Inchiesta sulle scuole di scrittura /5 – Federica Manzon (Scuola Holden)
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo inchieste sugli editor, sui traduttori, sulle copertine, sulla scrittura per giovani-adulti e sui narratori d’oggi, continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura: l’appuntamento ha cadenza quindicinale.
Nella sua Introduzione al volume Convergenze del 2010, Remo Ceserani rilevava il persistere di una “straordinaria vitalità della narrazione in tutte le sue forme”: da una parte il genere romanzo, “un gatto sornione dalle sette vite”, dall’altra il diffondersi di un “vero e proprio bisogno di narrazione (…) in pratiche conoscitive che programmaticamente si distinguono dai romanzi”, lo storytelling.
A oltre dieci anni da quel saggio si assiste alla continua espansione delle scuole di scrittura, alcune delle quali includono la pratica dello storytelling nei loro intenti programmatici. Il blog “Laletteraturaenoi”, dopo le precedenti inchieste (editor, traduttori, copertine, librerie indipendenti, scrittura per giovani-adulti e narratori d’oggi) continua il suo sondaggio sulle forme del lavoro culturale odierno con un questionario rivolto a chi insegna nelle scuole di scrittura.
1. Come è approdato/a alla docenza in una scuola di scrittura? Da quanto tempo insegna? Ha frequentato a sua volta una scuola di scrittura?
Ho iniziato a collaborare con la scuola Holden nel 2009, prima come docente di corsi di scrittura nelle librerie sul territorio, e poi alla sede di Torino, coordinando il college di Scrivere all’interno “Original”, il master biennale. Al tempo lavoravo in editoria, quindi si trattava di collaborazioni limitate. Nel tempo poi si è creata l’occasione di entrare a far parte del gruppo direttivo della scuola, così nel 2018 ho lasciato l’editoria per occuparmi della direzione didattica di Original. È un lavoro diverso dall’insegnamento perché ora mi occupo di immaginare gli archi didattici del master che prevede diversi indirizzi: Scrittura, Drammaturgia, Cinema, Story Design e un percorso rivolto a studenti internazionali. Gli insegnamenti non sono mai fissi e quindi di anno in anno si tratta di costruire una nuova mappa con contenuti e docenti che possano portare a scuola gli aspetti più interessanti dei diversi mondi narrativi. Accanto a questo, cerco però di continuare a insegnare nelle classi, perché il confronto con gli studenti resta per me una delle cose più motivanti di questo lavoro e credo sia indispensabile per poi costruire una didattica che possa offrire loro il meglio.
Da ultimo, no, non ho mai frequentato una scuola di scrittura, ma l’insegnabilità (o la non insegnabilità) della scrittura è stato l’oggetto della mia tesi di laurea.
2. In base alla sua esperienza quali sono le aspettative di chi si iscrive a un corso di scrittura e quali gli obiettivi a cui un docente può ragionevolmente mirare? Insomma quanta possibilità di incontro esiste tra la molla che muove la “domanda” e le possibilità oggettive con cui l’”offerta” risponde?
Credo dipenda dall’età e dal tipo di corso a cui ci si iscrive. Se si arriva direttamente da un diploma o da una laurea, credo che il desiderio di fondo sia quello di trasformare la scrittura un mestiere, con tutto quello che può significare: diventare romanziere, sceneggiatore, copywriter. In questo caso un docente può fare molto: può dare degli strumenti, ampliare gli orizzonti di riferimento, lavorare sul feedback continuo. Ma è un lavoro che si fa in due, senza la motivazione, la dedizione, il talento di chi studia, l’insegnamento rimane lettera morta. Insegnare a destreggiarsi con la scrittura non consiste nel passare una ricetta per la buona riuscita, ma ha molto più a che fare con l’affinare la sensibilità, l’esercitare la pratica di un gesto. Insomma, più un’arte marziale che un manuale d’istruzioni.
3. Come i suoi studenti si approcciano al desiderio di esordire e, più in generale, come guardano al mondo editoriale?
Nell’ultimo ventennio il mondo editoriale ha smesso di essere il tempio di un sapere per iniziati e ha svelato i suoi segreti. Gli editor sono diventati personaggi pubblici, le pratiche dell’officina editoriale sono state ampiamente raccontate, e oggi avere un primo contatto con un editor è relativamente facile. Dall’altro lato il mercato editoriale insegna che l’autore non è più solo uno strambo personaggio dotato di un talento difficilmente misurabile e di un estro particolare, ma spesso è un abile comunicatore, è un soggetto capace di stare in una rete di contatti e contenuti che ne amplifica l’opera e, a volte, mette l’opera in secondo piano.
