Perché leggere “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell’antico scherzo, spingere un’altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall’incendio.
Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti dalla fiamma.
“Fahrenheit 451” nasce nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, dall’incontro fra l’indole libertaria di uno scrittore e il pesante clima culturale e politico di quegli anni.
Bradbury guarda con preoccupazione al clima di caccia alle streghe instaurato dal maccartismo e comprende il rapporto perverso che potrebbe nascere fra censura delle idee e propaganda attraverso i “nuovi media” audiovisivi (il cinema, come insegnava la recente esperienza dei totalitarismi, e la nascente televisione). Fra gli scrittori dell’epoca, esisteva una diffusa sensibilità per questi temi, ed erano apparse numerose storie di ispirazione e struttura differente, accomunate da un’intelligente denuncia di vecchie e nuove forme di oppressione. Le più conosciute, oggi, sono certamente quelle di Huxley (“Il mondo nuovo”, 1932) e Orwell (“1984”, 1949). Le più originali, anche dal punto di vista letterario, quelle di Zamjatin (“Noi”, 1924) e Simenon (“Le Finestre di fronte”, 1933).
Da questo fertile ambiente culturale, che si esprime prevalentemente con le immagini e il linguaggio della fantascienza, emerge il romanzo di Bradbury. Una lettura che a distanza di quasi settant’anni non perde minimamente il suo fascino e il suo interesse, per diversi motivi.
Perché è un’avvincente riflessione sulla memoria e sulla storia
Nel mondo in cui vive il protagonista Montag, la felicità viene intesa come rinuncia all’identità individuale e confusione nella massa: a questo risultato si arriva però più attraverso la persuasione che attraverso la violenza. Come scriverà Bruno Betthelheim, scampato a Dachau e Buchenwald, nel suo “Il cuore vigile” (1960), una società consumistica che dissimula i meccanismi coercitivi dei campi nazisti.
A rendere possibile e anzi desiderabile una simile idea di ”felicità” è prima di tutto una visione manipolata della storia, ottenuta tramite la cancellazione delle differenze e dei conflitti. A questo servono il fuoco e il lavoro dei pompieri, che si incaricano di bruciare i libri.
Lo ricordano al protagonista, che inizia a sentire la voce della sua coscienza, i due colleghi che gli citano il Regolamento dei Vigili del Fuoco, poco prima di distruggere una casa piena di volumi, mentre assistono compiaciuti alla morte volontaria della padrona di casa, che si immola come vittima sacrificale nel rogo dei libri che ama.
Si decise, nel 1790, di dare alle fiamme, nelle Colonie, tutti quei libri che si rivelassero influenzati dagli Inglesi.
Primo incendiario: Benjamin Franklin.
Regola:
N. 1. Rispondere alla chiamata d’allarme immediatamente
N. 2 Appiccare subito il fuoco
N. 3 Bruciare tutto scrupolosamente
Glielo spiega in un discorso colto e retorico il suo superiore e la sua Nemesi, Beatty, che ha capito la sua inquietudine e cerca di aiutarlo a restare fedele alla sua missione di incendiario:
Quando ha avuto origine questo nostro lavoro, tu vuoi sapere, non è vero? Come si determinò, e dove e quando? Bene, a dirti la verità, sembra che abbia avuto inizio dopo un certo evento chiamato Guerra di Secessione. Ma il nostro Regolamento sostiene che la milizia del fuoco sia stata fondata anche prima. Il fatto è che la società non ha vissuto bene che quando la fotografia ha cominciato a vivere di vita propria. Poi … il cinematografo nella prima metà del ventesimo secolo. La radio, la televisione. Le cose cominciarono allora ad avere massa.
(…)
Immagina tu stesso l’uomo del diciannovesimo secolo coi suoi cavalli, i suoi cani, carri, carrozze, dal moto generale lento. Poi, nel ventesimo secolo, il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo.
Il percorso del protagonista verso se stesso comincia con il mettere in discussione la storia ufficiale, ritrovando il gusto della differenza e del pensiero non conformista: la sottrazione e il possesso illegale di alcuni libri rispondono a questo bisogno di autenticità e di senso, in una fuga che è prima di tutto mentale e psicologica.
L’incontro con Clarisse, una ragazza libera da pregiudizi e paure, apre ad un impietoso confronto con la realtà del suo matrimonio con Mildred, vittima rassegnata della propaganda e degli stereotipi di regime.
