Un altro vedere. Piccola storia del nostro sguardo sulle storie
La lettura storica e sociologica che ipotizzerò in quest’articolo nasce dal tentativo di coniugare concretamente l’insegnamento della letteratura e l’alfabetizzazione ai media. In particolare, dall’attività di educazione linguistica svolta in seconda a partire dalla lettura dei “Promessi Sposi”. Quando si affronta lo studio del romanzo manzoniano, è infatti interessante lavorare a fondo sulle affinità e sulle distanze fra mentalità, linguaggio, modelli narrativi presenti nell’opera, da una parte, e dall’altra il patrimonio di storie, codici e valori che caratterizzano la cultura popolare delle classi. In questa prospettiva, si possono studiare le diverse trascrizioni filmiche e televisive del romanzo, di cui esiste in rete un repertorio significativo. L’attività arricchisce la comprensione del romanzo, perché gioca su tre piani: la riflessione sull’evoluzione storica del linguaggio verbale scritto; il confronto fra linguaggio scritto e audiovisivo; lo studio della distanza che separa tra loro le diverse riscritture per immagini della storia.
Da quest’ultimo versante nascono le considerazioni che svilupperò. Man mano che si passa, infatti, dalle riletture per immagini più antiche (non tanto il film di Camerini quanto, per respiro narrativo, lo sceneggiato di Bolchi) a quelle più vicine nel tempo (fino a “Renzo e Lucia” di Francesca Archibugi), si notano due fenomeni convergenti: un progressivo distacco dal testo originale; una crescente adesione al ritmo, al montaggio e agli stereotipi visivi tipici della contemporaneità. Per intenderci, mentre la Lucia di Bolchi (Paola Pitagora) cerca di riproporre fedelmente la descrizione manzoniana, nei tratti fisici, nell’abbigliamento, nella sensibilità (la riservatezza, sua e del narratore, sull’incontro con Rodrigo), quella di Archibugi è una ragazza visibilmente attraente che incontra Rodrigo in una scena esplicita, tutta sudata per il lavoro, e per questo vestita con ampie scollature.
La trasformazione appena descritta – l’abbandono di un’idea di “fedeltà” al testo scritto a vantaggio di un’attualizzazione marcata – costituisce un caso specifico di un vero e proprio cambiamento di paradigma: un nuovo modo di guardare, a determinare il quale concorrono fattori sociali, culturali, economici, che vale la pena provare ad esaminare.
Passato remoto: guardare con occhi di lettore
Il senso del vedere le storie in immagini che caratterizza gran parte del Novecento è tutto nella sequenza iniziale di “Cenerentola”: un libro che si apre, una calda voce narrante che legge, il disegno che si anima. Tutto il nostro passato di spettatori europei sta in questa sequenza: vi si rappresentano la centralità e il primato assoluto della civiltà del libro e dell’atto di leggere. La visione è definita come una sorta di continuazione della lettura.
Peraltro, questo legame di dipendenza e di continuità è forse ancora più evidente se si pensa alle storie televisive, che introdussero sin dagli anni Sessanta l’idea di serialità: le lunghe attese, da una domenica, all’altra, che tutti gli adulti nati negli anni ’50 e ’60 ricordano bene. In questo senso, un testo di valore simbolico è sicuramente “La freccia nera”: un romanzo popolare di avventura trascritto in immagini, la creazione di una suspense straordinaria fra una puntata e la successiva; un’estetica decisamente sperimentale per l’epoca: era la prima volta che si girava in esterni con il suono in presa diretta; i titoli di testa presentavano una forte originalità nel ritmo del montaggio, con l’attenzione al linguaggio verbale deviata dalla colonna sonora potente ed emotiva; la canzone popolare che molti canticchiano ancora oggi non era la sigla iniziale, ma era stata spostata al termine della narrazione. Tuttavia, il patrimonio al quale questa e le altre popolari storie televisive attingevano era per la quasi totalità letterario, e andava dai classici alla narrativa popolare, spaziando con grande libertà creativa fra i generi e i registri.
All’impostazione colta e all’ambizione di utilizzare le storie per immagini come veicolo di alfabetizzazione e diffusione di un sapere accattivante e accessibile congiurava ovviamente la radicale differenza rispetto alla televisione americana: l’assenza cioè di interessi commerciali e pubblicitari rilevanti. Mentre la tv negli USA nacque sin dall’inizio come contenitore di spazi di vendita di prodotti commerciali, determinando ad esempio il montaggio e gli stacchi narrativi (calibrati perché si inserissero gli spot), la narrazione europea, e nello specifico italiana, crebbe per almeno due decenni sostanzialmente libera da questo genere di costrizioni e di finanziamenti. Con evidenti conseguenze sulla qualità delle produzioni, sia dal punto di vista estetico che nella scelta dei soggetti e nelle riscritture.
