Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Inchiesta sulle scuole di scrittura/6- Luca Ricci

A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato

Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una “straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme”: da una parte il genere romanzo, “un gatto sornione dalle sette vite”, dall’altra il diffondersi di un “vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi”, lo storytelling

A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici. Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo le precedenti inchieste (editor, traduttori, copertine, librerie indipendenti, scrittura per giovani-adulti e narratori d’oggi) continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.

1. Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna? Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?

Il mio primo contatto con una scuola di scrittura è stato nel dicembre del 2006, quando Marco Peano che allora era il mio editor in Einaudi m’invitò a tenere una lezione sul racconto alla torinese Scuola Holden. Ricordo perfettamente che scelsi un approccio d’analisi molto pragmatico che si basava su rapporti matematici tra righe complessive del racconto in oggetto e ricorrenze dei vari elementi testuali che di volta in volta esaminavo, descrizione dei personaggi, battute di dialogo, scene… Spiegavo con una serie di grafici a torta che supportavano il mio discorso. Il mio approccio non è molto cambiato, nel senso che mi definisco un insegnante empirico, mi baso sui testi, quelli che faccio leggere e scrivere. Tutto inizia e finisce con il testo. Qualsiasi eventuale teorizzazione o sistematizzazione avviene come conseguenza e mai come causa. 

2. In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la “domanda” e le possibilità oggettive con cui l’”offerta” risponde?

Le aspettative cambiano di caso in caso, e diciamo che coprono uno spettro molto vasto: si va dalla curiosità del lettore forte che vuole approfondire alla determinazione dell’aspirante che ha già scritto molto e cerca uno sbocco editoriale. Non potendo controllare questo elemento variabile – cioè la composizione di una classe – per me sono tutti potenziali scrittori. È l’approccio più onesto che posso avere, e credo che una funzione di questo genere di corsi sia anche togliere la voglia, far comprendere le velleità, far abbandonare la scrittura. D’altronde si vive nel paradosso fin dal principio: insegnare ciò che non si può apprendere.

3. Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?

Tolgo subito queste ansie, libero il campo dalle implicazioni “carrieristiche”, che chiaramente ci sono ma restano implicite. I miei corsi sono di pura letteratura, raramente mi concedo qualche sortita fuori dai testi per parlare del contesto, la filiera editoriale, il mercato. Voglio formare coscienze letterarie, non dare consigli su come pubblicare o prendersi un agente. I corsisti mediamente sono ancora inediti e guardano all’editoria con relativa ingenuità. Pensano che sia un mondo meritocratico, che se saranno bravi verranno notati. Il discorso è molto più complesso di così, ma come detto indugiare troppo su questi elementi rappresenterebbe una forma di distrazione deleteria nei confronti della lettura e della scrittura. Al limite, più che il motivo per cui vogliono pubblicare, m’interessa il motivo per cui vogliono scrivere.  

4. Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?

Il peso maggiore della lettura all’interno di un mio corso arriva alla fine, quando ciascun corsista è chiamato a leggere e condividere con la classe il suo racconto. La lettura a voce alta di un proprio testo è un esercizio per niente scontato anche per i professionisti della scrittura, e ha il merito di oggettivare il testo, renderlo totalmente indipendente da chi l’ha scritto. È abbastanza spietato osservare la reazione della classe, che in genere è abbastanza omogenea: un testo è immediatamente percepito dalla maggior parte come funzionante o non funzionante. Poi bisogna andare a vedere le ragioni del funzionamento o non funzionamento, e quella è la sfida più bella per me, il momento in cui posso mettere a frutto i miei svariati anni di pratica, cercando di migliorare fattualmente il testo. Poi certo si danno sempre delle liste di libri da leggere, cercando di orientare i corsisti a seconda del corso che stanno seguendo. Io ho bellissime liste di scrittori nord americani minimalisti.

5. Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?

La critica in chiave ermeneutica non mi serve a molto. Invece faccio ricorso a testi di narratologia. La narratologia di per sé è una nobile disciplina – ricordiamo che il termine fu coniato da Tzvetan Todorov nel 1969, alla fine della sbornia purista della teoria letteraria, dopo lo strutturalismo e il formalismo – che troppo spesso viene degradata a ricettario per confezionare asettiche scritture da classifica. La narratologia, che non combacia per niente con lo storytelling, è usata per approfondire i singoli elementi testuali, per capire cioè come funziona un racconto o un romanzo. Naturalmente ci sono dei punti di intersezione e direi sovrapposizione tra narratologia e teoria letteraria, impossibile non affrontare il lavoro di giganti come Propp o Genette o Bachtin dovendo parlare di strutture narrative.

6. La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a “desacralizzare” una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette.  Quanto la “graforrea” (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla “cultura del narcisismo”? 

Oggi scrivono tutti ma ci sono pochissimi scrittori! Un corso di scrittura serve anche a questo, a far comprendere la differenza tra grafomani e scrittori. È un fraintendimento che di certo può giovare alla diffusione delle scuole di scrittura, ma ci tengo a evidenziare un fatto: nessuna scuola di scrittura ha un suo metodo particolare, se non forse la Holden che fin dagli esordi ha cavalcato il mantra del crossover e del claim “le storie sono intorno a noi” (ma più per una questione di brand che sostanziale). Ogni corso fa storia a sé, e conta molto l’approccio di chi lo tiene. Personalmente credo che le storie siano dentro di noi, e che una narrazione sia sempre più ampia del plot su cui si basa. C’è un’azione narrativa e allo stesso tempo c’è lo sfondamento di quell’azione, il superamento di quell’azione, la trascendenza di quell’azione. La concretezza del testo ci porta alla Gestalt: mai come in letteratura il tutto è più della somma delle singole parti.

7. Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’“italiano digitato”.  In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura “non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica” (Luigi Matt)?

Lavoro affinché l’affermazione di Matt venga compresa fino in fondo. Uso molto spesso esercizi di smontaggio e rimontaggio del testo, e anche riduzione o espansione, o anche riscrittura parziale (di incipit ed explicit, in genere), proprio per mostrare alla classe quanto la letteratura sia un processo artificiale di sintesi, in cui qualsiasi cosa è scelta e può essere al limite cambiata e/o modificata. La lingua di ciascun corsista è una risultante di cose molto personali (contesto sociale, scolarizzazione, letture) sulle quali in un corso di scrittura ha senso intervenire soltanto post, cioè leggendo e facendo osservazioni. Un corso frontale di dodici ore non può modificare un processo di sedimentazioni linguistiche in atto da anni, ma può innalzare la consapevolezza sul come si sta scrivendo, quali registri si predilige, quali aspetti sono trascurati.

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Roberto Contu

Editore

G.B. Palumbo Editore