Rileggere Cesare Cases: un antidoto
Tra i modelli discorsivi da utilizzare come antidoti o vaccini negli anni attuali, del narcisismo dei social e dello specialismo dei “papers”, vi è la scrittura di un critico dimenticato che sulla rivista L’Indice dei libri del mese da lui fondata aveva fissato con chiarezza le buone regole per una recensione onesta: Cesare Cases (1920-2005). Cases è un stato un importante germanista ma anche un brillante critico letterario, un ironista e polemista nei saggi raccolti nei volumi Patrie lettere e Il testimone secondario (Einaudi, 1974 e 1985). I suoi autori italiani prediletti, difesi nell’ambito delle accanite discussioni degli anni Sessanta e Settanta, sono Calvino, Primo Levi, Elsa Morante. Cases è abitato dal lukacsiano “demone della Totalità” che sopravvive in lui anche dopo le negazioni e le abiure. Dunque, è sbilenca in lui la situazione dell’interprete, apparentemente secondaria e marginale e su questa esibita provvisorietà si articolano le sue forme aggressive e difensive: l’ironia, il paradosso, la parodia. Non a caso, il saggio critico in Cases può mascherarsi in altre forme del discorso: la lettera burocratica, il racconto, il dialogo. A esempio, nella rubrica «Libri da leggere e da non leggere», provocatoria tabella di stroncature e di approvazioni della rivista Quaderni piacentini nel 1967, compare il suo saggio Difesa di “un” cretino: una appassionata difesa di Damiano Malabaila, pseudonimo del Primo Levi di Storie naturali, scritta in forma ironica come finta abiura e lettera apologetica indirizzata all’«Onorevole redazione» che quel libro aveva stroncato:
Onorevole Redazione,
Il “cretino” che vorrei difendere è Primo Levi, liquidato per le sue Storie naturali. (…) Prevedo due obiezioni da parte di codesta On. Redazione. Prima: ma ci vuol tanto a capire che Auschwitz è dappertutto? L. F. Cèline per esempio, c’era arrivato già molto prima. (…) Seconda: se Levi c’è arrivato adesso, poteva almeno arrivarci con la ferocia di Sheckley, senza quegli accenti di pensosa e bonaria malinconia cui accennavo dianzi e che tradiscono il vecchio Adamo. Ora è noto a codesta On. Redazione che, onde meritare la di Lei benevolenza, ho ingoiato molti rospi e sono passato sotto molte forche caudine da me stesso erette. Accetto dunque in pieno le due obiezioni e, facendo una volta di più ammenda dei passati errori, riaffermo solennemente che preferisco Sheckley a Goethe, Bob Dylan a Beethoven, Sade a Hegel e a Lukacs (…) e Cèline a Primo Levi. Tuttavia (…) Cèline aveva, sì, capito tutto quando Primo Levi era rimasto ancora a Dante, ma evidentemente aveva capito troppo, perché vedendo Auschwitz dappertutto prima ancora che ci fosse, quando poi ci fu davvero si entusiasmò all’idea che qualcuno facesse sul serio e, se non ci spedì lui Primo Levi, benedì chi ce lo spediva. (…) E Primo Levi? È tanto tempo che non lo vedo, può essere benissimo che non sia abbonato né a quaderni piacentini né a quaderni rossi e che simpatizzi addirittura con il centro sinistra. Anche se ciò fosse, i suoi racconti mostrano chiaramente come in fondo all’animo non è affatto convinto che il centro sinistra e la coesistenza pacifica gli garantiscano “la famiglia, la natura in fiore, la casa” e abbiano bandito per sempre Auschwitz. Per queste ragioni squisitamente politiche mi pregio allegare alla presente regolare domanda in carta bollata da lire quattrocento a codesta On. Redazione affinché le Storie naturali di Damiano Malabaila vengano tolte dall’elenco dei libri da non leggere.
Con osservanza.