La radicale distanza fra televisione commerciale e di servizio pubblico è particolarmente visibile nella specifica tipologia degli spot pubblicitari. Il famoso “Carosello” si distingue infatti dagli omologhi americani per alcune caratteristiche significative: il bassissimo costo degli spazi televisivi consente ai pubblicitari di raccontare vere e proprie storie lunghe ed articolate, a conclusione delle quali collocare l’immagine del prodotto; di converso, non esistono forti interessi in quest’ambito né l’esigenza di sintesi del messaggio, per cui le storie pubblicitarie sono spesso campo di sperimentazione artistica e visiva, abbattendo il confine fra cultura pop e cultura “alta”.
La realtà delle narrazioni, dei più diversi generi, risulta in Europa lontanissima da quella degli USA, dove lo spettatore è sin dall’inizio anche (e soprattutto) un consumatore: e dove la ricerca psicologica sugli effetti della pubblicità e dei mezzi audiovisivi è sin dai primordi molto sviluppata, e aperta anche alle sue implicazioni sociologiche e politiche (il fondamentale studio “I persuasori occulti” di Vance Packard esce nel 1956).
Dunque il vedere naturale, per uno spettatore europeo degli anni Sessanta e dei decenni successivi, riflette l’ordine della lettura: una successione chiara di momenti e azioni, dove le immagini svolgono il ruolo di chiarimento ed esplicitazione della voce narrante (e sono molto spesso accompagnate, infatti, dalla voce fuori campo del romanziere); una costruzione di senso in cui la musica agisce quasi sempre come elemento di enfasi e sottolineatura, e quasi mai come controcanto o fattore semantico autonomo; luoghi narrativi dove spazio, tempo, storia e racconto si dipanano in un ordine chiaro e prevedibile, applicando allo schermo e all’immagine l’atto del leggere.
Presente: guardare senza focalizzare
La “naturalità” di questo sguardo (episodicamente negata in alcuni momenti della storia del cinema) viene messa radicalmente in discussione nella cultura di massa degli anni Novanta, con particolare rilievi nell’ambito della narrazione seriale. In questo senso, il primo testo rivoluzionario è la serie “CSI Las Vegas”. A partire dalle scelte tematiche ed estetiche degli autori di quel racconto, infatti, si può ragionare in modo concreto su alcuni elementi di svolta nella postura richiesta a chi guarda e legge la storia. Il racconto delle indagini della polizia scientifica si fonda su tre novità: l’abolizione di qualsiasi tabù visivo e l’assolua prevalenza dell’immagine sulla dimensione verbale; la costruzione di intrecci particolarmente complessi e lo sdoppiamento della trama; il rovesciamento e la moltiplicazione dei punti di vista.
In “CSI” nulla rimane invisibile. In particolare, il corpo viene mostrato con un’insistenza e una ricchezza di particolari inusitata fino ad allora; del resto, è il corpo morto sul tavolo dell’autopsia a rivestire il ruolo fondamentale nella ricerca della verità. Tuttavia, mentre nella lunga tradizione di medici che avevano popolato la televisione fino ad allora il senso si costruiva intorno alle loro parole, il significato e il ruolo del patologo in questa serie si costruisce intorno a ciò che vede, non a ciò che dice. Parlano le immagini, e dunque s’impongono visioni raccapriccianti, dettagliate, aumentate (per esempio, attraverso il microscopio). Risulta istruttivo confrontare Gil Grissom, il patologo protagonista delle prime stagioni di “CSI”, con il suo diretto predecessore Quincy, protagonista di una bellissima storia degli anni Ottanta: là, nel passato, il corpo non si vede se non attraverso le parole che lo descrivono; qui, nel nuovo presente in cui non esistono tabù visivi, le parole sono un accessorio rinunciabile, a fronte dell’eloquenza delle immagini. Del resto, l’evoluzione del genere è chiarissima: anche attraverso la visione di poche puntate di “Bones”, per esempio, si acquista familiarità con corpi schiacciati, spremuti, liquefatti, bruciati, fusi.
A questa progressiva cancellazione dei limiti visivi (in particolare, per quel che riguarda il corpo, la morte, il sesso, la violenza in tutte le sue forme), che non caratterizza affatto le sole narrazioni d’indagine poliziesca, si accompagna un mutamento radicale nella costruzione del punto di vista: al prevalere della visione frontale e da fuori, infatti, si accostano, in un montaggio che prevede ritmi sempre più serrati, un vedere da dentro e di sbieco. Ad esempio, la pallottola si osserva dal punto di vista della canna dell’arma, se ne seguono l’esplosione, l’uscita e il tragitto fino ad assumere il punto di vista dell’osso o dell’organo interno nel quale alla fine si conficca: un modo di intendere e di praticare la ripresa in soggettiva assolutamente nuovo, e impensabile senza i progressi tecnologici che rendono possibili effetti speciali straordinari.
Infine, il ritmo della vicenda si modifica profondamente, attraverso una moltiplicazione dei personaggi (la costruzione di squadre e gruppi è ovviamente un serbatoio di possibili sviluppi narrativi) e la fusione di intrecci multipli (nei polizieschi, due casi diversi su cui indagano membri della squadra, o diverse piste su cui si indaga contemporaneamente).
