Il lavoro educativo come “interruzione dell’immanenza”. Riscoprire l’insegnamento di Gert Biesta
Per Raffaello Cortina Editore è uscito Riscoprire l’insegnamento di Gert J. J. Biesta. Si tratta della prima traduzione italiana in assoluto di questo filosofo dell’educazione, in grado di gettare uno sguardo nient’affatto conformista sul discorso educativo contemporaneo. Ringraziamo l’autore, la casa editrice e i curatori Francesco Cappa e Paolo Landri, per averci concesso la pubblicazione di questo estratto dal primo capitolo “Qual è il compito educativo?”.
IL LAVORO EDUCATIVO:
INTERRUZIONE, SOSPENSIONE E SOSTENTAMENTO
Quanto detto finora ci ha portato sufficientemente (anche se non del tutto) vicini alla comprensione di cosa significhi esistere nel e con il mondo in modo adulto, cioè in quanto soggetti; vorrei ora chiarire quale tipo di lavoro educativo potrebbe contribuire a rendere possibile un simile tipo di esistenza.
Il punto più importante da sottolineare – soprattutto se ci si vuole opporre alle teorie educative attualmente in voga, che insistono sulla promozione dello sviluppo del bambino e sull’aiuto a incentivare negli studenti i loro talenti e a raggiungere il loro pieno potenziale – è che il principio fondamentale di un’educazione che miri a rendere possibile un’esistenza adulta nel e con il mondo è quello dell’interruzione. Quest’idea deriva in parte dalle riflessioni di Arendt sull’essere-soggetti, che mettono in luce quanto la nostra soggettività non sia interamente in nostro potere; ma segue più esplicitamente la filosofia di Lévinas e l’idea per cui l’evento della mia soggettività è sempre un’interruzione della mia immanenza, dell’essere per e con me stesso, e rappresenta un risveglio da questo stato di assopimento.
Benché le idee di Lévinas possano sembrare astratte, l’intuizione principale è relativamente semplice se consideriamo, per esempio, che noi tutti abbiamo un’inclinazione innata sia per il bene sia per il male e che sia la moralità sia la criminalità possono essere intese come risultati di processi di sviluppo. Il compito educativo non può mai limitarsi, pertanto, a promuovere la crescita del bambino, ma deve chiedersi quale tipo di sviluppo sia desiderabile – il gesto educativo fondamentale risiede nell’interrompere e nel mettere in discussione lo sviluppo. Il compito educativo non potrà mai consistere nel lasciare che gli studenti sviluppino i loro talenti e raggiungano il loro pieno potenziale perché, ancora una volta, l’obiettivo dovrebbe essere quello di mettere in questione i talenti e i potenziali, per capire quali saranno di aiuto e quali ostacoleranno il raggiungimento dell’adultità – il che richiede necessariamente un’interruzione, piuttosto che il semplice lasciare che tutto emerga, cresca, fluisca e fiorisca. La tesi per cui l’educazione consiste nel sostenere semplicemente lo sviluppo del bambino e nel lasciare che ogni studente accresca i propri talenti e raggiunga il suo pieno potenziale è quindi, dal punto di vista educativo, fallimentare. Non solo è fuorviante nei confronti di bambini e studenti, ma anche qualora sia usata come tesi per descrivere il compito degli educatori o persino per spiegare in cosa consista.
Se “interruzione” è, in questo senso, il concetto più importante qui in gioco – poiché mette in evidenza la struttura fondamentale dell’opera educativa – è necessario comprendere che le interruzioni possono essere realizzate in modi diversi: alcune sono educative (cioè volte a sviluppare l’adultità), altre no. Un modo diseducativo per mettere in atto un’interruzione prende la forma di quella che potremmo chiamare educazione morale diretta: l’interruzione è attuata in forma di giudizio diretto da parte dell’educatore nei confronti del bambino e delle sue iniziative, cioè sotto forma di critica – “Sbagliato!” – o di lode – “Giusto!”. Il problema non è il feedback in sé, che è importante e, in una certa misura, utile, ma il fatto che il giudizio venga dall’educatore e sia diretto al bambino: questo non dà al bambino né il tempo né l’opportunità di apparire come soggetto in relazione a tale giudizio. Il bambino diventa nient’altro che un oggetto del giudizio dell’educatore (o, per i lettori avvezzi ai giochi di parole: il bambino resta soggetto al giudizio dell’educatore).
