Cambiare prospettiva per capire il presente (4) Una conversazione con Silvia Bonino
A cura di Stefano Rossetti
La cultura contemporanea è attraversata dall’intreccio fra valori e comportamenti collettivi, istituzioni pubbliche, interessi privati ed economici. La ricerca di un equilibrio condiviso fra tradizione e innovazione impegna fervide energie intellettuali, ma si traduce spesso – in particolare sui mezzi di informazione più popolari – in stereotipi e semplificazioni.
Su questi temi, abbiamo pensato di interpellare alcune figure di studiosi e studiose che, in diversi ambiti del dibattito accademico e pubblico, affrontano la complessità in prospettive originali e stimolanti.
Oggi dialoghiamo con la professoressa Silvia Bonino, professore emerito di “Psicologia dello sviluppo” all’università di Torino, dove ha insegnato dal 1990, presiedendo il Corso di laurea e di Dottorato, coordinando seminari e laboratori di ricerca, collaborando con importanti università straniere. I suoi lavori, pubblicati dai maggiori editori italiani e internazionali, toccano svariati ambiti di indagine psicologica e sociale.
Partirei da alcuni nodi problematici legati ai soggetti che vivono nella comunità scolastica e alle relazioni che costruiscono: i giovani, prima di tutto.
L’impressione è che le giovani generazioni siano in una sorta di Limbo, ben rappresentato dalla retorica del “bene dei ragazzi” che è dilagata durante la pandemia: da una parte, sembrano essere considerati il centro del mondo, li si vede come fragili e da difendere contro tutti e contro tutto; dall’altra, in cambio di questa considerazione, li si vuole sotto tutela perenne, obbedienti e conformisti.
Condivide questa lettura? Qual è la sua percezione delle giovani generazioni odierne?
Condivido la descrizione degli atteggiamenti degli adulti che lei fa. Queste modalità sono solo in apparenza contraddittorie; in realtà sono due facce della stessa medaglia: la progressiva infantilizzazione dei bambini prima e degli adolescenti e dei giovani poi, processo che è in atto da alcuni decenni. Se l’adolescente è considerato come un bambino fragile e da proteggere, ne deriva che deve essere tutelato dall’adulto, perché ritenuto incapace di autonomia. Questa infantilizzazione porta a una profezia che si autoavvera: se non si pone l’adolescente nella condizione di sperimentare gradualmente – in famiglia e a scuola, quindi in una situazione educativa protetta – una progressiva maggiore autonomia, è evidente che non potrà costruirla in sé, dando così una giustificazione ulteriore agli adulti per mantenerlo nella condizione di dipendenza. Quest’ultima è del tutto funzionale all’economia consumistica nella quale siamo immersi, che è interessata ad avere nei giovani dei consumatori conformisti.
L’adolescenza, però, continua ovviamente a essere il momento in cui si realizzano due importantissimi sviluppi: quello sessuale, con la maturazione della capacità generativa, e quello cognitivo, con la progressiva conquista della capacità di pensiero formale, ipotetico-deduttivo. Questi due sviluppi aprono l’adolescente non solo al mondo esterno e a un diverso modo di vivere le relazioni con i coetanei e i genitori, ma anche a una diversa consapevolezza di sé e, potenzialmente, a una maggiore autonomia. A mio parere oggi le giovani generazioni vivono con grande sofferenza questa infantilizzazione – benché perlopiù molto confusamente – proprio in forza della spinta interna all’autonomia personale e alla realizzazione di sé caratteristiche di questo periodo. Alcuni esprimono questa sofferenza con modalità passive e regressive, sovente meno evidenti e visibili, per esempio con l’isolamento, il rifugio nel mondo virtuale, i disturbi alimentari, l’autolesionismo; altri con modalità più attive e rivolte all’esterno, come l’uso di sostanze, i comportamenti aggressivi, la ricerca del pericolo nella guida o nel gioco. Sono i cosiddetti “comportamenti a rischio”, di cui mi sono molto occupata; essi mettono in pericolo non solo la salute, ma anche il benessere psicosociale, con conseguenze spesso molto serie nel breve e nel lungo termine.
Tutto questo mostra l’esigenza, e l’urgenza, che gli adulti non eludano il loro compito educativo, ma accompagnino in modo responsabile gli adolescenti verso una progressiva autonomia e realizzazione di sé, nella transizione dalla dipendenza infantile alla capacità adulta di autodeterminazione e di scelta. Nella nostra cultura questa transizione è molto lunga, ma è anche molto ricca di opportunità e di spazi di libertà, di cui i giovani vanno aiutati a trarre beneficio.
