Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai (Carteggio 1918-1980). Sull’epistolario tra Montale e Solmi
Una lunga amicizia
A Novembre del 2021 è stato pubblicato da Quodlibet il monumentale epistolario tra Eugenio Montale e Sergio Solmi, Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai, curato con scrupolosa attenzione da Francesca D’Alessandro, con un’ appendice di testi inediti di cui si è occupata Letizia Rossi. Si tratta di 338 lettere che i due intellettuali si scrivono tra il 1918 (si conoscono, nel 1917, a Parma dove entrambi sono di leva) e il 1980 (un anno prima della loro morte, avvenuta a meno di un mese di distanza), che disegnano una linea orizzontale, con lievi increspature che vanno diminuendo di altezza e di frequenza verso la fine, quando le luci, anzi i barbagli, del vecchio splendore riescono a illuminarsi solo a intermittenza, sempre più affievoliti dalla stanchezza, dalla vecchiaia.
Ne emerge una dialogo, quasi costante, tra due voci che si esaltano nel reciproco confronto, intellettuale e umano, sempre rigorose e coerenti.
La guerra e uno «struggente quanto inane bisogno di poesia»
Parma, 1917. Tra «il bianco e il rosso dei bersagli sul greto del Taro», il «picchiettio precipitoso delle scarpe chiodate sul selciato e i troppo precoci «sobbalzi mattutini al vicino e lontano stridio delle trombe» delle caserme cittadine, una sera, in una latteria di un vicolo in centro, dove si riuniscono «amici, amanti delle buone lettere» (S. Solmi, Parma 1917, in Id., Poesie, meditazioni e ricordi, II, Meditazioni e ricordi, a cura di Giovanni Pacchiano, Adelphi, 1984, pp. 205-212), Montale e Solmi si incontrano e, subito, nasce una intesa istintiva testimoniata già dalla prima cartolina, inviata da Genova, del 28 febbraio 1918 («Io. Lui!»).
Gli inizi sono balbettii lucenti e carezzevoli: nonostante l’esperienza condivisa del fronte, nel carteggio non compare alcun riferimento alla guerra, solo lettere e cartoline brevi, ragguagli che testimoniano una confidenza che si sta sempre più consolidando (il 4 marzo 1918 Solmi scrive: «come passano i tuoi giorni filati dall’Inesorabile Parca? I miei malissimo per ora. Catarro bronchiale + thè + acqua di catrame (povero Berkeley) + riviste illustrate + poltrona e lunghe sere in casa», p. 4; e quattro giorni dopo: «Mio dio, sono stanco stanco stanco […]. Coraggio e avanti. Lavoreremo, se vivremo. E vivremo», p. 5; Montale, di rimando, risponde: Montale in guerra / A Solmi / Desiderio di stringer vecchie mani – / di rispecchiarsi in visi un tempo noti – / sotto il grondare di un gelato azzurro / che la campana dello Shrapnell scuote…, p. 7). Poi vi è, per entrambi, il ritorno a casa, alle città natali, ad una malinconica normalità cui reagiscono in modo differente. Da una parte vi è Montale, «vecchissimo fanciullo», a Genova (introdotto negli ambienti letterari e in contatto con Sbarbaro, Barile e Grande), che, già all’attivo Meriggiare pallido e assorto, cerca di rifuggire al destino del posto fisso, preda della propria «impotenza», della propria «apatia», timoroso dei minacciosi indizi di un possibile fallimento individuale; dall’altra Solmi (lettore onnivoro), a Torino, che studia controvoglia legge (si impiegherà alla Banca Commerciale di Milano) e sa stare, come affettuosamente gli scrive l’amico, con «i piedi a terra e il capo tra le nuvole», riuscendo a raggiungere «l’equazione» impossibile» («che a me era sempre sfuggita», aggiunge; la lettera è di inizio aprile 1921, p. 40, ma è significativa anche quella del 12 novembre 1919, in cui Montale ammette: «[…] sono tutto pieno di ammirazione per quei pochissimi che, come te, attraversano le mie stesse geenne brucianti senza scottarsi per niente e senza perder nulla di quella forza e di quella serenità che convengono a gente come noi; persuasa che ciò che è nostro non ci sarà tolto mai, né per nequizia di tempi né per malvagità di uomini», p. 9).
