Riflessioni su Spatriati di Mario Desiati
Piacevole con qualche limite
Il libro, vincitore dell’ultimo Strega (Spatriati di Mario Desiati, Torino, Einaudi, 2021, p. 279), è piacevole per quanto si presenti un po’ scucito nella struttura: ben scritto in un lingua attenta e ricercata, molto colto, con una serie di debiti nei confronti di autori pugliesi (l’autore è di Martina Franca), ma anche di altri, e al centro un tema inusuale trattato con passione. Se c’è un limite è che è fin troppo ricercato. Vorrebbe essere sperimentale, ma non attraversa mai più di tanto il confine, né nei contenuti né nella forma.
Uno sperimentalismo linguistico poco audace
È la storia di Claudia Fanelli e di Francesco Veleno, che è la voce narrante, due amici, condannati ad inseguirsi per l’intera vita, a sentirsi vicini senza riuscire a raggiungersi quasi mai. Sono compagni di scuola al liceo di Martina Franca: per Francesco, che è un adolescente introverso, perseguitato da tormenti sessuali e religiosi, è un amore a prima vista. Claudia è il «fronte opposto» dalla prima pagina: rossa di capelli, nivea di carnagione, spigolosa, veste da maschio, indossa la cravatta e aspira ad andarsene dal paese. Francesco la definisce «spatriata» e così si sente anche lui, per quanto sia legato alla sua terra («La spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse nel caso che ci riguarda, i liberati»). Le sei parti, in cui si divide il romanzo, portano un titolo, che nelle prime tre è preso dal dialetto martinese e nelle seconde tre dal tedesco. Il legame con il dialetto di origine è forte in Desiati, che pure ne fa un uso parco, dando per ogni termine una spiegazione. Tale uso rimanda ad una voglia poco espressa di sperimentalismo linguistico che ricorda, in alcuni momenti, Gadda (ad es. negli aggettivi «claudieschi» e «velenesco»). In un momento drammatico il dialetto è definito come «l’attimo che divide la decisione dal dubbio», e Desiati, appunto, non riesce a decidersi su questo dialetto, rimane in sospeso. L’attenzione al lessico è invece estrema e, nella maggior parte dei casi, calzante. L’autore ha aggiunto in calce al romanzo una lunga nota in cui elenca i debiti con altri autori («Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti»). In fondo il romanzo non è solo un lungo viaggio di due persone che sono in cerca di una patria. Questo è anche il tema della ricerca linguistica: esiste una patria? esiste una lingua? esiste un posto e un mondo cui appartenere? Questo è il senso dell’essere «spatriati», di andare «ramingo, senza meta» per il mondo, come Desiati stesso scrive nella spiegazione del termine, che intitola la seconda parte.
Il romanzo della ricerca
È stato scritto che questa opera non può essere ridotta ad un bildungsroman (anche se in gran parte lo è), ma che è soprattutto un romanzo dei luoghi, in cui le città vengono fatte vivere come personaggi, il romanzo della ricerca di un altrove, di una patria e di una famiglia, a cui allude dopo un lungo periplo il ritorno a Martina Franca nella parte finale. Il bello è che tale approdo non è mai dato per scontato, perché è un’illusione, nel senso leopardiano del termine: un valore, un significato, di cui conosciamo bene l’inconsistenza dal punto di vista materialistico, ma a cui è bello ed inevitabile credere. In effetti c’è un riferimento a Leopardi, la cui citazione sta in esergo sotto il titolo («… mai contento, mai nel mio centro…»). La citazione è presa da una lettera del poeta, del luglio 1827, all’amico Pietro Giordani (di cui Desiati dà conto nelle sue note dallo scrittoio) sembra tratta dallo Zibaldone: in breve il poeta non si sente mai a casa, in nessuno dei posti in cui ha vissuto, «se non per le rimembranze da attaccare a tal luogo». Egli è a casa, nel suo centro, solo per un gioco illusorio della memoria.
