Luca Serianni sulla riforma della prima prova dell’Esame di Stato
In memoria del prof. Luca Serianni, ripubblichiamo questa intervista del 2018
A cura di Katia Trombetta
LN ha posto alcune domande a Luca Serianni sulle premesse pedagogiche e culturali e sugli obiettivi didattici del Documento di lavoro, redatto dalla commissione da lui presieduta, per la riforma della prima prova dell’esame di stato nella scuola secondaria di secondo grado. Al documento, che forniva le linee-guida, hanno fatto seguito il Quadro di riferimento per la redazione e lo svolgimento della prima prova d’esame (pubblicato il 26 novembre) e, da ultimo, dei primi modelli di tracce pubblicati sul sito del Miur. Questi due ultimi documenti non sono stati redatti dalla commissione presieduta da Serianni, al quale abbiamo comunque chiesto un parere anche sugli aspetti connessi alla valutazione.
Professor Serianni, intanto grazie da parte di tutta la redazione di “Laletteraturaenoi” per aver accettato la nostra intervista. Iniziamo da uno sguardo generale al documento elaborato dalla commissione da Lei presieduta.
Nelle premesse fate riferimento da un lato all’esigenza di tenere nella debita considerazione i nuovi contesti comunicativi in cui i testi sono inseriti e, dall’altro, alla necessità che il candidato sappia inserire il testo nel proprio orizzonte formativo ed esistenziale. Può esplicitare nel dettaglio gli obiettivi didattico-pedagogici del vostro lavoro?
«In primo luogo abbiamo cercato di tenere conto di tutte le tipiche sollecitazioni alle quali, specie sul piano comunicativo, gli adolescenti sono sottoposti oggi, nel definire adeguatamente le caratteristiche dei testi che si chiede di elaborare.
Dal punto di vista strettamente didattico, le Linee guida sono rivolte all’esame finale, ma rappresentano anche un suggerimento all’insegnante per valorizzare e orientare il lavoro in classe durante l’anno.
Nello specifico il documento invita decisamente a valorizzare la competenza di comprensione di un testo dato, una competenza che tradizionalmente si verifica sui testi letterari ma che crediamo sia necessario verificare anche su testi non letterari, dal momento che si tratta di una competenza estremamente rilevante.
Inoltre, volevamo invitare a riflettere sul fatto che il testo scritto, e in alcuni casi anche quello orale prodotto a scuola, deve rispondere a certi requisiti di argomentazione. La parola non va eccessivamente enfatizzata, la si dovrebbe forse intendere in un modo più corrente in riferimento a un discorso che, a partire da certe premesse, le sviluppi secondo determinate direttrici e sulla base di principi di coerenza».
La rilevanza che avete accordato alla competenza di comprensione del testo è molto evidente, dal momento che tutte le tipologie di prove proposte — nella C è data come possibilità — prevedono una fase iniziale di un testo input con il quale il candidato è chiamato a confrontarsi. Da dove nasce l’esigenza di rimarcare l’importanza di questa abilità?
«L’importanza del momento della comprensione del testo per noi è tale che abbiamo fatto emergere questa esigenza anche nell’allestimento del Documento relativo alle nuove prove di italiano della scuola secondaria di primo grado. Anche lì, fatta salva la libertà dei docenti dei singoli istituti di selezionare le prove che ritengono più valide, abbiamo introdotto con convinzione la possibilità di somministrare delle prove che prevedano una verifica della comprensione. In generale ci è sembrato un aspetto fondamentale perché, come accennato sopra, quando parliamo di comprensione non dovremmo riferirci esclusivamente ai classici esempi di prova ben noti, ma anche alla comprensione dei libri di testo in adozione, in italiano come nelle altre discipline. Sostanzialmente il dato di fondo da cui siamo partiti è la constatazione che non sempre la comprensione dei libri adottati a scuola o di altri testi legati all’orizzonte degli alunni e degli studenti possa essere data per scontata, anzi».
Avete tenuto conto di un criterio di continuità tra i due ordini di scuole? Si può parlare esplicitamente di un lavoro orientato nel senso della costruzione di un curricolo verticale, per quanto vi riguarda?
