Un diario inedito di Giani Stuparich
Diario 1913-1915
Guerra del ’15 di Giani Stuparich (1891-1961) rimane uno dei testi letterari più importanti della memorialistica della Grande Guerra italiana. Dal taccuino di appunti di trincea, Stuparich elabora e pubblica il diario di guerra all’inizio degli anni ’30. Sulla pagina l’immediatezza dell’esperienza bellica è mantenuta intatta ma viene, inevitabilmente, filtrata dal reduce anche alla luce degli avvenimenti successivi, l’egemonia nazionalista, l’avvento del fascismo, l’instaurazione del regime, che per lo Stuparich interventista, volontario triestino, di idealità democratico-mazziniane, non possono che confermare il sentimento interiore di delusione, di amarezza, di emarginazione pubblica che gli sarà costante sotto la dittatura fascista. La camicia rossa da garibaldino tenuta nascosta sotto la giubba grigioverde del regio esercito è, di quei primi mesi di guerra, giugno e luglio del 1915, l’immagine diaristica divenuta il simbolo più evidente di una drammatica, avvilente, smentita degli ideali neorisorgimentali mazziniani che nel fango e nel sangue delle trincee del Carso non si distinguono più dai «sacri egoismi» nazionali. Negli anni ’30 Stuparich è già il narratore dei Colloqui con mio fratello, dello splendido Un anno di scuola, dei racconti (il suo vertice narrativo) che in buona parte pubblica su «Solaria», è il curatore dell’opera omnia, edita e al tempo inedita, dell’amico Scipio Slataper.
Di recente è stato pubblicato un importante testo inedito che consente di far luce sugli anni della formazione giovanile di Stuparich, anni in cui lo studente universitario triestino divide i suoi studi tra Praga e Firenze: Giani Stuparich, Diario 1913-1915, a cura di Anna Storti, Trieste, EUT (Edizione dell’Università di Trieste), 2022.
Se ancora brevemente si insiste su una nota pagina di Diario del ’15 è per segnare un punto inizio a partire proprio da un elemento di confronto fra i due diari: appena giunti al fronte nel giugno del 1915 i fratelli Stuparich (Giani e Carlo) devono amaramente abbandonare a terra il carico dei libri che avevano stipato nello zaino: appesantiscono, ingombrano, non servono.
Sono quei libri, quelle letture e, con essi, gli studi, gli slanci ideali, la sofferta ricerca di valori morali, le inquietudini e le incertezze giovanili che, invece, si accampano come soggetti protagonisti nel Diario 1913-1915. La brutale cesura della guerra, al di là di pur nobili idealità interventiste – in Stuparich di marca irredentista liberal-democratica – per molti della generazione dei “giovani colti” di allora costituisce una frattura dolorosa e difficile da ricomporre, tanto nel processo esistenziale della formazione umana quanto nel percorso di ricerca di una identità intellettuale e culturale; procura, anche, in molti, una condizione di immedicabile “reducismo” che segna nel profondo la vita di Stuparich e di tanti altri che dalla guerra ritornano. Ritorneranno, appunto, è il titolo del romanzo più noto di Giani Stuparich (1941).