Il secondo soggetto sul quale riflettere è costituito dalla famiglia. Anche in questo caso, siamo spesso di fronte a un paradosso: da una parte, c’è una delega educativa alla scuola, cui si affidano compiti che tradizionalmente spettavano ai genitori; dall’altra, scatta a volte un’alleanza con i figli contro l’istituzione e chi la rappresenta. Si tratta a suo avviso di un cambiamento legato alle diverse generazioni, al diverso modo di intendere ed esercitare il proprio ruolo di adulti e educatori all’interno della famiglia?
Si è molto indebolita negli ultimi decenni la consapevolezza che i figli legano la famiglia alla società in modo profondo e obbligato, qualunque sia la forma di famiglia che si è scelta (convivenza o matrimonio); nessun bambino infatti può diventare adulto solo grazie ai genitori, ma ha bisogno della collaborazione dell’intera comunità (servizi per l’infanzia, scuola, sanità, ecc.). Come conseguenza, è stato messo in crisi il ruolo di mediazione dei genitori tra la famiglia e la società, con l’abbandono di questo ruolo e, spesso, l’opposizione e non la collaborazione con la società, in primis con la scuola.
Le cause di questa situazione sono numerose. Alcune sono lontane, come il familismo, radicato da tempo in molta parte della società italiana; esso fa prevalere i legami all’interno della famiglia su quelli tra gli individui e la società, fino a diventare, nei casi peggiori, “familismo amorale”. Altre cause sono più vicine e pervasive, e hanno a che fare con aspetti di per sé positivi, come la valorizzazione dell’individuo; questa è però degenerata in individualismo, senza coltivare la necessaria dimensione sociale, costitutiva di ogni individuo umano, in cui la realizzazione di sé passa necessariamente attraverso la positiva relazione con gli altri. Anche in questo caso il consumismo ha avuto un ruolo importante, enfatizzando la dimensione dell’individuo come fruitore incessante di beni.
Nello stesso tempo, negli ultimi decenni la famiglia nucleare contemporanea ha messo sempre più al centro la relazione affettiva con i figli, recuperando un aspetto che in passato era notevolmente trascurato. Questa trasformazione consegue alla drastica riduzione del numero di figli (dovuto a sua volta alla volontarietà della procreazione, alla contraccezione, alla decisa riduzione della mortalità infantile). Il recupero della dimensione affettiva, di per sé positivo, ha però portato sovente non solo ad un aumento dell’infantilizzazione e a una riduzione dell’autonomia (di cui ho parlato prima), ma anche alla rinuncia al ruolo normativo dei genitori, reso obiettivamente più difficile dalla pluralità dei riferimenti morali nella nostra società. I genitori si sono così trasformati da adulti in grado di dare norme, regole e sanzioni – in base ad una scala di valori consapevole -, in adulti compiacenti e condiscendenti, incapaci di tollerare qualunque sentimento negativo nei figli. Anche in questo caso l’economia consumistica ha giocato le sue carte a proprio favore, facendo leva pesantemente sul senso di colpa (“come posso privare mio figlio di ciò che gli altri hanno?”). Molti genitori si sono così progressivamente limitati a svolgere un ruolo affettivo, abdicando di fatto a una piena funzione educativa. Il risultato è una grande fragilità nei figli, che non hanno potuto confrontarsi con ostacoli commisurati alla loro età, e sviluppare quindi sicurezza in sé, autonomia, tolleranza della frustrazione, regolazione emotiva. La situazione esplode facilmente nella relazione con la scuola, primo spazio sociale esterno alla famiglia che pone regole e obbliga al confronto con limiti e difficoltà.
Mi piacerebbe ora riflettere sul ruolo e sulle relazioni dei docenti, alle prese con una crisi di lunga durata della loro reputazione sociale. Le logiche di individualismo e competizione che governano l’istituzione scolastica negli ultimi anni hanno prodotto un’indubbia crescita di ansia e sofferenza (talvolta, fino al burn out); eppure molte e molti docenti hanno messo in luce, anche durante la pandemia, spirito di adattamento, intelligenza e passione. In una prospettiva psicologica, come valuta questa situazione?