Il culmine tragico della vicenda, l’omicidio del suo superiore e mentore Beatty, simboleggia la morte di quella parte di se stesso che aveva creduto alla propaganda del regime, e dà inizio invece ad una fuga reale, fisica, in un percorso di purificazione che porterà Montag al recupero della propria memoria e di quella collettiva.
Bradbury costruisce una simbologia molto vivida, in ogni momento della sua narrazione: così, la fuga è segnata dall’acqua del fiume che conduce il protagonista dalla città verso il bosco, lavando letteralmente via dal suo corpo e dalla sua anima i segni del fuoco che fin lì l’aveva bruciato. In una direzione significativamente opposta a quella che ci si sarebbe aspettati, la civiltà non si trova muovendosi dalla natura alla città, ma esattamente all’opposto: abbandonando la città per tornare ad essere naturali.
La nuova comunità nella quale il nuovo uomo entrerà ha una missione tanto semplice quanto vitale: conservare e trasmettere il patrimonio che si vorrebbe cancellare, imparando a memoria i libri. Diventando uomini-libro.
Sarà Granger, il nuovo mentore d Montag, a definire con chiarezza questa missione:
E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra.
Nelle pagine conclusive del romanzo si saldano, infatti, il riscatto individuale dell’eroe e l’inizio della sua nuova missione, che condividerà con la comunità dei “ricordanti”.
Proprio mentre la bomba – la paura collettiva più forte di quegli anni – distruggerà la città del fuoco, le persone che ricordano a memoria i libri porranno le basi per ricostruirla su nuove fondamenta.
Un’utopia, questa, ancora attuale.
Perché parla del rapporto fra finzione e felicità
La distopia immaginata da Bradbury è fondata su un’attenta politica di negazione dell’ascolto di sé e degli altri, e di emarginazione di qualsiasi forma di dubbio e riflessione critica. I principi di questa politica vengono enunciati più volte nel corso della narrazione. Non è possibile non vedere che l’autore ne riscontra la presenza nel mondo reale che lo circonda, e mette il lettore sull’avviso circa le conseguenze della loro diffusione.
È sempre Beatty, incarnazione del lato oscuro dal quale il protagonista cerca di liberarsi, a definirne il significato profondo:
Se non vuoi un uomo infelice per motivi politici, non presentargli mai i due aspetti di un problema o lo tormenterai; dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno. Fa’ che dimentichi che esiste una cosa come la guerra. (…) Offri al popolo gare che si possano vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell’Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l’anno passato. Riempi loro i crani di dati, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri di essere “veramente ben informati”: Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi.
Veicolo di questa rivoluzione autoritaria – diffusa attraverso l’istruzione e i media – è il passaggio dal leggere al vedere. La società fondata sul divieto di leggere e sull’obbligo di osservare gli schermi condurrà l’uomo, secondo i suoi fautori, alla felicità autentica e ad un senso di pienezza che è infinitamente migliore dell’unica pienezza consentita dal dubbio: non la felicità, ma la ricerca di essa.
La verosimiglianza e il realismo del vedere e delle immagini annulla la distanza fra realtà e finzione, esaltata invece dall’atto di leggere. I libri, afferma ancora Beatty ‹‹non dicono nulla! Nulla che tu possa credere o insegnare. Parlano di persone che non esistono, frutto dell’immaginazione, quando si tratti di narrativa. E se non si tratta di narrativa, sono cose ancora peggiori››.
A questa visione (profetica?), che Bradbury considera un incubo, si oppone una resistenza organizzata. Montag l’incontra per la prima volta nella persona di Faber, un colto intellettuale che lo accompagna nella sua presa di coscienza attraverso parole non meno ispirate di quelle di Beatty, ma dal significato esattamente opposto:
Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che state cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film, e nei vecchi amici. Cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c’è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci.
Da quest’incontro e da queste parole, l’eroe del romanzo trarrà forza e convinzione per uccidere il suo nemico e la sua proiezione tecnologica (il Segugio Meccanico, altra presenza dal forte valore simbolico), fuggire, approdare alla comunità dei ricordanti.
La storia di Bradbury dà voce a una riflessione profonda ed attuale: sul rapporto fra informazione e conoscenza, sulla fragile linea di confine fra realtà e finzione, sul ruolo della tecnologia nella costruzione delle identità e delle persone. La sua distopia apocalittica sembra una trascrizione finzionale di una concezione diffusa del vedere, efficacemente sintetizzata da Giovanni Sartori nel 1997 in un libro provocatorio: l’homo videns è una degenerazione dell’homo sapiens; il sapere per immagini non ha un reale valore conoscitivo, erode anzi dalle fondamenta le basi della conoscenza autentica.
