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diretto da Romano Luperini

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Il romanzo del poeta: Il figlio del farmacista di Mario Tobino

Nel settembre 2020 Vallecchi ha ristampato, con minime varianti grafiche, l’edizione del 1966 di Il figlio del farmacista, prima opera in prosa di Mario Tobino. Nella sua Introduzione all’attuale edizione, Giulio Ferroni ricorda la «scarsissima risonanza» della prima uscita, nel 1942, per le Edizioni di Corrente, ma

Ora che Il figlio del farmacista torna da Vallecchi può sembrare quasi ovvio ricondurlo a quella che oggi chiamiamo autofiction, come del resto si può fare con tanta letteratura del Novecento e in particolare con quella degli anni di questo libro […] (G. Ferroni. Introduzione, pag. 6)

Eppure, per quanto sia ragionevole il rimando a categorie contemporanee, come autofiction o biofiction, o quelle che si preferiscono tra le ibridazioni delle finzioni biografiche (Castellana, 2019), questo libro di Tobino sembra conservare tutto il fascino di un tempo e di uno spazio, riconoscibili per il lettore nella loro realtà e nella loro finzionalità letteraria, in cui quelle categorie non hanno presa sul testo. La grazia di queste pagine consiste proprio nell’essere prima delle attuali definizioni,  nell’essere ancorate alle tendenze culturali della fine degli anni trenta del Novecento in una zona geografica che è in quell’epoca il crocevia di incontri e di tradizioni di linguaggi e di attese. È la Lunigiana, la Versilia, la Lucchesia, la Liguria, che poi si estende con Tobino verso l’Emilia e le Marche, che sotto un altro cielo toccano un altro mare e vivono un’altra storia. Ma prima di arrivare dall’altra parte, Tobino si intride degli umori della terra in cui è nato. Si tratta di un territorio dagli incerti confini regionali, eppure fortemente connotato, è la terra d’Apua,  quella delle Alpi che sono Appennino, colonna dorsale della penisola, ed è anche la repubblica d’Apua con le sue aspirazioni anarchiche, che caratterizzano gli «‘scrittori della costa tirrenica’ fra la Lunigiana e il grossetano: da Roccatagliata Ceccardi, Pea, Viani a […] Bianciardi» (Luperini, 2015). Nella geografia del figlio del farmacista l’epicentro è Viareggio, «che è il suo paese» (pag. 83) in cui si trova la farmacia, e da lì si dipartono le direttrici verso Bologna, dove diventa medico, e le Marche, dove è medico di manicomio (ma Ancona non è nominata). E poi c’è Lucca con la sua luce dorata sulle antiche pietre e sui tetti, «proprio oro vero in polvere» (pag. 77), e c’è il porto di Genova dove si trova il bastimento su cui si imbarca il figlio del farmacista. L’unica città, guardata nella sua dimensione urbana, di piazze strade passanti vetrine, è Bologna: tutto intorno c’è un’Italia fatta di campagna, di animali, di case, di porti e di lavoro, che è sempre «questo gesto nobile» (pag. 75) se anche compiuto da un manovale, da un maniscalco, da un contadino o dal figlio del farmacista. Infine ci sono i matti e i giovani che aspettano che la poesia li visiti, in mezzo ad un campo assolato o nella solitudine del silenzio notturno.

IO e LUI

Il racconto procede per quadri in cui il figlio del farmacista è protagonista di una situazione, conclusa all’interno dei confini del singolo capitolo. Un evento specifico o una condizione psicologica, un luogo o una riflessione extravagante, illustrano – attraverso il tema prescelto – una peculiarità del protagonista, oggettivato nella narrazione in terza persona. Si tratta, a ben guardare, di una successione di temi cronologicamente ordinata, che riguarda il passato prossimo e lambisce il presente, e include (anche nei rari flashback) soltanto alcuni episodi emblematici secondo la struttura del polittico. In questo rifiuto del compatto, in questo scrivere per sezioni separate, pur prendendo di petto le cose, nel rifiuto della diplomazia della scrittura, come in altri aspetti stilistici, si fa sentire in Tobino la tradizione anarchica toscana di cui si accennava prima. Tobino dimostra in questo libro un suo gusto particolare per il realismo e per il frammento, per la disorganicità e il rifiuto delle buone maniere letterarie. La traiettoria narrativa che disegna Tobino appare comunque lineare. Si comincia, ovviamente, In farmacia e si termina con una risposta: Del perché del manicomio, che è l’inizio del futuro nella prosecuzione dell’attesa della poesia. Il narratore dislocato, di cui parla Ferroni nell’Introduzione, rivela a poco a poco la sua esistenza come amico, interlocutore, profondo conoscitore dei moti dell’animo del figlio del farmacista