Ma nelle pagine del Diario 1913-1915 la guerra che scoppia è guardata da lontananze di vita e di idealità intellettuali che la relegano molto in secondo piano. Pochi gli appunti che, nei mesi dall’agosto del 1914 al maggio del 1915, la riguardano. E però significativi di una volontà di distanziamento da parte del ventitreenne Stuparich, quasi a voler scongiurare quell’ondata improvvisa della storia che potrebbe sconvolgergli la vita. Un atteggiamento che può sorprendere il lettore che dello Stuparich giovane sa l’interesse culturale e politico per la “questione nazionale” austriaca, le sue letture austromarxiste (Bauer, Renner) e l’avvicinamento a un’idea di socialismo di derivazione mazziniana, gli articoli vociani e lo studio sulla Nazione ceca, i progetti di «irredentismo colturale» per la valorizzazione geopolitica dell’identità internazionale di Trieste ideati assieme a Slataper. Immergere l’io nella Storia per il giovane Stuparich è un salto difficile e inquietante; la tentazione è quella di rifugiarsi nelle «pagine crociane», sebbene il «ritorno a Croce» sia anch’esso problematico nel tempo che spacca il Paese tra interventisti e neutralisti: «(e oggi Croce è dell’«Italia nostra», è germanofilo, non vuole la guerra, come la voglio, la devo volere io!)» (1 febbraio 1915). Ed è ben significativa la correzione imperativa, iper-volontarista, così come la sottolineatura del pronome personale. E ancora, a pochissimi giorni dall’intervento militare (19 maggio 1915):
L’Italia nel frattempo è corsa verso il culmine della crisi […]. S’io avessi ancora in me lo stimolo storico, se il mio cervello fosse ancora come una volta per gran parte raziocinante, avrei materia molta e complicata e meravigliosa da esercitarlo e soddisfarlo: ma mai come ora senti<i> l’impotenza delle mie forze dirette verso la storia verso la filosofia! Mai come ora provai un senso di vuoto così fondo guardando nel tempo che si regola, nella successione di cause ed effetti, nella tela logica della storia intessuta di politica filosofia e letteratura. Mi disinteresso di quel che sta vivendo intorno a me, di questo momento più grande d’Italia? No! Leggo ascolto e sento, ma constato, accetto e non ricostruisco su scale di ragione! Le reazioni logiche mi sembrano fili di ragno sul nulla! Devo dunque liberarmene del tutto! Perché d’altra parte sento che l’unica mia salvezza sta nel gettarmi nella poesia».
L’irredentista, il volontario, il “traditore” austro-triestino che, se catturato in guerra, rischia l’impiccagione, a pochi giorni dal salto oltreconfine riconosce e ammette la sua estraneità anche solo a quell’ «ora di passione» che per Serra valeva ad immergere finalmente la solitudine del letterato nella corrente (sia pur militare) della vita di tutti, e affida la funzione salvifica dell’io a un destino solo privato e individuale di poesia. Riconosce, così, la sua diversità, vissuta anche come inferiorità di maturazione etica e intellettuale, dall’amico Slataper che, una volta accettato lo stato di guerra, avvia la sua campagna interventista sulla stampa. L’esperienza tremenda della guerra anche in Stuparich, come in tanti altri, spezzerà il solipsismo giovanile di una formazione in gran parte libresca, incrinerà l’idea della separatezza dell’uomo di lettere e maturerà una concezione dell’arte più solida, equilibrata e sicura.
Storia di una formazione
La curatrice Anna Storti, nella sua ottima Introduzione (pp. 7-45), pone in rilievo molti aspetti interessanti del Diario 1913-15. Ancor più interessanti se si leggono per quei tratti di esemplarità che il dato biografico individuale illumina sui percorsi della formazione di un giovane intellettuale italiano nella Trieste asburgica del primo quindicennio del ’900, assieme e accanto agli amici Slataper, Devescovi, Spaini. Che sono poi – specie i secondi, Slataper appare figura più defilata nelle pagine del diario, quasi un “fratello maggiore” già maturo e affermato – anche i principali interlocutori delle riflessioni filosofiche ed estetiche di Stuparich. E, naturalmente, il diario presuppone il dialogo con l’amatissimo fratello Carlo, col quale Giani si confronta su ogni tema di riflessione, tanto che, avverte giustamente la curatrice, la lettura di Diario 1913-15 andrebbe integrata in parallelo con quella di G. e C. Stuparich, Lettere di due fratelli, 1913-1916, a cura di G. Perosa, Trieste, EUT, 2019.
Il Diario è, dunque, una pagina ancora una volta preziosa a intendere cosa significasse negli anni dell’anteguerra guardare all’Italia da oltreconfine, da Trieste ma anche da Praga, da Vienna, da Berlino, mete predilette del grand tour primonovecentesco di formazione intellettuale del gruppo dei giovani “slataperiani”. Pagine utili a riflettere ancora una volta sulla funzione positiva (e i limiti) di avanguardia culturale di impronta vociana e liberale che per pochi anni quei giovani ebbero nella Trieste in cui, con i venti di guerra sempre più tesi, prendeva piede l’ideologia patriottico-irredentista di marca nazionalista e antislava. Un incontro tardivo, quello di Stuparich, con la Firenze della «Voce», di cui dopo il 1912 egli già ben vede, nel suo idealismo sempre meno “militante”, i segni del declino: fino alle aspre critiche formulate alla direzione De Robertis.