Affinità e convergenze
Il tempo trascorre e, al di là delle lamentele costanti (i problemi economici, le condizioni di salute precarie, un sentimento di deiezione verso la realtà che li circonda), i due amici (il poeta-critico e il critico-poeta, come li ha definiti Matteo Marchesini) si dimostrano immersi nell’attualità letteraria, si segnalano le riviste, si aiutano e si raccomandano a vicenda, leggono e scrivono senza sosta, mentre cominciano a delinearsi i tratti di due stili, di due poetiche che si dipanano tra Cecchi (soprattutto Montale) e Alain (soprattutto Solmi). Per quanto riguarda Cecchi, Montale, che ha verso «questo critico e artista squisito» «una stima illimitata» (così scrive a Solmi) e gli dedica un articolo nel 1923 su «Primo Tempo», mettendone in evidenza le caratteristiche più europee, quelle che maggiormente lo attraggono: «Infine lo ha avuto comprensore attento e acuto quella poesia di nudi rapporti e di chiuse riflessioni sulla propria astratta materia, che tende a una architettura e ad una concretezza supreme, e riesce all’ordine più rigido a traverso l’arbitrio e la devastazione: concretezza nuova che è agli antipodi di quella che significa illustrazione o «pezzo» ben fatto in senso andante o parnassiano». Di rimando Solmi (che agli elogi di Montale risponde: «Anche il mio ideale di critica tende al modo di Cecchi o di Gargiulo, piuttosto, per intenderci, che a quello di un Borgese […]. I crociani e i gentiliani (strettamente intesi) mi han sempre avuto l’aspetto di gente che non sappia di che parla»), nella recensione a Pittura italiana dell’Ottocento, nel 1926, per il «Giornale di Genova», non a caso parlerà di «rivincita del gusto preciso, dell’intelligenza esperta, che sa valersi dei metodi senza imprigionarvisi; la rivincita, se vogliamo, della personalità concreta».
Per quanto riguarda Alain, entrambi ne ammirano «l’antidogmatismo, l’asistematicità, la capacità di mirare al relativo, alla sostanza irripetibile di ogni singolo fenomeno artistico». Solmi intraprende una lettura attentissima dell’intellettuale francese e scrive, per «Il Convegno», il 25 giugno del 1927, L’estetica di Alain; la reazione di Montale è entusiasta, tanto che, sempre su «Il Convegno», esattamente due mesi dopo, in un articolo dedicato a Du Bos, scrive: «Il nostro amico Sergio Solmi ha avuto agio di mostrare […] parlando di Alain, che è probabilmente il più forte dei più recenti pensatori francesi-antisistematici, quanto sia viva nella critica migliore d’oggi l’esigenza di riproporre all’indagine una materia che non sia quella troppo stanca «immagine ideale della forma» che uscì fuori dall’estetica del romanticismo, ma che risulti invece lo stesso elemento espressivo, assecondato e individuato, volta per volta, nel concretarsi delle varie figurazioni artistiche» (cfr. E. Montale, Giornate di lettura: Charles Du Bos, Il secondo mestiere, Prose (1920-1970), I, pp. 226-227). Nel 1930 esce Il pensiero di Alain, il primo libro saggistico di Solmi, che così ne sintetizza l’originalità dell’opera: «un’arte in profondità, la cui natura è di consistere, per così dire, più nell’operazione compiuta per ottenere il risultato che nel risultato stesso».
Anche il nome di Bobi Bazlen è un importante trait d’union; «l’ultimo e più singolare rappresentante dell’intelligenza triestina», lettore curiosissimo, dal gusto originale e mai scontato, scopritore di opere e scrittori contemporanei, che Montale conosce a Genova nel 1923 e diviene da subito «una finestra spalancata su un mondo nuovo» (così Montale in Ricordo di Roberto Bazlen). E proprio grazie a Bazlen il poeta scopre l’ignorato Svevo (e lo fa conoscere a Solmi) e ne fa esplodere il «caso» in Italia, con una recensione, nel dicembre del 1925, su «L’Esame» (Omaggio a Italo Svevo), in netto anticipo sulla Francia, dove Joyce aveva iniziato un intenso lancio internazionale e Crémieux era a sua volta impegnato a scrivere un pezzo sullo scrittore triestino per il «Navire d’Argent». Le lettere ricostruiscono l’intera vicenda (sulla questione che riguarda il «Navire d’Argent» è utile quella del 20 febbraio 1926), i timori di Montale per il confronto con la critica francese, i dubbi di avere confezionato una presentazione frettolosa e poco accurata, l’incontro con Ettore Schmitz, e registrano anche l’amarezza di quest’ultimo per gli attacchi gratuiti di alcuni detrattori (Caprin su tutti).
