La critica, la scienza e l’ermeneutica
È nota la posizione di Gadamer[1], per cui il metodo elaborato dalle scienze della natura non è in grado di comprendere la verità delle discipline dello spirito. Questo tipo di scienze presuppone le nozioni di obiettività e di dimostrabilità che restano estranee alla verità della lettura. Inoltre questa presuppone non già un confronto fra un soggetto distaccato osservatore e un oggetto a lui contrapposto, ma una fusione di orizzonti, una esperienza cioè da cui soggetto e oggetto vengono coinvolti e trasformati.
Però Gadamer parla costantemente di lettura, non di critica, quasi potessero identificarsi. In realtà lettura e critica hanno statuti e funzioni diversi. La lettura è un evento privato. In essa due sono i protagonisti: il lettore (o l’ascoltatore nei casi di lettura ad alta voce a una persona o a gruppo di più persone) e il testo. E poiché il testo non può svolgere una funzione di feedback, le risposte del testo alle domande di senso del lettore dipendono unilateralmente dalle domande e dalle reazioni di quest’ultimo. Nella critica invece il rapporto è a tre; oltre al lettore e al testo, ci sono gli altri lettori del passato e del presente, gli altri critici, le istituzioni educative e culturali. Questi agenti controllano ed eventualmente discutono il significato proposto, avanzano altre domande al testo e quindi altre ipotesi interpretative. Solo considerando questa dimensione sociale della critica, è lecito affermarne il carattere interdialogico.
Mentre la critica presuppone la lettura, quest’ultima non presuppone la critica. La critica deve convincere degli interlocutori, la lettura no. In entrambi i casi, tuttavia, il lettore e il critico formulano ipotesi di senso. Il loro rapporto col testo è comunque non di semplice descrizione, ma sempre anche di partecipazione interpretante. Però, svolgendo anche una funzione suasoria, la critica ha un bisogno di legittimazione, che si manifesta in due modi: il modo scientifico e quello deontologico. Il primo ha a che fare con i protocolli e le procedure della filologia, della semantica e dell’accertamento storico; il secondo, che s’intreccia all’altro, risponde a una esigenza squisitamente etica di rispetto del testo (del suo messaggio, anzitutto) e degli altri suoi lettori. Solo se garantisce tale rispetto la critica può legittimarsi e allontanare da sé la possibilità dell’arbitrio interpretativo. Una interpretazione che non tenga conto del contenuto di fatto di un testo va respinta non solo e non tanto perché viola una procedura scientifica ma perché, non confrontandosi col terreno comune di verifica offerto dalla testualità, impedisce al lettore di partecipare al circolo ermeneutico e al confitto interpretativo.
Proprio per il suo carattere interdialogico la critica, come altre discipline umanistiche, appartiene più al territorio dell’ermeneutica che a quello della scienza. E’ arte della interpretazione con quanto di soggettivo – di partecipazione emotiva e intellettuale – essa comporta. Probabilmente solo nella psicoanalisi si può trovare altrettanta partecipazione interpretante. Nello stesso tempo però la critica non può prescindere da procedure oggettive di tipo scientifico. Essa deve di necessità partire dal riconoscimento della materialità del testo e della sua storia e dal fatto che proprio tale materialità fa del testo un medium sociale che lo rende percepibile nella sua identità a lettori diversi e in tempi diversi. Critico, lettori e testo costituiscono un triangolo comunicativo, un intreccio di significati interdialogici che muove comunque dalla realtà materiale del testo, il quale funziona come medium e terreno comune di verifica. Accertare la semantica storica del testo, approfondire la conoscenza del suo “contenuto di fatto” (come lo chiamava Benjamin) è garanzia non solo di un dialogo reale con il testo, ma della possibilità stessa di un dialogo con gli altri lettori (reali e potenziali) di quel testo e con gli altri critici del passato e del presente. Il ricorso alla citazione – sia del testo che degli altri critici – non rinvia solo alle esigenze del dialogo interprete-testo; è parte anche di un dialogo sociale più ampio che chiama gli altri lettori a una verifica dei significati proposti.