Possiamo anche ricorrere alla distinzione tra desiderato e desiderabile, che segna la differenza tra un modo di esistere infantile e adulto; è importante, però, interpretarla attentamente, poiché l’idea non indica che i “desideri” siano esclusiva del modo infantile e il “desiderabile” di quello adulto. Piuttosto, la via adulta è caratterizzata dalla “capacità” – ma forse dovremmo chiamarla volontà o proprio desiderio – di ponderare la differenza tra i propri desideri e la loro desiderabilità. La differenza, in altre parole, è quella tra essere oggetto dei propri desideri – o più precisamente: essere assoggettato ai propri desideri – ed essere il soggetto dei propri desideri.
Fintanto che l’educatore continuerà a decidere per il bambino o lo studente quali dei loro desideri siano desiderabili, questi rimarranno oggetti delle intenzioni o delle attività dell’educatore. La sfida educativa fondamentale, quindi, non consiste nello spiegare al bambino o allo studente quali dei loro desideri siano desiderabili, ma nel far diventare questo problema una domanda vivente nella loro esistenza. Proprio il contrario di un’educazione morale diretta: abbiamo bisogno di aprire spazi, letterali e metaforici, entro i quali il bambino o lo studente possa stabilire una relazione con i propri desideri, così come di un divario tra i desideri, a mano a mano che sorgono, e le azioni che ne derivano. In questo caso, il principio educativo è quello della sospensione – una sospensione nel tempo e nello spazio, potremmo dire – che offre l’opportunità di stabilire relazioni con i nostri desideri, per renderli visibili, percepibili e per poterci lavorare.4 Non si tratta, per ripeterlo ancora una volta, di un processo tramite il quale superiamo o distruggiamo i nostri desideri – essi sono, dopotutto, una forza trainante cruciale nelle nostre vite – ma di un processo di selezione e trasformazione che ci permetta di passare dall’essere assoggettati dai nostri desideri al diventare soggetti di essi. Siamo di fronte al “riassetto non coercitivo del desiderio” di cui scrive Spivak, forse in una versione un po’ più coercitiva di quanto non suggerisca la sua, che, oltre al riassetto, può produrre anche un cambiamento nell’intensità dei nostri desideri.
Sia l’interruzione sia la sospensione avvengono nella “via di mezzo”, con l’obiettivo di tenere lo studente in quella posizione intermedia, poiché è solo lì che può raggiungere l’adultità. Un terzo fine del lavoro educativo – forse il più importante e insieme il più difficile da raggiungere – consiste proprio nell’aiutare l’allievo a rimanere in questa difficile via di mezzo. Per farlo, è necessario fornire sostentamento, in qualsiasi forma immaginabile, in modo che egli possa sopportare la difficoltà di esistere nel e con il mondo. Tuttavia, poiché la via di mezzo è il luogo in cui lo studente incontra il mondo, parte del lavoro educativo consisterà nel rendere possibile questo incontro e nel dargli forma – e qui entrano in gioco la pedagogia e il curricolo. Più specificamente, l’educatore deve dar forma all’esperienza della resistenza, in modo tale che si configuri una possibilità reale di vivere il mondo nella sua alterità e integrità. Significa anche concedere il tempo necessario affinché l’esperienza della resistenza abbia luogo e lavorare con essa – o, per usare un’espressione utile e interessante: lavorare per mezzo di essa.
Il lavoro dell’educatore consiste, infine, nel “mettere in scena” l’esperienza della resistenza, in modo tale da renderla importante, significativa e positiva, con la consapevolezza che esistono molti modi per ottenere ciò. Non si tratta di rendere le cose difficili per il gusto di farlo, ma di riconoscerne il significato cruciale rispetto alla questione dell’essere al mondo in quanto soggetto. La resistenza non va epurata dal campo dell’istruzione, rendendolo flessibile, personalizzato e interamente adattato sulle esigenze del singolo bambino o studente. Tali strategie corrono il rischio di isolare lo studente dal mondo, piuttosto che supportarlo nel corso della sua interazione con esso. Al fine di tenerlo lontano dai due estremi della distruzione del mondo e dell’autodistruzione, è fondamentale indicargli dove e come l’incontro con l’esperienza della resistenza abbia valore educativo – non solo dicendoglielo ma anche mostrandoglielo in varie forme. Oppure, per evitare il linguaggio “negativo” del “tenere lontano”: il compito dell’educatore è quello di suscitare nell’allievo il desiderio di voler sostare nella difficile via di mezzo.
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