I due amici, però, condividono anche la diffidenza per le avanguardie e per l’appel à l’ordre della Ronda (nessuno raggiunge realmente l’ideale di poesia), e per «tutti gli ismi contemporanei» che non riescono a percepire la poesia come «una sintesi di sentimento, pensiero, intuizione e cultura, valori umani e valori puramente estrinseci». E, nonostante un certo affetto (soprattutto da parte di Solmi che lo conosce dai tempi della scuola), anche la figura di Debenedetti non emerge positivamente, ne criticano l’esasperata ambizione letteraria, il gusto per la mondanità («Il mio amico De Benedetti […] è un giovane di buon ingegno e cultura, ma molto lontano da me per aspirazioni e per educazione»), ma anche la natura critica («dice senza dubbio cose acute, ma disgregate», così Montale, p. 211); al contrario, Praz è uno «spirito non profondo ma di una versatilità etonnante» (Montale).
Questi i nomi che ricorrono più frequentemente, ma nel carteggio ne scorrono moltissimi altri di scrittori e di critici di cui i due amici parlano con tono più o meno benevolo, dimostrando sempre acutezza di giudizio, ponderatezza razionale e arguta ironia
Solmi lettore e critico degli Ossi e de Le Occasioni
Dal 1925 al 1933 risale il gruppo più corposo di lettere, che testimoniano la storia della pubblicazione degli Ossi (delle successive edizioni (Ribet, 1928; Carabba 1931), grazie alla mediazione di Solmi con Gobetti e anche alla sua «lungimiranza critica» (Solmi già in una lettera del 1923 scrive: «Riviere, L’agave sullo scoglio, Limoni son cose perfettamente raggiunte e tue. E non hanno niente di provvisorio e d’incerto, tanta è in esse l’accortezza e la coscienza del limite e della misura. […] Mi sembra che tu, in questa tua ispirazione, come dici mediterranea e solare, ti sia trovato compiutamente e debba sentirti finalmente coi piedi sul solido. Il nucleo della tua poesia, per così dire, il tuo atteggiamento di fronte alle cose è chiaro e definito in questa tua specie di naturalismo delicato e spirituale, che sorpassa l’impressionismo sensuale diffondendolo in un’armoniosa e unita eloquenza»; e, profeticamente, aggiunge poco dopo: «io credo che con una decina di poesie, all’altezza, ad esempio, dell’Agave o dei Limoni potresti affermarti in modo bellissimo», p.77; a pubblicazione avvenuta, il 21 luglio del 1925: «A me il nucleo centrale sembra sia veramente negli «ossi» brevi. È lì che mi sembra raggiungi la concretezza più viva e intensa dell’ispirazione, tanto più pregna di canto quanto più descrittiva e sommessa. In Mediterraneo c’è una piena e dolorosa eloquenza in vasti sfondi sinfonici che è di effetto bellissimo. Dunque mi sembra che l’effetto lirico sia meglio raggiunto quanto meno la visione si tritura facendosi prosastica e descrittiva, e quando si libra in ampi stacchi sospesi, come in Gloria del disteso mezzogiorno, Valmorbia discorrevano il tuo fondo […]», p. 117).
Si parla poi del trasferimento a Firenze di Montale (Solmi si è trasferito a Milano nel 1923), dell’impiego da Bemporad e, successivamente, di quello più prestigioso in qualità di direttore della biblioteca del Vieusseux, dell’inizio della nuova stagione poetica de Le occasioni (titolo che per Solmi è «un’aderente qualificazione critica»). Un po’ alla volta i nomi degli intellettuali che si muovono tra «Solaria» e le Giubbe rosse prendono il posto degli amici liguri.
Il 1933 è un anno cruciale, quello dell’incontro con Gianfranco Contini e Irma Brandeis. La corrispondenza si dirada (spesso le lettere contengono scuse per il «lungo silenzio», Montale è travolto dal tempestoso incontro con la Clizia de Le Occasioni, di cui niente racconta all’amico (invece, a Gianfranco Contini, in una lettera dell’8 giugno dello stesso anno, parla di un «disastroso ringiovanimento»), ma che segna l’inizio di una nuova fase emozionale, culturale e letteraria. I rapporti e le lettere riprendono ad essere appena più regolari dal 1939, quando, appunto, la pubblicazione della seconda raccolta del poeta genovese spinge Solmi a interrompere il silenzio epistolare e a scrivere parole di ammirato stupore all’amico (la lettera è del 15 novembre 1939), che contengono il nucleo generatore dell’ampia e articolata recensione che gli dedicherà pochi mesi dopo in «Primato» («La densa “materia” di questa poesia tocca l’assoluto dell’espressione attraverso un’estrema accidentalità di dati, di riferimenti: naturali e paesistici […], determinatamente autobiografici; o addirittura culturali […]. In questo senso il titolo di Occasioni è anche un’aderente qualificazione critica», adesso in Scrittori negli anni, pp. 251-264).