«Assolutamente sì. È sostanzialmente il criterio che ci ha ispirato nel considerare il rapporto tra la scuola secondaria di primo grado e quella di secondo grado. La scuola primaria resta un po’ fuori da questo discorso perché, a nostro avviso, pone problematiche didattiche ed educative che più difficilmente possono essere inquadrate in un’ottica di verticalizzazione dei contenuti; certo, alcune scelte di metodo possono essere condivise».
Veniamo ora agli aspetti più vistosi del vostro documento, sui quali si è particolarmente soffermata l’attenzione del dibattito pubblico, forse anche con eccessiva enfasi. La prima questione è quella relativa all’eliminazione del saggio breve, in parte motivata anche in nota all’interno del documento. Perché l’avete ritenuta una prova non valida?
«Nel saggio breve era prevista la presenza di documenti e testi di appoggio che, a nostro avviso, spesso eccedevano la quota che ragionevolmente può essere metabolizzata dagli studenti, i quali venivano indotti quasi sempre a citare tutte le fonti che erano state messe a loro disposizione. Ciò determinava un percorso di ricognizione passiva sui testi, che conduceva di fatto alla redazione di un centone, senza che potesse emergere una vera elaborazione critica da parte dei candidati, cosa che rappresenta invece un aspetto fondamentale nella valutazione delle competenze in uscita dal secondo ciclo. Così abbiamo deciso di mantenere lo spirito dell’argomentazione nella prova della tipologia B, nella quale abbiamo comunque previsto uno o due test di partenza, lasciando però maggiore spazio allo studente per considerazioni autonome, dal momento che — ripeto — è fondamentale al termine di questo ciclo di istruzione verificare che il candidato abbia acquisito una sufficiente maturità critica di fronte a un tema che coinvolga in qualche modo i suoi interessi e le conoscenze raccolte durante gli anni di studio».
L’altra circostanza di cui si è molto dibattuto è stata l’eliminazione del tema di storia. Si tratta di un’opzione che, nelle vostre intenzioni, può essere ricompresa nelle altre tipologie di prova o vi hanno guidato esigenze di altro tipo?
«Precisiamo: il tema di storia è previsto tra le tre aree che la legge indica. La nostra scelta non ha assolutamente inteso penalizzare la storia, disciplina della cui importanza formativa siamo perfettamente convinti. Semmai abbiamo ragionato in termini opposti: crediamo che la rilevanza della storia sia tale da doversi considerare presupposta in tutti i tipi di prove, non solo in quelle da noi indicate ma anche in quelle previste precedentemente. A tale proposito faccio un esempio proprio relativo alle tracce uscite lo scorso anno. Pensiamo alla prova su Bassani in relazione sulla Shoah: essa presupponeva evidentemente una conoscenza anche non banale della storia del Novecento e la capacità di collocare questa tragedia in un orizzonte storico adeguato. Inoltre, con questa disciplina fa i conti anche la prova C, che eredita un po’ la prova sul tema di attualità, nella misura in cui la storia preme con evidenza sull’orizzonte attuale.
Quindi assolutamente nessuna penalizzazione. Il problema in realtà è un altro: il tema di storia veniva scelto da uno scarso numero di studenti — non più dell’1% — e questo a nostro avviso era il segno evidente che qualcosa non va nella didattica della materia. Ciò probabilmente è legato anche all’esiguità delle ore a disposizione dei docenti, esiguità alla quale si potrebbe ovviare iniziando ad anticipare già nelle prime classi alcuni temi del Novecento che, come per la letteratura, spesso non si riesce ad affrontare con la dovuta completezza».
Nelle sue considerazioni, e anche nel documento, si colgono riferimenti abbastanza chiari alla necessità di un’interdisciplinarità sostanziale. È corretto?