Per spiegare meglio, io che così spesso vivo insieme con lui, posso dire un piccolissimo esempio: ieri eravamo, così, a parlare nella saletta che gli fa da studio […]. (pag. 66)

Talvolta è onnisciente trascrittore dei suoi pensieri:

Il figlio del farmacista lo guarda che esce e ne ha pietà e lo deride, e lo compatisce e dice dentro di sé: “come gli altri uomini poi morirà” e ritorna nel retro farmacia; lentamente riprende a passeggiare, un po’ svogliato. (pag. 17)

Almeno in una occasione io narrante e lui narrato si sovrappongono completamente sull’onda dell’emozione:

Ma nel descrivere il padre troppe immagini, ricordi, idee mi assalgono e mi vincono, e io non posso dire in misura giusta e chiara il padre; vorrei, ecco, che l’aveste conosciuto, allora vi direi: «Vi ricordate?» e voi vi accorgereste che egli è un uomo di quelli che non si dimenticano […] (pagg. 37-8)

Ma in ogni caso, che il narratore sia un’estroflessione del figlio del farmacista, che è Mario Tobino, nessun lettore può dubitare, e dunque ci si chiede il perché di un’autobiografia in cui è assente il pronome io del nome Mario. La ricerca dell’identità è forse ancora in atto, forse si sta raccontando la fase in cui il figlio sta per realizzare la sua individualità come separazione, oppure – al contrario – si intende affermare che la propria identità è stabilita una volta per tutte dall’essere figlio di quel padre, orgogliosamente e amorevolmente descritto.

Suo padre è un uomo bellissimo, il suo volto è quello degli uomini sinceri, di quelli che conoscono le semplici ed eterne leggi della vita. (pag. 34)

Non credo che le due ipotesi si escludano, né per Tobino, né per il lettore. E penso che la prospettiva della terza persona intenda sottolineare di questa narrazione l’aspetto di Commentario, di raccolta cioè di materiali immagini sensazioni, che possano essere utili per un ri-uso successivo. Una sorta di compilazione ordinata per futuri sviluppi poetici e per un altro libro. Penso che questa scrittura così semplice e pulita – nella scelta delle parole, nelle descrizioni nitide, nella sintassi poco elaborata, nella preferenza per il discorso indiretto – abbia come modello la terza persona di Cesare. Come esempio l’inizio di alcuni capitoli:

Il figlio del farmacista ritorna a scuola, va a Bologna: un altr’anno sarà medico.

In treno c’è gente che respira perché dorme, la pelle dei viaggiatori luccica per l’unto; è mattina presto. Il figlio del farmacista trova posto in un vagone […]. (Cap. II, pag. 21)

Il figlio del farmacista oggi è andato a scuola, a Clinica medica, per arrivarci bisogna camminare tutta la via Santa Vergine, umida e fredda […]. Il figlio del farmacista passa davanti a Clinica Santa Genoveffa, sul portone c’è uno stemma che ha un colore blu bagnato molte volte; continua i passi e, arrivato al cancello che fa penetrare nelle Cliniche Riunite, entra. (Cap. III, pag. 27)

Il figlio del farmacista è di nuovo in farmacia, con suo padre, a lavorare. (Cap. V, pag. 34)

Oppure una frase presa a caso nel corpo dell’ultimo capitolo:

Il figlio del farmacista si parte dalla sua camera e va al reparto numero 8 percorrendo i porticati nel silenzio, risuonano i suoi passi per le arcate. (pag. 89)

Nel suo personale commentario Tobino rende conto dell’impresa di essere cresciuto, di essere partito, e di essere diventato medico (e non farmacista). L’orgoglio è implicito nella esibita umiltà di non nominarsi e di guardarsi dall’esterno: il distacco si consuma nella nuova professione. Ma Tobino deve rendere conto di qualcosa di più urgente: si giustifica della follia di voler andare in manicomio a dialogare con i matti in attesa della poesia.

Da che cosa si sia lasciato prendere il figlio del farmacista per abbandonare tutto il resto e venire in manicomio lo so bene. È per la solita poesia, per lei, perché in un manicomio così fatto come questo, egli ha pensato che può ella venire a lui, essendo qui silenzio, la campagna intorno avendo sentieri per cui essa può camminare, il cielo essendo così che in quello possa volare; potendo in questo manicomio il figlio del farmacista, solo, tutto il giorno o quasi stare in attesa di lei, lei gelosa che non si avvicina al denaro che luccica avido, né alla distraibile città, lei qui ha pensato il figlio del farmacista che possa venire,  le ha come preparato il nido tiepido di piume, a lei che ama sì stare nella festa ma il suo terreno, il volo è solito partirlo da un pensieroso dolore, da una laboriosa, brulicante attesa, le quali cose naturalmente si compiono in un manicomio fermo tra la campagna. (pagg. 92-3)