L’interpretazione critica deve misurarsi anzitutto con il commento, e dunque con la datità storica, con i significati letterari e i contenuti materiali e ideologici del testo. Solo così il critico può cercare di ridurre la possibilità dell’arbitrio interpretativo e di legittimare la propria operazione ermeneutica. Sostenere che qualunque interpretazione è una misinterpretazione e che perciò ogni interpretazione è nello stesso tempo legittima e arbitraria, come ha fatto la scuola francese e poi, con particolare rigore, quella americana di De Man, è possibile solo ignorando la intrinseca socialità ed eticità dell’atto critico. L’interprete onesto è consapevole dei limiti della interpretazione, ma non per questo rinuncia a inserirla nel dibattito per l’egemonia che attraversa il corpo sociale. Conosce la distanza che lo separa dal testo e non rinuncia a indurre il lettore è riflettervi, ma nello stesso tempo mette in campo ogni strumento per mediarne i significati rispetto al lettore di oggi e cercare di superarla. Si potrebbe dire che il momento del commento è anche quello della messa in campo di alcune procedure oggettive e scientifiche (si pensi solo, per fare un esempio, all’allestimento di una edizione critica del testo). E tuttavia – questo è il punto – il critico non ignora affatto che l’interpretazione, pur fondandosi sul commento e sui contenuti di realtà del testo, non si identifica con essi; e che fra contenuto di fatto e contenuto di verità (Benjamin), fra commento e interpretazione, non c’è coincidenza. Egli deve trasformare il limite storico, che lo induce di necessità a inserire quel testo in un sistema storicamente determinato, in una soglia da cui sporgersi per indicare al lettore quei significati dell’opera che ne legittimano il valore oggi. In un certo senso compie un’operazione allegorica: dimostra che un testo dotato di un significato storico puntuale significa anche altro e che questo altro ci riguarda.
Però, come avviene appunto nell’allegoria, fra particolare e universale si dà un salto. Fra contenuto di fatto” e “contenuto di verità” (uso ancora la terminologia di Benjamin) non c’è coincidenza, e tanto meno deducibilità scientifica del secondo termine dal primo. C’è un legame dialettico. Dallo stesso commento possono procedere interpretazioni diverse, egualmente legittime. La storia della critica dimostra che le interpretazioni di un testo sono infinite. Ciò non significa però che esse siano illimitate. Non sono accettabili, per esempio, le interpretazioni che non si cautelano dall’arbitrio interpretativo, non tengono conto del controllo della comunità dei lettori e degli altri interpreti e che contrastano con le acquisizioni del commento e cioè della semantica, della filologia e della storia. E infatti la critica accetta sì la scommessa – al fondo, etica – di fondare la interpretazione e il “contenuto di verità” sul “contenuto di fatto” di un’opera, ma sa che i significati che elabora dipendono anche dalla propria formazione individuale, dalla situazione storica in cui vive e dalle prospettive politiche e culturali della propria comunità o gruppo sociale. Siamo davanti al limite della critica, alla sua contraddizione genetica. La critica, pur aspirandovi, non può mai dichiarare la verità ultima di un testo; pur tendendo all’universalità, è condannata alla parzialità. Ma questa – allegorica, appunto, dunque relativa, parziale e pragmatica – è la natura della conoscenza dei testi. L’umiltà è connaturata alla critica non meno dell’orgoglio.
Neppure si può dire, con Hirsch, che esiste un significato autentico, e che questo è quello voluto dall’autore. Anzitutto perché in ogni composizione artistica l’inconscio ha comunque un’importanza, a volte decisiva a volte meno. Non sempre, come sappiamo, l’autore è il migliore interprete di se stesso. Ma poi perché nel momento stesso in cui si rivela, nel corso della lettura, il senso letterale dell’opera, si palesa anche immediatamente e indissolubilmente lo spettro dei suoi significati simbolici. Il senso si attualizza di necessità attraverso la collaborazione del lettore. Non è perciò possibile ricostruire il significato “vero” voluto dall’autore, separandolo e così distinguendolo da quello che esso viene ad assumere per noi. In qualsiasi ipotesi di senso il lettore è comunque implicato.
Qualsiasi lettura e qualsiasi operazione critica formulano, anche tacitamente all’inizio, una ipotesi di senso. Il lettore e ancor più il critico non constatano semplicemente dei significati, ma li costruiscono a mano a mano che procedono nella lettura e nella interpretazione e dunque li elaborano muovendo dalla dimensione testuale e anzitutto da quella letterale. Per questo è giusto usare l’espressione “ipotesi di senso”, per sottolineare anche il suo carattere processuale e mai statico (anzi, come si sa, ogni nuova lettura può modificare la interpretazione). Il critico per legittimare tale ipotesi deve collegarla a una congettura storica, vale a dire a un’ipotesi genetica. Cerca cioè di ricondurre l’ipotesi di senso all’interno di una interpretazione storica, con riferimento sia alla storia interna del testo (come fa, per esempio, la cosiddetta “critica genetica”) , sia alla storia esterna ricollegandolo alle condizioni sociali e culturali e alle forme dell’immaginario dell’epoca in cui è stato prodotto. Il significato del testo viene così inserito in una costruzione di senso più vasta che riguarda una intera epoca storica. Ciò serve a ridurre l’arbitrio interpretativo o comunque a permettere al lettore di controllare su un altro versante – quello storico – l’ipotesi di significato verificata precedentemente sul versante dei contenuti di fatto e dell’accertamento filologico. A loro volta poi interpretazione del testo e interpretazione dell’epoca si sorreggeranno a vicenda in una visione della storia in cui, di nuovo, il rispetto filologico del dato e il momento della sua valorizzazione e attualizzazione, scienza ed ermeneutica insomma, sono inseparabili.