Significativo è il panorama della formazione letteraria che Stuparich delinea nel suo diario: Lessing, Goethe, Novalis, Kleist, Herder, Hebbel, Nietzsche – assente invece Ibsen, tra quelle comuni a Slataper – le cui opere sono spesso lette direttamente in edizione tedesca, talune allora indisponibili nella traduzione italiana. Goethe e Kleist, su tutti: e in Kleist, si individua il “vero” romanticismo di colui, pensa Stuparich, che aveva evitato il «cenacolo dei romantici» e la loro “scuola” ed eluso il soggettivismo spiritualista estremo e turgido, contro il quale il giovane triestino sente di dover combattere una battaglia interiore che lo investe personalmente: «Dobbiamo abituarci a capovolgere la visione del mondo […]. Sfatare l’io personale qualunque forma investa […]. Sgonfiare ogni vescica dobbiamo, di sospiri e di lagrime e di glorie perdute». Per combattere «l’individualismo empirico» – prima di tutto entro sé – e ricondurre l’io frammentato e distonico a quell’organicità della persona il cui agire si irradia nella Storia risolta in Filosofia, il giovane Stuparich si rivolge ai maestri del neoidealismo italiano, Croce e Gentile. Oscillando frequentemente fra i due, da un lato in Croce riconosce «la filosofia dello spirito» che «è la costruzione la più salda e adeguata al presente momento storico», seppure con ampie riserve sulla “logica dei distinti” e di conseguenza sulla concezione dell’arte, dall’altro manifesta la sua adesione all’idealismo “attuale” di Gentile, in specie inteso come esaltazione dell’agire creativo e di un’idea della conoscenza che si risolve immediatamente in vita e azione.
Il rapporto con il futurismo
È interessante anche notare, nelle incertezze giovanili di questo percorso di formazione culturale – che è anche, come ben sottilinea Storti, un lavoro di esercitazione del “triestino” a pensare e scrivere nella lingua italiana – l’ adesione di Stuparich a taluni aspetti del futurismo che egli tende a smarcare dagli eccessi aggressivi e retorici di Marinetti e a valutare invece positivamente negli esordi di «Lacerba» (verso Papini il giudizio però non è sempre elogiativo), intesa come una delle possibili evoluzioni culturali della «Voce» – salvo poi ricredersi – e soprattutto nell’adesione convinta alla poetica del riso e dello sberleffo del Palazzeschi de L’incendiario («La Poesia di Palazzeschi è per gli iniziati, è per quelli che portano con sé la grave coscienza della modernità»), assieme all’elogio di Govoni, «poesia d’accostamento intuitivo sprizzante scintille dal cozzo delle immagini». Pare di capire anche che, nell’ammirazione per il Palazzeschi moderno “saltimbanco dell’anima”, Stuparich dia ulteriore espressione a quella parte di sé che non poche volte nel Diario si scaglia contro il filisteismo borghese, le sue regole e convenzioni sociali (Trieste è allora citta “borghesissima”), i suoi vincoli privati e pubblici alla libera espressione dell’artista, alla funzione critica dell’intellettuale.
Filosofo o poeta? Ancora indecisa la strada da prendere per il giovane Stuparich, che sente sempre in sé criticamente costante la sua debolezza di volontà decisionale, la sua natura solitaria, fors’anche il peso del confronto con l’amico Slataper. E comunque, in lui si fa strada (di qui talune perplessità sulla filosofia crociana) la convinzione che la poesia non possa separarsi dalla riflessione filosofica e dalla ricerca etica, ed è interessante scoprire fra le letture di Stuparich anche testi di Georg Simmel.
Ma la guerra sconvolge ormai l’Europa. Si deve andare. Fra le ultime immagini di Diario 1913-15, questa, di angosciata solitudine, che dalla figura della madre trapassa nell’io che scrive: «24 maggio 1915, mamma mia, gli italiani avanzano e tu che fai nel tuo quartiere solitario?»
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