Piccolo manifesto personale di scrittura working class
Per Minimum fax è di recente uscito Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class di Alberto Prunetti, autore della trilogia Amianto (Alegre, 2014), 108 metri (Laterza 2018), Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020). Ne pubblichiamo un estratto, ringraziando autore ed editore della disponibilità.
1. Niente approcci vittimari
Con le nostre storie working class non vogliamo che il lettore ci venga a battere lacrimevoli pacche sulle spalle. Niente autocommiserazione. Rappresentiamo i proletari di rado come vittime, piuttosto come attori e protagonisti di movimenti sociali, di un periodo storico, di cambiamenti e trasformazioni radicali. Più che l’alienazione, raccontiamo l’orgoglio e la strafottenza di appartenere alla working class. Al tono dolente, contrapporre l’esuberanza turbolenta dei subalterni, di chi finalmente riesce a raccontare la propria storia senza farsi raccontare dagli altri. Occhio però a non brandire l’abuso patito come una clava, cercando la zona di comfort della vittima e alla fine depoliticizzando il trauma: bisogna saper guardare ai traumi degli altri più che ai propri, per fare scritture working class degne di questo nome.
2. Umorismo di contrasto
Se facciamo commuovere i lettori, non bastano le loro lacrime. Se li facciamo ridere, non è perché vogliamo intrattenerli. Mescolare tragedia e commedia, l’umorismo e la tensione emotiva del dramma. Usare l’ironia per ribaltare i contesti, per smontare le pesantezze retoriche dell’ideologia, per fare il sì dov’era il no. Quando la classe lavoratrice è raccontata dall’esterno, emergono la tristezza, l’alienazione, la sofferenza. Dall’interno, bisogna raccontare le zone d’ombra e quelle di luce. E non aver paura di legare gli opposti con l’umorismo, che è il brodo di cultura popolare in cui siamo immersi. La vita operaia è fatta di opposti e serve tutta la forza di un saldatore per tenerli assieme. Questa è anche una tecnica di lotta. Pensate ad Alì contro Foreman. Vi faccio venire sotto. Vi lancio un aneddoto, ridete. Vi siete scoperti: destro d’incontro con legnata emotiva al fegato. Accusate il colpo, incassate a fatica. Cambiate di guardia, fingo con un’altra battuta e vi lancio a sorpresa un rapido job di sociologia: siete rimasti sguarniti da lato del materialismo storico. Andate a terra. Se cadete knock-out, è perché siete ancora vivi. Quel dolore è la vostra umanità.
3. Responsabilità
Se parliamo di noi e delle nostre famiglie, non è narcisismo. Quello che per alcuni è narcisismo, per altri è autorappresentazione. Così le storie personali di chi sta nei coni d’ombra della narrativa diventano storie esemplari. Se diciamo «io», non è per culto della personalità, ma per un’assunzione di responsabilità su quel che raccontiamo. Quando usiamo la prima persona, lo facciamo per asserire che noi siamo dentro al racconto, dentro alla classe, al lavoro, allo sfruttamento. La terza persona serve al narratore esterno che sceglie uno sguardo più oggettivo. Noi però stiamo dentro all’enunciazione e all’enunciato, al racconto e al vissuto. Solo speriamo che quella prima persona da soggettività singolare si faccia plurale: dov’è l’io, fare il noi.
[…]
5. Meglio le narrazioni ibride…
…che il romanzo-romanzo. Del resto il romanzo è stata la forma espressiva in cui la borghesia si è rappresentata, da Defoe in avanti. Ma è anche una forma elastica, che nasce già ibrida (penso a Laurence Sterne) e che può essere usata in forme diverse da quelle scelte dal canone letterario consolidato o anche solo dal mainstream editoriale degli ultimi anni. Intrecciamo quindi opere di finzione con memoir, autofiction, etnografia della classe, inchiesta operaia, diari e materiali d’archivio. Moltiplichiamo non solo i registri e i generi ma anche le forme dell’esposizione (descrittiva, di invettiva, poetica). E infine diamo forza perlocutiva ai nostri scritti: usiamoli per fare cose nella realtà, per trasformare il mondo.
[…]
8. Mimetismo e sperimentazione
Al solito: i borghesi possono prendersi il lusso della sperimentazione, dell’espressionismo, del gioco formale, dell’avanguardia. Ai poveracci tocca replicare cacofonicamente le loro sfighe. Ritengo invece che per restituire al meglio la complessità del linguaggio e delle esperienze delle persone di classe operaia sia necessario suonare registri distinti, dosare un complesso impasto linguistico, ricorrere a sperimentazioni, spingere l’acceleratore del simbolismo e dell’allegoria. Fare del testo un cantiere aperto, replicando in narrativa il lavoro della carpenteria industriale. Bisogna ibridare, non come un artista, ma come un saldatore che da sempre assembla strutture non omogenee per creare architetture di carpenteria sedimentate e stratificate. Da qui deriva anche la tensione verso l’iperrealistico, il caricaturale, il grottesco. Senza fare i fighetti che se la menano col postmodernismo: se vogliamo essere capiti dai pensionati del circolo Arci, dovremo allora essere pronti a tornare su una lingua piana. Dipende cosa vogliamo dire e a chi vogliamo parlare.