Ritengo che la pandemia, con il confinamento e la chiusura prolungata (ben al di là di quanto necessario) abbia avuto l’effetto paradossale di far scoprire a molti insegnanti l’importanza del proprio ruolo e li abbia di conseguenza stimolati ad agire. Al di fuori del consueto contesto e dell’abituale strutturazione della routine scolastica, essi si sono trovati a essere l’unico riferimento per i propri studenti. Questo ha fatto vivere un senso di unicità della propria azione (“solo io posso aiutarli”), che ha “risvegliato” la consapevolezza – e anche l’orgoglio – di possedere le competenze necessarie per continuare a esercitare il proprio ruolo. Come gli studi sull’altruismo hanno evidenziato, le persone si mobilitano positivamente nei confronti degli altri quando sono consapevoli di avere le capacità per farlo e di non poter delegare l’aiuto. Questi processi hanno stimolato il senso di responsabilità personale, e quindi di impegno, portando molti insegnanti a mobilitare tutte le energie per cercare soluzioni creative, pur nella grandissima fatica che la situazione comportava. Tutto questo, dal punto di vista psicologico, non è strano o inusuale, perché proprio le situazioni critiche costituiscono delle sfide potenzialmente propulsive per lo sviluppo personale, e possono quindi rappresentare dei punti di svolta.
Quanto è avvenuto porta a riflettere sul fatto che la normale attività scolastica, così come è burocraticamente strutturata in molte situazioni, mortifica sovente il senso profondo del valore, personale e sociale, del lavoro dell’insegnante. Paradossalmente, l’isolamento ha permesso di riscoprire questo valore! Ora si tratta di non lasciare cadere la motivazione ad agire in prima persona, consapevoli di stare facendo qualcosa di importante e unico; una consapevolezza che dà soddisfazione personale e si riflette nello stesso benessere psicofisico.
Collegandomi a quanto appena detto sull’altruismo, voglio sottolineare che la professione educativa è espressione di quella socialità positiva, caratteristica peculiare dell’essere umano, che porta ad aiutare gli altri, in specifico le giovani generazioni, nel loro cammino di crescita e di transizione all’età adulta. In realtà, nello scambio tra generazioni diverse questo aiuto è reciproco e realizza una cooperazione verso obiettivi di crescita personale che non riguardano solo gli allievi ma anche gli stessi insegnanti.
L’antropologa Sherry Turkle ha definito la condizione individuale e sociale creata dalla massiccia diffusione di nuove pervasive tecnologie portabili nel titolo del suo libro “Insieme ma soli”. Dal suo punto di osservazione, come valuta l’impatto su adulti e giovani di smartphone e social network?
L’impatto non è positivo per varie ragioni. Anzitutto, si deve constatare che i giovani, e prima ancora i bambini, sono stati lasciati soli, nella grande maggioranza dei casi, nell’uso di questi mezzi, senza una valutazione critica e un accompagnamento all’uso consapevole da parte degli adulti. Ciò è avvenuto perché gli adulti stessi hanno accettato con grandissima passività e in modo massiccio l’uso degli strumenti virtuali, in presenza di un pervasivo e intenso condizionamento che li ha fatti apparire come indispensabili segni di modernità, evoluzione, progresso. La gratuità con cui la maggior parte dei servizi viene offerta ha avuto una tale attrattiva da ostacolare le domande sugli interessi che si celavano dietro questi strumenti così accattivanti. Molti genitori hanno così dato in mano ai figli dispositivi sul cui funzionamento, caratteristiche, rischi, essi stessi non sapevano nulla, mentre alcuni insegnanti si sono illusi che bastasse ricorrere alla tecnologia per risolvere i molti problemi della relazione educativa e della didattica.
Valutare criticamente gli strumenti virtuali portabili significa anzitutto rendersi conto che essi – come peraltro ogni artefatto culturale e tecnologico – strutturano in modo stabile il nostro cervello e la nostra mente. L’evidenza è che essi lo fanno in modo molto forte e, soprattutto, limitante, a causa della loro facile e continua accessibilità. Essi infatti non favoriscono lo sviluppo delle piene potenzialità cognitive, emotive e sociali degli individui (aspetti che distinguiamo solo per comodità di analisi, ma che sono in realtà strettamente connessi); anzi, al contrario, essi assecondano le forme più primitive, meno evolute e meno umane, del nostro modo di pensare, di provare emozioni, di entrare in relazione con gli altri. Il discorso sarebbe molto ampio e mi limito ad alcuni esempi.