In quel tempo

Il libretto racchiude un mondo ordinato in cui, nonostante il baluginare sullo sfondo dell’ingiustizia, risulta semplice trovare il senso delle cose e la fiducia nella vita. Leggere queste pagine è come ritornare a qualcosa di già sentito, di familiare, ad una cadenza e ad un sorriso che una momentanea arrabbiatura non può oscurare. La ripetizione costante del sintagma figlio del farmacista, che varia da soggetto a complemento indiretto, non è mai litania: è ritmo che fa assentire il capo, è battito che fa vivere la pagina, è anafora che fa ricominciare. Si risentono in questo primo Tobino le letture dell’infanzia di un tempo antico e la toscanità genuina che non è quella degli stenterelli, ma ciò che vive nelle persone e non è artificio. Si sente la forza della giovinezza e la fiducia nel presente e nel futuro. Si sentono gli influssi letterari nelle anastrofi e negli iperbati, l’eco dell’asciuttezza dell’amato Machiavelli, e ci sono forse «i sereni animali/ che avvicinano a Dio» di Saba

Che infatti in quello che si vedeva, di due gatti che schermagliavano, c’era come un’essenza, un comune fondo del mistero del nostro vivere, che meglio si vede negli animali non ingombrati da pensieri come è l’uomo il quale con pensieri può correre si per la strada di Dio, ma anche, per quelli, ritorcersi acido se l’amore non soffia […] (pag. 80)          

E forse dal relativismo pirandelliano di Così è (se vi pare)

Se questo è giusto oppure falso, o se invece, come accade sempre alla fine delle accese discussioni, il giusto è il giusto mezzo, io non lo so. Per me posso solo rispondere con sicurezza su certe cose e soltanto su quelle: così, se uno mi domanda se siamo di mattina o di dopopranzo, io, in questo momento rispondo «di mattina» perché è la verità […] (pag. 45)

si sconfina nell’atmosfera rarefatta, straniante e sorprendente nella sua apparente ingenuità, del realismo magico

Se poi qualcuno vuole che esca dai sempre egoistici esempi personali, posso dire del paradiso terrestre dei marchigiani e dei toscani, i quali toscani morendo, se vissero da onesti, vanno, da morti, nel paradiso terrestre che sono le Marche […]; i marchigiani invece che non furono sì bizzarri e luminosi come i toscani vanno a vivere, da morti, nel paradiso terrestre toscano […]. Al confine infatti, tra Toscana e Marche, dove c’è lo scambio dei morti, sempre si sentono esclamare i toscani a vedere la terra marchigiana […] (pagg. 45-6)                      

Quello che non c’è in questo libro è il fascismo, le leggi razziali, la guerra. E non ci sono proprio perché saranno in altri libri, in quelli in cui si sarà depositata tutta la vicenda successiva alla giovinezza. Questo libretto è la Vita nuova di Tobino, la sua Beatrice è la poesia, qui si raccoglie ciò che è concluso. Altri libri racconteranno le altre storie sganciate da questo tempo in cui c’è la farmacia, il paese, il mare, un giovane alla ricerca del suo posto nel mondo. Noi che oggi leggiamo sorridiamo alla favola del tempo passato, quello che non c’è più, in cui un farmacista fa le cartine, pesando antipirina e fenacetina, o le specialità dopo avere lavato le bottiglie; quello in cui uno psichiatra non ha psicofarmaci e l’unica possibilità che ha di riportare i “matti” nella realtà è entrare in relazione con loro, ascoltandoli e parlando la loro lingua. Ma tutto questo non basterebbe se fortissimo in questo libro non si sentisse l’umanità, la dignità dell’uomo come essere pensante

Però, però soltanto, del pensiero solo, dei pensieri amati che ci fanno vivi, che ci fanno uomini, che ci accompagnano, che fanno la nostra mente, che li fa, simile a questo cielo che respiro, celeste oppure nerazzurro come il manto della notte, dei pensieri soltanto non c’è da temere, ma anzi più ci si intride in quelli e più diventano nostra carne, nostra più profonda radice, volo. […] E allora che mi importa di tutto il resto? il mio pensiero, egli fa giri, fa spire, si ammalia, rivola; e tintinna, batte, aggredisce; e diventa e diventa; e mi accompagna, mi vive, mi brulica, mi canta; e felice mi rende, nel silenzio di questa isola che mi ospita; egli in me riposa e respira e con me, fatto di me, libero e lento, conversa e parla e si svolge, e i suoi precedenti trasfigura, e soffia infine nel mio spirito un respiro di Dio. (pag. 82)

Leggere questo libro ci riporta al desiderio di una lentezza magica e di un pensare libero, all’attesa fiduciosa del futuro, a quell’altro mondo che forse non c’è più.

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