Molto spesso però il realismo rischia di diventare una catena che ci imbriglia, una zona di confino.[i]
[…]
12. Uso del linguaggio tecnico dell’industria
Il linguaggio tecnico e settoriale del lavoro industriale può essere una delle caratteristiche della narrativa working class. Contrariamente a quel che si pensa, molti lavori operai richiedono competenze, sapere, studi: l’immagine dell’operaio dequalificato, che compie solo mansioni semplici e frammentate, è fuorviante. Per costruire il lessico tecnico del lavoro serve esperienza sul campo. Faccio una semplice osservazione. Quando una persona comune, magari con laurea, entra in un ferramenta, spesso si trova priva di parole per designare gli oggetti. Sono tutte cose che cosando cosano. Per fortuna l’addetto alle vendite è spesso un buon semiologo (anche se ha fatto l’Iti o il professionale) e cercherà di tradurre quella richiesta generica in un oggetto specifico. Al contrario, un operaio in ferramenta si trova nella propria zona di comfort. Ogni cosa su quegli scaffali ha un nome e una misura specifici. E lui li conosce. Adesso portiamo questa competenza linguistica dal banco della ferramenta in narrativa. Prendiamo Inox, il romanzo di Eugenio Raspi che racconta il lavoro nelle acciaierie di Terni. Qui il linguaggio tecnico diventa davvero il punto di forza della narrazione. Ci sono storie operaie che non si possono raccontare senza le parole del gergo tecnico. E questo racconto può farlo decentemente solo un operaio.
13. Raccontare il disastro industriale e ambientale
Bisogna anche far convergere le lotte. E quelle operaie devono essere legate a quelle ambientali, che a loro volta devono essere connesse alle lotte per la salute sul posto di lavoro. La classe operaia ha lavorato a rischio per decenni. Sull’orlo della malattia professionale e dell’incidente, sul baratro della nocività, a un passo dal disastro industriale e ambientale. Il lavoro a rischio va raccontato fino alle sue estreme conseguenze: dagli infortuni personali fino ai disastri ambientali e industriali. Senza logiche vittimarie: prima che vittime, i vecchi operai sono testimoni di un abuso patito sulla propria pelle. Da Taranto a Bhopal, da Marcinelle a Casale Monferrato, bisogna raccontare i disastri imposti dalle logiche del profitto alla salute e all’ambiente, bisogna mettere sotto la lente della scrittura il lavoro nocivo e la deindustrializzazione selvaggia che si lasciano alle spalle inquinamento e bonifiche mai realizzate. Uno storytelling del disastro che metta assieme questioni ambientali e questioni di classe, chiedendo la giustizia climatica accanto a quella sociale, laddove le retoriche mainstream tendono a separare i temi per meglio imbrigliarli, spingendo poi i lavoratori con le spalle al muro, a scegliere tra occupazione o inquinamento. Ossia a non scegliere ma a subire politiche industriali devastanti e fallimentari.
Tra le retoriche che infestano il discorso pubblico, c’è quella che dipinge l’ambientalismo come un lusso per ricchi. In realtà, le prime vittime dei disastri industriali sono sempre le persone comuni. I poveri sono i primi a pagare la crisi climatica creata dall’industrialismo, i cui vantaggi finiscono come profitti nelle tasche della classe dei super-ricchi. È interesse degli operai, esposti per primi alle nocività industriali, lottare per ottenere il pane e le rose, entrambi non avvelenati, senza polveri sottili e benzopirene. Di qui la necessità di lottare (e scrivere) unendo le rivendicazioni sul lavoro e quelle sull’ambiente. Bisogna far convergere i punti di vista: unire le rivendicazioni in una prospettiva di ambientalismo working class. […] Lo storytelling dal basso può servire a smontare le logiche delle retoriche tossiche imposte dall’alto, che finiscono per spingere i lavoratori a scegliere tra pane e salute: una finta scelta, un arrocco imposto dal padrone che ha già messo sotto scacco i lavoratori nel momento in cui distrugge i cavalli operai dell’immaginario e spinge in avanti le torri della ristrutturazione industriale, con la classe media che fa da peoni e i sindacati che a volte non si capisce da che parte giochino.
[i] […] Prendiamo Bryan Stanley Johnson, l’autore di In balia di una sorte avversa. B.S. Johnson ha tutte le carte in regola per essere un working-class hero della letteratura: nato nelle Midlands inglesi, impegnato nel sindacato, scrive spesso di lavoratori e di conflitti sociali con prospettive di sinistra. Pare abbia anche un caratteraccio. Ma … ma è troppo sperimentale! Il romanzo del 1969 di B.S. Johnson gioca con le forme espressive come farebbe un autore del Nouveau Roman: è formato da ventisette capitoli rinchiusi in una scatola il cui ordine viene liberamente deciso dal lettore. Una cosa del genere non può averla fatta uno sfigato o un poveraccio. La narrativa operaia deve essere inchiodata al realismo. I proletari non possono essere modernisti, o espressionisti, o lanciarsi nella sperimentazione avanguardistica. Lo sanno tutti: sono dei bruti che scrivono di maschi che fanno a cornate fuori dal pub! Su Bryan Starnley Johnson consiglio la biografia scritta da Jonathan Coe: Come un furioso elefante. La vita di B.S. Johnson in 160 frammenti.
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