«Sì. L’interdisciplinarità è un atteggiamento utile che va chiaramente educato prima e che non può essere improvvisato dallo studente al momento dell’esame conclusivo. Il vecchio saggio argomentativo forniva delle citazioni in sé molto belle anche dall’ambito del diritto, che è un ambito molto importante ma estraneo alla quasi totalità degli studenti superiori. L’interdisciplinarità va affrontata prima, con continuità. Volendo restare proprio all’ambito del diritto, se si vogliono introdurre questi temi lo si può fare a partire anche dalla storia antica, che è quella insegnata nel biennio delle superiori. Quale migliore occasione della didattica della storia romana per fare riferimenti al diritto romano e alla sua ripresa in epoca medievale, per sottolineare elementi di continuità rispetto ad alcuni istituti giuridici? Pensiamo ad esempio al Placito di Capua, formula testimoniale relativa all’usucapione, che rappresenta un elemento di continuità con il nostro presente. Può essere solo una curiosità o qualcosa in più, dipende da come questi spunti possono diventare un’occasione per allargare il discorso, facendoci entrare in temi di grande peso culturale anche se a rigore non di storia stricto sensu».
Nel testo del documento avete fornito un’indicazione molto esplicita sul periodo cronologico dal quale attingere i testi input per gli studenti, facendo riferimento al periodo che va dall’Unità a oggi. Che tipo di valutazioni ci sono dietro questa scelta? Si tratta della volontà esplicita di dare rilievo agli anni della costruzione dell’Italia come nazione?
«Senza dubbio questa è una componente che abbiamo tenuto presente, vale a dire l’invito a compiere una riflessione che abbracci l’ampio secolo e mezzo di storia post-unitaria. Naturalmente alla luce di questa indicazione mi si potrebbe chiedere se possono considerarsi preventivabili tracce su autori come Manzoni o Leopardi. La risposta è no, ma va da sé che autori di questa rilevanza e che sono oggetto di uno studio molto accurato possono rifluire in molti temi fine-ottocenteschi, basti pensare solo alla rivoluzione nella prosa operata da Manzoni. Da parte nostra tenevamo a fare questa precisazione cronologica perché nella prassi le tracce di analisi del testo spesso si concentravano soprattutto sul Novecento. In questo modo, con la possibilità che abbiamo previsto di formulare due tracce, forniamo qualche strumento in più ai candidati: delle due, infatti, una potrà essere sul Novecento o sugli anni Duemila e l’altra sul secondo Ottocento, o anche una sulla prosa e l’altra sulla poesia. Abbiamo dato qualche arma in più allo studente, che quindi si troverà a scegliere tra un ventaglio di opzioni più corposo. Allo stesso tempo abbiamo inteso valorizzare il lavoro svolto in classe dai docenti. Qualunque insegnante che insegni nell’ultimo anno delle superiori dà molta importanza alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento dal punto di vista storico-letterario, pensiamo solo a una figura come Verga, che giustamente viene molto letto e commentato. Ecco, limitandoci soltanto al Novecento avremmo rischiato che tutto questo meritorio lavoro svolto dai docenti si disperdesse».
Il documento contiene anche alcune indicazioni per la valutazione degli elaborati. Il fatto di aver previsto una serie di indicatori specifici per ciascuna tipologia non rischia di appesantire il processo di valutazione?
«A dire la verità a noi sembra di essere stati sufficientemente generali, quelle che abbiamo fornito non ci sembrano indicazioni troppo restrittive, anche perché le vere e proprie griglie di valutazione rappresentano un momento successivo che non ci riguarderà più. Le indicazioni che abbiamo fornito andranno declinate con un inevitabile margine di autonomia da parte della commissione d’esame: non dimentichiamo, infatti, che la commissione decide sulla base dell’unico vincolo delle tracce che devono essere quelle disposte dall’autorità centrale, per il resto ha una notevole autonomia ed elasticità. Eravamo tenuti a indicare qualcosa e lo abbiamo fatto credendo proprio di mantenerci assolutamente generali».
Nel testo invitate a formulare le tracce con estrema chiarezza e a indicare esplicitamente i vincoli di cui il candidato deve tenere conto. La pratica didattica dimostra che le tracce vincolate e orientate a uno scopo comunicativo funzionano molto bene. È un criterio che vi ha guidato nelle vostre indicazioni?
«Sì, è esattamente così. I vincoli non rappresentano un condizionamento della prova e non devono essere intesi come dei pesi per lo studente, ma come delle guide. Proprio come una strada con una segnaletica che serve per orientarsi meglio».
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