Sul piano cognitivo (di fatto strettamente intrecciato alle emozioni e alla socialità), il prevalere dell’immagine virtuale e la mancanza di confronto fisico con la realtà (manipolazione, uso di tutti i sensi e non solo della vista, ecc.), limitano la memorizzazione e l’apprendimento individuale, favorendo la dipendenza dallo strumento virtuale. Sul piano emotivo, l’accesso immediato impedisce lo sviluppo di strategie di pianificazione per raggiungere un obiettivo, come è invece richiesto nella vita concreta, dove non si può ottenere “tutto e subito”. Ancor più, la disponibilità virtuale illude che tutto si possa ottenere con un semplice gesto, favorendo vissuti di onnipotenza. Le conseguenze del trasferimento di queste modalità nella vita reale, in particolare nelle relazioni sociale, sono rovinose. Non dobbiamo mai dimenticare che le potenzialità di socialità positiva specifiche della specie umana – come empatia, cooperazione, altruismo, e molto altro (l’aggressione non lo è, ma ci proviene dai primi vertebrati, cioè i rettili) – si sono sviluppate nella filogenesi nella relazione faccia a faccia e richiedono, per svilupparsi ed esprimersi, a partire dalla nascita e per tutta la vita, l’interazione reale e non virtuale.
Particolarmente negativo è il ruolo dei cosiddetti social network, che ho definito già anni fa asocial network. Essi sfruttano per i propri fini la propensione sociale costitutiva dell’essere umano, ma di fatto la snaturano perché favoriscono gli aspetti più primitivi del comportamento umano, in particolare l’impulsività e l’aggressione, a scapito delle relazioni sociali positive e della consapevolezza di sé e del proprio agire. Ho già parlato della socialità positiva; quanto all’autoconsapevolezza, essa richiede riflessione su di sé, valutazione del proprio comportamento, linguaggio interiore: tutte modalità che richiedono tempo ed elaborazione cognitiva, mentre questi strumenti favoriscono una risposta immediata, impulsiva, minimale (i ben noti 140, ora 280, caratteri di Twitter), che dà una gratificazione superficiale e istantanea. Questi strumenti sono strutturalmente costruiti in modo tale da ostacolare lo sviluppo delle potenzialità specificamente umane; di questo si sono resi conto, tardivamente, molti di coloro che hanno contribuito alla loro nascita. Chamath Palihapitiya, ex vicepresidente di Facebook, è giunto a concludere: «Abbiamo creato un sistema di gratificazione a breve termine di like e di feedback, guidato dalla dopamina, che sta distruggendo il modo normale in cui la società funziona: non sono cresciute né le discussioni, né la collaborazione, ma solo la disinformazione e la mistificazione della realtà.» Anche Sean Parker, cofondatore di Facebook, ha denunciato che i cosiddetti social media «approfittano delle vulnerabilità della psicologia umana» con un meccanismo che crea dipendenza come una droga.
Nello specifico campo della scuola e dell’apprendimento, si confrontano spesso due concezioni delle tecnologie: una che le considera finalità prioritarie del percorso formativo; una, opposta, che le confina nell’ambito dei metodi fra i quali scegliere come insegnare. A me sembra, invece, che ci si dovrebbe innanzitutto dedicare allo studio del loro contenuto, dei significati e dei valori che si costruiscono e delle situazioni che si creano attraverso il loro utilizzo. Qual è la sua opinione?
La mia opinione discende da quanto ho appena detto. Le tecnologie informatiche non possono essere finalità prioritarie nel percorso formativo, perché questo ne risulterebbe fortemente mortificato e carente su tutti i piani. La scuola deve essere, anzitutto, il luogo privilegiato del confronto con le persone reali, perché è nella relazione personale che si costruisce un rapporto educativo davvero formativo, di cui la trasmissione culturale non è che un aspetto e una conseguenza. Essa deve anche essere il luogo privilegiato di confronto con la realtà concreta, fatta di manipolazione, ricerca sul campo, sperimentazione, e questo non solo nelle materie scientifiche. Inoltre, essa deve coinvolgere gli allievi su tutti i piani – cognitivo, emotivo e sociale – condizione indispensabile per lo sviluppo globale delle persone. A questo proposito, faccio un solo esempio riguardo alla parola scritta, strumento essenziale di conoscenza e di autoconsapevolezza: sono ormai numerosi gli studi che confermano quando sia diverso e limitativo (in termini di coinvolgimento, percezione, comprensione, memorizzazione, apprendimento) leggere un testo su un ebook oppure su un libro cartaceo, così come assistere a una lezione in video oppure in presenza in aula.