Bisogna registrare tuttavia che il critico ha una libertà di movimento che resta estranea al rigore procedurale dello scienziato, e il suo intervento nella valorizzazione e attualizzazione del testo mantiene un carattere soggettivo ignoto all’approccio delle scienze della natura, mentre lo stesso ricorso alla interdisciplinarità (per esempio, alla psicologia e alla psicoanalisi o alle componenti strutturali e linguistiche di tipo simmetrico) allontana la critica dal rigore monodisciplinare delle cosiddette (un tempo) scienze esatte. D’altro canto la storicizzazione stessa non è una descrizione oggettiva e neutrale: è anch’essa interpretazione, cioè costruzione e donazione di significato, scommessa sul senso possibile di un periodo storico – possibile, si badi, ma niente affatto scontato o scientificamente certo o accertabile -.
D’altronde, se, da una parte, nella contemporaneità, l’istituto della critica letteraria si è sfrangiato e indebolito, dall’altra anche la nozione di scienza, dopo la crisi del positivismo e dello scientismo strutturalistico novecentesco, e nonostante i tentativi di rilancio in senso cognitivistico, è diventata più elastica e problematica, meno rigida e più aperta al problematicismo e al relativismo. E’ auspicabile perciò che la sua convivenza con l’ermeneutica sia oggi più agevole che in passato. Infine la stessa tendenza alla interdisciplinarietà che qualifica da sempre il genere “saggio” è la modalità più comune di espressione della critica letteraria. Per sua natura e vocazione, è stato detto, il saggio è «la forma interdisciplinare per eccellenza»[2] .
D’altro canto il saggio ha per proprio fine intrinseco la subordinazione delle procedure scientifiche alle esigenze della interpretazione complessiva e dunque dell’ermeneutica. Quelle procedure le fa proprie, in parte ci si subordina, ma solo per svolgere con maggiore autorità il proprio compito ermeneutico. Anche le due ipotesi da cui il saggio muove e in cui si articola – la ipotesi di senso e la ipotesi genetica – da un lato servono a definire l’opera e il suo periodo storico, a rappresentare il testo in modo più ricco e completo, dunque a conoscerlo meglio e a ridurre perciò l’arbitrio interpretativo, dall’altro si inseriscono consapevolmente in una proposta culturale ed educativa, in un conflitto delle interpretazioni e in una lotta per l’egemonia che si sviluppa grazie anche alle caratteristiche logico-argomentative e dunque suasorie proprie del genere saggistico.
L’ermeneutica è legata alla corta catena dei doveri comuni. Accetta pienamente il terreno della relatività dei valori e la pratica di scrittura saggistica che ne deriva. Sa che la libertà dell’ermeneutica non va confusa con l’arbitrio e perciò va vincolata ai dati oggettivi della conoscenza testuale e storica e alla possibilità di verifica dei lettori; che l’interruzione di senso o l’impossibilità di una sua verifica nella catena interprete-testo-lettori comportano una responsabilità pubblica perché concernono la possibilità stessa d’intesa fra gli uomini.
Infine l’ermeneutica, in quanto disciplina dell’ascolto e del dialogo, è anche disciplina della comprensione dell’altro e perciò pone il problema della democrazia come interlocuzione, tolleranza, riconoscimento del “diverso”. Non ignora dunque che la civiltà del dialogo che essa postula è tutt’altro che realizzata non solo su scala mondiale ma nell’Occidente stesso, e che la democrazia stessa oggi versa in una situazione di particolare pericolo. Ciò dovrebbe costringere l’ermeneutica (anche se oggi la critica sembra dimenticarsene) a denunciare il carattere conciliatorio di ogni concezione del dialogo che ignori i conflitti reali e l’esistenza di condizioni materiali che di fatto ne rendono aleatoria o impossibile la realizzazione; e ad assumere la propria parzialità in modo consapevole, facendo del dialogo uno strumento di conflitto. La libertà di cui gode è un privilegio sempre più asfittico e per di più minacciato non tanto (almeno sinora) da una repressione politica quanto dalla insignificanza sociale. Ancora per un lungo periodo, temo, il dialogo sarà costretto a convivere con le forme del conflitto.
[1] Articolo uscito in L’amorosa inchiesta. Studi di letteratura per Sergio Zatti, a cura di S. Brugnolo I, Campeggiani,L. Danti, Franco Casati editore, Firenze 2020.
[2] R. Ceserani, Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, Bruno Monddori, Torino 2010, p. 12.
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I limiti della mia interpretazione
“La storia della critica dimostra che le interpretazioni di un testo sono infinite. Ciò non significa però che esse siano illimitate”. Non comprendo il significato di questa affermazione. ‘Infinito’ vuol dire ‘esente da limiti’ (non finito, appunto). Come può dunque qualcosa essere infinito ma non illiminato? Se ho compreso quello che vuol dire Luperini, forse un modo più preciso per esprimerlo sarebbe: “La storia della critica dimostra che le interpretazioni di un testo sono innumerevoli (o incalcolabili). Ciò non significa però che esse siano illimitate”.
Vincenzo Politi