Lo stesso vale, dunque, per Claudia e Francesco che condividono una storia ambigua, dai tratti indefinibili: sono quasi fratelli, stranamente figli di una coppia adulterina: il padre di lei è il primario del reparto di Ostetricia (forse non casualmente), dove la madre di lui è infermiera. I due sono amanti con una passione che travolge le due famiglie senza tuttavia distruggerle. La proposta di Claudia a Francesco è di far fronte insieme all’evenienza, che li farebbe avversari. La ragazza sta sempre – da donna – un passo avanti al ragazzo. È lei a introdurre la novità, ad andare in giro per il mondo prima a Londra, poi a Milano alla ricerca di un lavoro manageriale, che la deluderà, fino a portarla, da ultimo, a Berlino, dove finirà per lavorare in una casa per anziani. È Claudia che chiama Francesco, che insiste a farlo espatriare da Martina, con la complicità della madre di lui. Vi è un altro incastro “fraterno”: i due hanno entrambi una posizione sull’identità sessuale insieme opposta e complementare, operazione sul versante narrativo spericolata e difficile. Claudia ha relazioni promiscue, tendenzialmente lesbiche, fino a quando a Berlino incrocia prima Adria, un clandestino georgiano, e poi Erica, che nell’uscita da un giro di droga rischioso, rimane incinta di Elfo, una bambina. Schematicamente si potrebbe dire che Adria è omossessuale, ma ha una relazione etero con Claudia, di cui in seguito dirà a Francesco: «con lei non ero maschio e non ero femmina, ero Adria e basta». Francesco è molto combattuto rispetto alla propria omosessualità, intrisa di sensi di colpa religiosi, ma finisce per intrecciare una relazione amorosa intensa con Adria, quando finisce la relazione di Adria e Claudia. Finirà per diventare «hausmann», ossia casalingo, per occuparsi così della casa che divide con Claudia e Erica e per accudire Elfo.
Un accenno di psicoanalisi
È interessante notare come tutte queste relazioni siano triangolari ed interpretabili, da un punto di vista psicoanalitico, come edipiche, ma sarebbe riduttivo, anche se la psicoanalisi viene sfiorata nel romanzo, pure se in modo un po’sotterraneo (il testo indulge in simboli ed inserti di natura mitica e classica come la citazione della favola di Amore e Psiche). Un’analisi dettagliata implicherebbe uno spazio ben più vasto di una recensione e, forse, è opportuno lasciarla alla curiosità del lettore (insieme al finale che rimane sostanzialmente aperto, sospeso tra passato e futuro). Tuttavia, nella nota finale di Desiati può essere trovata una traccia abbastanza significativa: nel romanzo Erica compare al primo incontro travestita da Wonder Women, un personaggio dei fumetti, di cui viene detto nella nota: «inventato da William Moulton Marston, psicologo e femminista, teorico del poliamore», alludendo probabilmente all’utopia del superamento dei limiti dell’appartenenza di genere. Mi limiterò a segnalare solo tre elementi. In primo luogo il prevalere di una sessualità orale: il baciarsi è di gran lunga in primo piano e non per ragioni di pruderie, perché nel romanzo ci sono scene di sesso spinte. Poi deve essere segnalata l’eclissi totale delle figure paterne, tema molto attuale: il padre di Claudia muore precocemente e il padre di Francesco appare come un maschilista del tutto superficiale. Infine Berlino con i cuoi club trasgressivi appare «una città dove ogni illusione di libertà, integrazione, solidarietà e democrazia sembrava possibile», l’«unica patria possibile, quella in cui non rispondiamo a nessun di ciò che siamo». Si configura qui una sorta di cittadinanza europea, di «un continente che si sente vecchio, ma dove un buon numero di persone non aveva paura della libertà degli altri» (considerazione tanto auspicabile quanto inattuale, almeno così sembra in questo momento storico).
In una possibile interpretazione allegorica ho individuato una strutturazione figurale tutta legata all’emersione dall’inconscio della sfera orale: Francesco racconta un’esperienza sessuale sotto l’effetto di una qualche droga aspirata da un narghilè, egli rifiuta una fellatio, ma ricorda il travaso del mosto di molti anni prima con suo padre, che gli insegnava come succhiare la cannula per passare il liquido dalla damigiana alla bottiglia con la conclusione: «La famiglia Veleno al completo partecipava al rito della vendemmia». Ancora una volta l’utopia è superare la famiglia in forme di aggregazione umane nuove, ma le nostre appartenenze ci riportano ancora lì.
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