Ciò ha portato, a mio avviso, negli scrittori esordienti a una grande consapevolezza degli strumenti editoriali con il rischio, a volte, di preoccuparsi più di come costruire un proprio profilo o di come promuovere il libro che di scriverlo.
4. Quale peso ha, nell’attività didattica, il momento della lettura? Quali opere si leggono?
Personalmente credo che leggere moltissimo e saper leggere da scrittori sia il cuore e quasi la totalità del vero insegnamento della scrittura. Solo imparando a leggere affiniamo l’orecchio, alleniamo l’immaginario, incontriamo mondi, riflettiamo sulla forma e sullo stile inseguendo la possibilità di trovare una nostra voce. Credo che non abbia senso una distinzione tra classici e contemporanei, italiani o stranieri, uno scrittore deve leggere di tutto, leggere avidamente, leggere a tutte le ore, leggere per essere felice, per non sentirsi solo, per rubare. Però penso anche che sia fondamentale, per un aspirante scrittore, confrontarsi prima di tutto con i modelli della tradizione letteraria in cui scrive: quindi gli autori italiani prima e europei. Ho l’impressione che a lungo siamo stati colonizzati da immaginari anglosassoni che non sono i nostri, e forse hanno fatto il loro tempo.
5. Le parole-chiave della critica e i metodi della teoria letteraria vengono percepiti da chi insegna come strumenti di mediazione e di accesso al testo o come astrazioni non pertinenti a questa forma di insegnamento-apprendimento?
Posso dire che nel biennio di “Original” alla scuola Holden abbiamo inserito dei percorsi di critica e teoria letteraria, proprio perché possano essere una sponda, uno specchio, uno strumento in più per riflettere sulla scrittura. Penso che l’approccio al testo di uno scrittore o di un critico siano radicalmente diversi, ma non credo però che l’uno possa prescindere dall’altro, al contrario è vitale per la salute del mondo culturale che il dialogo tra i due sia costante.
6. La nuova, diffusa confidenza con la scrittura acquisita sui social ha contribuito a “desacralizzare” una pratica tradizionalmente riservata a fasce più ristrette. Quanto la “graforrea” (Antonelli) dei media alimenta l’espansione recente delle scuole di scrittura? Fra i bisogni intercettati, quanto è dovuto alla “cultura del narcisismo”?
Credo sia stato soprattutto il mercato editoriale a favorire l’idea della scrittura come una pratica che non richiede studio, fatica, come qualcosa di diverso da un sapere. Scrivere appare facile quanto fotografare, e in effetti sono due gesti che pratichiamo con disinvoltura ogni giorno, postando frammenti o foto nei social. Eppure tra un fotografo professionista e noi che condividiamo le nostre foto su Instagram passa ancora una differenza incolmabile. Lo stesso dovrebbe accadere con la scrittura, non fosse che nelle librerie si confondono l’uno accanto all’altro i romanzi degli scrittori e i romanzi di professionisti di qualcos’altro che hanno deciso di scrivere (aiutati o no) un romanzo. Questo genera in chi si approccia alla scrittura il fraintendimento che sia un gesto semplice, appreso alle elementari, un normale proseguimento su carta della chiacchiera davanti a una birra, da cui spesso non differisce per stile e profondità. Non saprei dire se questa “cultura del narcisismo” nasca dai social, sicuramente ne sono una componente, ma per quando riguarda la “desacralizzazione” della scrittura, credo che l’industria editoriale nel suo complesso abbia una certa responsabilità.
7. Chi scrive oggi spesso si attiene al livello standard dell’“italiano digitato”. In una scuola di scrittura quanto si lavora sulla lingua e sullo stile? Nei corsi che tiene lavora sui testi dei suoi studenti e come? Come cambia la cognizione di chi frequenta i corsi rispetto al fatto che la scrittura “non può insomma avere nulla di ingenuo o spontaneo ma deve essere il frutto di una consapevole ricerca stilistica” (Luigi Matt)?
L’idea che la scrittura non sia un gesto romantico disceso dal cielo alla pagina in modo miracoloso, ma sia invece frutto di un lavoro costante di ricerca, affinamento e consapevolezza, credo sia la base su cui poggia l’idea stessa di una scuola di scrittura. Dove appunto non si insegna a diventare romanzieri, quello non è insegnabile, ma si allena un certo rapporto con la scrittura e la lettura. E questo inevitabilmente passa attraverso un lavoro sullo stile e sulla lingua. È un lavoro faticoso perché siamo poco abituati a prenderci cura delle parole: la lingua parlata dalla politica e dai media è sempre più povera, e molta produzione editoriale conforta l’idea che non ci sia uno scarto tra lingua parlata e scritta, che il tema della forma e dello stile sia un ozio da accademici. Come si lavora sullo stile e la lingua? Leggendo, leggendo, leggendo. Ragionando sulla letteratura.
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