Ne deriva una narrazione assolutamente satura, nella quale gli spazi per l’emozione violenta e la sorpresa momentanea sono enormi, mentre diminuiscono, tendenzialmente scompaiono, gli spazi di riflessione e le pause narrative.
Schematizzando, si potrebbe dire che il vedere del passato è caratterizzato da tre elementi: la presenza di tabù (e dei corrispondenti spazi di immaginazione e di infrazione/ interpretazione soggettiva per chi guarda); un ritmo di visione costante, preciso e delimitato (nell’intreccio, nella costruzione dei personaggi, nella successione delle vicende e nel loro montaggio/ traduzione in immagini); una sorta di “regola di separatezza” fra finzione e visione, per cui si fruisce della storia per immagini nella piena consapevolezza che stiamo interrompendo la nostra esperienza di realtà per divertirci (in senso etimologico: uscire da uno schema di coscienza nel quale rientreremo). Il vedere del presente si presenta invece come progressiva affermazione di tre spinte opposte: la cancellazione dei divieti e una sorta di obbligo di visione; uno sguardo incostante, accelerato, discontinuo, che si muove nel tempo, nello spazio, nella psicologia del personaggio con assoluta libertà; la tendenza a contaminare e mescolare, mettendo costantemente in discussione le idee di canone, genere, stile, fino alla possibilità di rendere elastici i concetti di “realtà” e “finzione”.
Non c’è alcun dubbio che l nuovo vedere generato dal progressivo distacco dalla tradizione (non solo quella letteraria, ma anche quella filmica classica) caratterizzi la realtà culturale nella quale viviamo, e le vite visive delle nuove generazioni. Né che esso sia foriero, in ugual misura, di emancipazione e di asservimento, sotto il profilo estetico, culturale, sociologico.
Da una parte, infatti, questo nuovo approccio all’immagine, e all’immaginario che produce, genera innovativi fenomeni culturali ormai radicati: il rifacimento frequente di storie (anche recenti), realizzato attraverso l’adozione di nuovi punti di vista o l’esplorazione di generi differenti e contaminazioni linguistiche (il caso più eclatante mi sembra quello di “Spiderman”, ma il ragionamento si può applicare a tutto l’universo degli eroi e supereroi); la rilettura provocatoria di personaggi “storici” dell’immaginario collettivo (il caso più recente è quello della Crudelia Demon dei cartoni che assume un corpo reale e diventa Cruella); l’attraversamento delle dimensioni dello spazio e del tempo (un caso interessante, perché non nasce certamente dalla mente di un nativo digitale, è la proliferazione di albi a fumetti che rileggono e arricchiscono l’epica di Tex Willer: all’ordinata e storica serie originale, infatti, si sono accostati, sempre con notevole successo e allargamento delle fasce di età dei lettori, la collana delle storie di Tex giovane, storie che hanno per protagonista il fratello, storie ristampate e rivedute).
Il vedere futuro: nuova conoscenza o definitiva illusione?
Ricerche ed esperimenti di questo genere ampliano a dismisura il campo delle possibilità narrative ed espressive: in virtù delle notevoli innovazioni tecniche, rese possibili soprattutto dai software di ripresa, montaggio e modifica dell’immagine, rendono possibili nuove forme artistiche promettenti, ed esperienze di visione inconcepibili in passato. In quest’ambito, la serialità televisiva costituisce oggi la frontiera più avanzata di creatività e sperimentazione, ed un veicolo di conoscenza di diverse forme di alterità.
Tuttavia, attraverso la rivoluzione visiva alla quale stiamo assistendo, lo scenario descritto da Ray Bradbury in “Fahrenheit 451” potrebbe trovare un’attuazione se possibile ancora più pervasiva di quella immaginata dai detentori del potere nel romanzo: non sarebbero le pareti di casa ad essere popolate da schermi, ma le persone stesse a diventare schermi e scenari, nell’ostentazione/ sorveglianza costante di sé e degli altri, nella confusione fra “realtà” e finzione, nel divenire supporti per le tecnologie che li leggono e li osservano (smartphone, smartwatch, occhiali, visori).
La situazione attuale potrebbe quindi comportare un sostanziale impoverimento cognitivo, che costituirebbe proprio l’altra faccia del prodigioso potenziamento percettivo che si accompagna alle nuove forme di messa in scena delle storie.
È questa la sensazione che si prova, ad esempio, quando si studiano con le classi alcune fra le serie televisive più colte, come “Dr House”, “Mad men”, “La casa di carta”. Ci si accorge infatti che gran parte del pubblico giovanile si mette in atteggiamento di godimento percettivo, si abbandona alla bellezza e al fascino dell’illusione scenica e alla sapienza assoluta della sceneggiatura, della regia e degli effetti. Quando poi gli fai notare che dietro e dentro queste storie ci sono temi etici e politici cruciali della contemporaneità e problemi che riguardano tutti, ti rispondono serenamente che non se n’erano accorti.
Vale davvero la pena, allora, continuare a discutere del rapporto possibile fra le narrazioni, la conoscenza e l’impegno.
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