Condivido quindi la sua proposta di una valutazione critica degli strumenti tecnologici, che aiuti sia gli insegnanti sia gli allievi a essere consapevoli di ciò che stanno usando: quali sono le implicazioni, quali modalità di relazione comportano, quali aspetti sono privilegiati, quali sviluppi favoriscono oppure ostacolano. Sulla base di questa valutazione critica consapevole, è certamente possibile usare gli strumenti tecnologici come utili mezzi all’interno di una programmazione e di progetti che abbiano come scopi principali le priorità appena indicate.
Un altro argomento che appassiona e divide il mondo della scuola è il rapporto fra dimensione cognitiva e non cognitiva dell’insegnamento/ apprendimento. Un recente disegno di legge introduce la sperimentazione legata alle cosiddette “soft skills”, e ne promuove la diffusione e il radicamento, non come forma in qualche modo interna alle discipline e al rapporto formativo fra docente e discente, ma come dimensione autonoma del percorso formativo. Che cosa pensa di questa prospettiva?
Questa terminologia non appartiene alle scienze psicologiche e sottende concezioni che non hanno riscontro in esse. Parlare di dimensione cognitiva e non cognitiva implica l’idea, del tutto errata, che esistano abilità solo cognitive e altre che non lo sono per nulla. Ma la persona umana opera in modo unitario, perché la mente, e il cervello da cui questa emerge, funzionano in modo del tutto indivisibile. Questo la psicologia già lo sapeva da tempo, e le neuroscienze lo stanno confermando. Il cervello funziona attraverso reti neurali di grandissima complessità che coinvolgono tutte le parti filogeneticamente diverse del nostro cervello trino: da quelle più antiche del tronco encefalico – che ci derivano dai primi vertebrati (i rettili) – a quelle limbiche ed emotive che risalgono filogeneticamente ai primi mammiferi, fino alla neocorteccia, comparsa con i mammiferi superiori; quest’ultima ha avuto nella nostra specie il massimo sviluppo e presiede alle attività cognitive superiori.
Anche parlare di “soft skills” è fuorviante. La terminologia viene dall’ambito economico e lavorativo e non trova corrispondenza in psicologia, tanto meno in psicologia dello sviluppo. È quasi banale notare che i costrutti considerati sono in realtà molto “hard”.
Sono, infatti, aspetti fondanti della persona (come l’autostima e la fiducia in sé) e della sua capacità di interazione con gli altri (come la comunicazione e l’empatia), che si costruiscono lentamente nel tempo a partire dalle primissime esperienze in famiglia e, in seguito, nella relazione con altri adulti e coetanei. Per questo la psicologia parla oggi di life skills, cioè di capacità fondamentali e indispensabili per la vita e il benessere individuale e sociale (per esempio, pensiero critico, pensiero creativo, capacità relazionali e di comunicazione).
Dal punto di vista delle scienze psicologiche, quindi, è la persona nella sua interezza che va educata: la conoscenza scientifica si incontra qui con la tradizione umanistica. L’obiettivo della scuola non è solo quello di trasmettere conoscenze, ma di formare persone complete, dotate di una “testa ben fatta” e capaci di “stare bene” con se stesse e con gli altri. L’educazione globale della persona si fa nella concretezza della normale vita scolastica, sia attraverso lo studio delle discipline sia nella quotidiana vita sociale, nella relazione con i docenti e i coetanei; di questo gli insegnanti devono essere consapevoli, per agire di conseguenza nella pratica educativa. Nei soggetti in età evolutiva, bambini e adolescenti, le capacità fondamentali non devono essere considerate aspetti autonomi, oggetto di interventi specifici ad hoc, con una frammentazione che sarebbe negativa e, non da ultimo, controproducente. Nella scuola superiore, date le caratteristiche di pensiero degli adolescenti, questo tipo di educazione globale, indiretto e trasversale alle varie discipline, può essere validamente affiancato da specifici momenti di riflessione su particolari capacità, ma sempre all’interno della relazione formativa tra docente e discente. Interventi specifici ad hoc hanno senso solo in età adulta o in condizioni di particolare carenza, dove assumono una funzione riabilitativa.
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