Perché c’è il film (anzi, ce ne sono due)
Anche senza pensare ad una prossima apocalisse, come insegnanti e intellettuali dobbiamo certamente lottare per fornire a chi ci ascolta strumenti per saper leggere il mondo del vedere; in un circolo virtuoso che consenta alle ragazze e ai ragazzi di comprendere la storia e l’evoluzione delle tecnologie, il ruolo fondamentale che nell’evoluzione del sapere è stato ed è occupato dai libri, la necessità di costruire un ponte e non un muro fra i diversi linguaggi ed approcci conoscitivi.
È il terzo motivo, schiettamente didattico, per leggere questo romanzo appassionante.
Perché, come usano dire gli studenti, “c’è il film”. Addirittura, in base al criterio onnivoro della medialità contemporanea, per cui il patrimonio narrativo filmico è sottoposto continuamente a riletture attualizzanti, ce ne sono due.
Il primo è quello di Francois Truffaut, realizzato nel 1966, in un clima culturale in cui il primato del narrativo letterario si realizza in una trascrizione estremamente fedele degli avvenimenti e dei personaggi del libro. È la prospettiva degli sceneggiati televisivi trasmessi dalla televisione pubblica dell’epoca, stadio embrionale di quella che diverrà la serialità: comunicare fedelmente il valore della storie letterarie, riscrivendole in un linguaggio altro ma complementare, indirizzato al fine comune di allargare il novero degli spettatori senza manipolare (talvolta rendendola irriconoscibile) l’opera originale.
Il secondo, realizzato a Hollywood da Ramin Bahrani nel 2018, è un prodotto che risponde alle logiche commerciali tipiche dell’industria odierna del cinema (e dell’intrattenimento, nella distopia di Bradbury): spettacolo, azione, colpi di scena. Il suo referente non è tanto il romanzo – ampiamente riscritto e “tradito”, inserendo elementi assenti nell’originale ed estranei alla volontà di Bradbury – quanto il primo film che ne fu tratto. Il nuovo “Fahrenheit” si colloca in un contesto culturale dominato dal primato del visivo, che impone forzature narrative e scorciatoie spettacolari rispetto alla storia originale.
Proprio questa complessa rete di rapporti può stare alla base di un lavoro didattico sul romanzo che risponda al bisogno vitale di dare un senso all’esperienza visiva dei giovani, destinata altrimenti a rimanere entro logiche puramente commerciali e coercitive.
Si possono allora percorrere due strade diverse, autonome e potenzialmente convergenti, nello studio di questa storia.
La prima muove dall’analisi del testo letterario e dal confronto con la sua trascrizione (le sue trascrizioni) filmica. Si tratta di un lavoro interno alla dimensione narrativa, centrato sullo studio dei personaggi e del cronotopo, finalizzato ad acquisire/ consolidare conoscenze legate alla materia (ma l’attività può anche essere aperta ad un ambito interdisciplinare), alle abilità di comprensione, ad una prima riflessione sulla specificità dei linguaggi coinvolti e sul loro intreccio.
La seconda ambisce ad uscire all’esterno dello studio narrativo e linguistico, per affrontare la contestualizzazione storica e sociologica dei testi. In questo caso, sono in gioco competenze più fini e complesse, che attengono all’interpretazione critica e alla riflessione soggettiva argomentata. Le necessarie conoscenze storiche (in ambito letterario e storico-culturale) sono prerequisiti, non finalità, di un lavoro di questo genere.
Idealmente, le due proposte possono essere considerate complementari: la prima collocata nel percorso del biennio (anche in prima), la seconda al termine degli studi (non solo letterari).
Le accomuna anche la dimensione tipica di ogni attività di media education: l’organizzazione della classe in gruppi, gli sguardi incrociati su uno stesso oggetto di studio, la socializzazione dei risultati della ricerca.
Nell’uno e nell’altro caso, si tratta non semplicemente di studiare un libro e comprenderne il senso, ma di essere il libro e il suo senso: cos’altro siamo infatti, noi e i nostri studenti, se non una comunità di ricordanti che cerca di salvare il valore della storia e della memoria?
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