Šestov, una tardiva conferma
Il carteggio è significativo anche perché riesce a fare emergere e a ricollocare, in una posizione più rilevante, un nome fino a questo momento rimasto sempre un po’ laterale e che, invece, costituisce un punto di riferimento ineliminabile nella poetica montaliana, a partire dagli Ossi, Léon Šestov (altro intellettuale «asistematico»). Nel marzo del 1926 il poeta genovese annuncia a Solmi l’invio di La nuit de Gethsémani (essai sur la philosophie de Pascal) e Les révèlations de la mort (Dostoevski – Tolstoi), che l’amico gli annuncia di avere ricevuto il 13 maggio, insieme a Les faux monnayeurs: roman di André Gide. La lettura di tali opere, poco diffuse all’epoca, che Montale ordinerà poi per la Biblioteca del Vieusseux, costituisce la migliore garanzia della ricchezza e della libertà di pensiero critico, unita peraltro ad un’eccezionale coerenza di svolgimento che esclude occasionali omaggi alle mode di turno, lontano dalla lezione di Croce, che «suonava astratta, un capolavoro di logica» («e noi avevamo bisogno di una fusione fra letteratura e vita, diciamolo pure di una specie di religione», così Carlo Bo su quegli anni, in La cultura europea in Firenze negli anni ’30). E da Šestov Montale sembra apprendere proprio un nuovo tipo di visione (già suggerita dai contingentisti francesi, Boutroux e Bergson) che diffida di verità chiare e precise, simili alla fine a comode menzogne, delle esigenze della ragione: la vita vera si rivela solo a chi sa guardare dietro le «évidences» e cogliere i «barlumi». L’incontro con il filosofo russo avviene in anni decisivi per il poeta genovese, che tentava l’approccio ad un nuovo tipo di poesia, che superasse le barriere imposte dalla cultura tradizionale e l’inganno del mondo come rappresentazione di fatti esteriori, una poesia che non rinunciasse alla ragione, ma che nascesse «dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione» (in Dialogo con Montale sulla poesia [1960])
Un carteggio importante
Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai è un epistolario importante, per diversi motivi, culturali, storici, poetici, ma soprattutto perché illumina la figura di Solmi, intellettuale centrale e un po’ nascosto nel nostro Novecento. Se di Montale erano già stati pubblicati diversi importanti carteggi (tra i principali Eusebio e Trabucco – Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di Dante Isella, Adelphi, 1997, e Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, Gloria Manghetti, Franco Zabagli, Mondadori, 2006), poche sono le lettere che si conoscono (e, in generale, le notizie che si hanno) di questo «artista completo», dai molteplici talenti (critico, poeta, prosatore) e interessi (dalla filosofia alla fantascienza, basti pensare alla introduzione per Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, del 1959), che «ha partecipato attivamente al travaglio dell’arte contemporanea» e ha vissuto «il proprio tempo senza lasciarsene sommergere», con «profonda immersione e profondo distacco» (così Montale nella bellissima recensione La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese di Sergio Solmi, nel 1953), in modo insolitamente conciso e penetrante. Le pagine del carteggio sembrano restituire, senza filtri, tutti i motivi principali della sua ricerca umana, artistica e ideologica, che si concretizza in una scrittura che tende a una musicale complessità e integrità di sentimento; estraneo ad atteggiamenti da «baccante» sa rappresentare con una forte unità le striature ineffabili dell’esistenza, senza rinunciare al rigore di una forma intensamente elaborata ed individuata, alle snodature di una viva e piena coerenza.
In questo senso, l’opera di Solmi ha formato un centro di attrazione e di influenza, una tipicità ben più forte di altri intellettuali del Novecento, che attinge il suo valore di comunicazione in un omogeneo fondo umano, in un pacato e lucido scavo, in quella che, in breve, potrebbe chiamarsi eticità della forma. La pubblicazione di questo carteggio, forse, può servire a riaprire un discorso.
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