i propri interessi e di consolidare la sua posizione dominante a scapito delle classi subalterne. Per Marx, insomma, l’orizzontalismo è un artificio retorico che serve ad occultare il rapporto di ‘verticalità’ gerarchica tra i detentori dei mezzi di produzione e i detentori della forza-lavoro (il cosiddetto “diritto eguale” con tutte le sue attuali derivazioni: dalla teoria ‘gender’ al femminismo borghese e piccolo-borghese, dall’enfasi sui diritti civili e individuali all’apologia dei ‘migranti’, dall’animalismo ai ‘no-vax’). Da qui, cioè dalla struttura economica della società, incardinata sul nesso di forze produttive e rapporti di produzione fondati sulla proprietà privata borghese, scaturiscono, attraverso un sistema articolato di ‘mediazioni’ analizzato, a diversi livelli, in tutta l’opera marxiana, l’alienazione e lo sfruttamento, la cui misura è il “plusvalore”, motore specifico della crescita capitalistica, così come dell’impoverimento dei lavoratori e, ‘last but not least’, delle guerre fra le grandi potenze per la spartizione dei mercati e delle sfere d’influenza, il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, nonché delle vie di comunicazione (“de nobis fabula narratur”!). In definitiva, l’orizzontalismo conduce alla catastrofe, poiché – come Marx dimostra nel “Capitale” – “la vera barriera alla produzione capitalistica è il capitalismo medesimo” e la società orizzontale è destinata a deflagrare. Concludo osservando che oggi è maturo il tempo di recuperare questa ispirazione marxiana, giacché il regime neo-orizzontalista, in cui siamo immersi fino al collo (e la cui fenomenologia risulta disgustosa e talvolta orripilante), richiede analisi, come quella proposta da Furedi, all’altezza di quelle formulate da Marx nel XIX secolo. E’ una sfida che da due secoli ci attende e che accomuna eretici di diversa tendenza: è la sfida, come io penso, della costruzione di un verticalismo progressivo.