Cesare Cases. (in Patrie lettere, pp. 138-143)
Cases sa difendere Levi dai luoghi comuni dell’ideologia di estrema sinistra ma dimostra anche allergia precoce, di derivazione francofortese, per l’orizzonte culturale che si è imposto dagli anni Ottanta in poi: divisi fra l’esoterismo culturale dell’Adelphi e la pervasività omologante dei media. E dimostra inoltre inedita abilità nell’ utilizzare i linguaggi dei media, con inclusione nel discorso critico di modalità narrative e iconiche proprie della cosiddetta “paraletteratura”, del cartone e del fumetto. A esempio in Gli italiani esortati alle ‘pizze’ (1986), discute comicamente un numero della rivista «Sigma» introdotto da Gian Luigi Beccaria sulla situazione mediatica della lingua italiana calandolo in un habitat televisivo:
La Rai-tv ha capito subito qual era il nemico e non ha perso tempo. Appena uscito il fascicolo, approfittando della vicinanza topografica dell’università di Torino, ha attirato Beccaria, che ne usciva intontito dopo aver sistemato la punteggiatura di venti tesi, nelle segrete di Via Verdi, dove un malvagio scienziato prezzolato gli ha fatto un’endovenosa che paralizza tutti i centri della volontà. Così ridotto a un puro automa, Beccaria si è esibito per intere settimane alla tv circondato dai ceffi dei presentatori, vallette, cantautori, acrobati, ballerine: tutti analfabeti televisivi garantiti con certificato di origine. (…) Il trionfo della Rai-tv è totale, il numero di Sigma completamente neutralizzato. (in Patrie lettere, p. 16).
Anche il memoriale di Cases dal titolo Confessioni di un ottuagenario (2000) è un vero e proprio capolavoro terminale di depistaggio e dissimulazione. La duplicità stilistica di questo volumetto testamentario è resa infatti più evidente dal duetto vocale con cui è costruito: la voce si sdoppia in un controcanto mentale e autocosciente. Tenute a bada dalla finzione dialogica e dal distanziamento ironico, sfilano le ombre di alcuni grandi intellettuali del secolo appena trascorso: innanzitutto Fortini, e poi Lukács, Goldmann, Renato Solmi, Luciano Foà, Giulio Einaudi, Vittorini, De Martino, Calvino, Bollati, la Morante. Lo sguardo “postumo” sulla propria biografia intellettuale e su quella degli scrittori suoi compagni di strada, è consapevole dell’apocalisse culturale di fine secolo che ha spazzato via i legami sociali e l’agire collettivo del Novecento. Relegato il comunismo “nel regno dell’utopia o dell’idiozia” (p. 49), quello che, con Parini, Cases chiama “secol mercatore” (p. 13) si appresta anche a decretare la fine “della categoria cui mi onoro di appartenere nonostante i suoi enormi difetti. Quella degli intellettuali” (p. 12). Non manca infine una frecciata coraggiosa e controtempo al neoheideggerismo imperante: per Cases, chi si ostina ancora a pensare è ridotto “a sperare nel miracolo, come Heidegger, che se ne intendeva, avendo creduto nel miracolo nazista “(p. 49).
La scrittura di Cases insomma padroneggia ancora le armi della dialettica e della contraddizione: segno di desuetudine per molti e, per noi, motivo di interesse. Del resto, la stessa l’ironia è figura di negazione, tipica di situazioni discorsive gravate da censura. E Cases, in un contesto fieramente avverso, è uno degli ultimi critici letterari capaci di farsi critici della cultura e della società. L’alternanza sconcertante, nella sua scrittura, di zone ironiche e comiche e di zone tragiche, ad alto tenore concettuale e polemico, gli permette di fare diagnosi psicosociale dei fenomeni culturali postmoderni, ponendo in cortocircuito inconscio individuale e inconscio politico.
Tutta la saggistica critica di Cases è insomma fondata sul sapiente inserimento di una testualità avversa in un contesto logico e linguistico estraneo. Da allievo di Lukács, aveva ben capito come alla proclamata morte delle ideologie in realtà sopravvivesse il dogma di una ideologia sola, l’attuale neoliberalismo.
Forse quando scriviamo o insegniamo oggi, tentando di ripristinare un “noi” malgrado tutto, in un contesto ancora più ferocemente avverso al pensiero critico e sull’orlo di una catastrofe, della sua scrittura dovremo ricordarcene di più.
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