Una conoscenza inutile? Due poesie di Charlotte Delbo per il Giorno della Memoria
SPECIALE LN – GIORNATA DELLA MEMORIA 2021/#5
(Concludiamo con con questo contibuto di Gabriele Cingolani il ciclo per la Giornata della Memoria 2021)
Una donna fra resistenza, deportazione e memoria
Parigi, marzo 1942. Le Brigate Speciali, il corpo di polizia specializzato nel combattere i «nemici interni» nella capitale occupata, realizzano una operazione volta a sgominare la Resistenza antinazista. È in quella occasione che vengono catturati un dirigente del Partito Comunista Francese e sua moglie, che operavano in clandestinità. Lui si chiamava Georges Dudach; lei era Charlotte Delbo, una donna nata da una famiglia di origini piemontesi che aveva conosciuto suo marito nella Gioventù Comunista e con lui divideva la vita fra studio e lotta politica. Da pochi anni era anche diventata assistente del grande attore e regista Louis Jouvet, e lo aveva accompagnato nelle sue tournée in America Latina. Quell’anno, Charlotte non aveva ancora compiuto trent’anni. Il 23 maggio Georges e Charlotte si vedono per l’ultima volta: lui viene fucilato il giorno stesso, lei rimane prigioniera degli occupanti nazisti e il 24 gennaio 1943 è caricata insieme ad altre 230 donne su un convoglio diretto ad Auschwitz-Birkenau, dove arriva il 27, due anni esatti prima della liberazione del campo. Lì viene assegnata al Block 26 insieme alle prigioniere ebree polacche. Successivamente sarà trasferita a Ravensbruk fino alla sua liberazione, avvenuta il 23 aprile 1945.
Charlotte Delbo comincia a scrivere i suoi ricordi di prigionia già nel 1946, ma non pubblica quasi nulla (appena un paio di brevi novelle su delle riviste svizzere) fino agli anni Sessanta, quando nel giro di un decennio pubblica tutte le sue opere più importanti. Probabilmente in lei si è compiuta, almeno parzialmente, l’elaborazione del trauma personale; d’altro canto, il clima generale nei confronti della memoria della Shoah è cambiato e c’è un maggiore interesse a leggere e capire la drammatica esperienza dei campi di sterminio. A questo si aggiunga il riaccendersi della passione e dell’impegno politico dell’autrice in occasione della guerra d’Algeria, quando Delbo si schiera decisamente per l’indipendenza del paese africano; un elemento, questo, decisivo nel definire il tono delle sue opere memoriali, mai ripiegate sul vittimismo ma volte a cogliere il valore universale, e attuale, della denuncia della barbarie nazista, da cui il mondo non si è certo liberato con l’apertura dei cancelli di Auschwitz. Un solo esempio: nel volume del 1970 Une connaissance inutile (Una conoscenza inutile, secondo episodio della trilogia Auschwitz et après, capolavoro di Delbo in cui si ripercorre tutta l’esperienza concentrazionaria e la memoria di essa), l’autrice ricorda un episodio dell’estate del 1942, quando è ancora nelle carceri parigine ed è testimone della esecuzione di quattro attivisti che avevano provato a suscitare una insurrezione al mercato di rue de Buci, nel Quartiere Latino. Il capitolo, che nella pagina finale descrive i drammatici momenti dell’esecuzione (i condannati cantano la Marsigliese davanti al patibolo e le loro voci sono troncate, una alla volta, dalla lama della ghigliottina), riporta in conclusione, senza commento, un brano di giornale del 1960 che descrive una scena pressoché identica, ma di cui questa volta è protagonista un patriota algerino condannato a morte e decapitato a Lione. Le riflessioni sul parallelismo sono lasciate al lettore, ma la posizione dell’autrice è inequivocabile.
Una memoria, mille voci
È dunque a partire dagli anni Sessanta che Charlotte Delbo pubblica le sue opere più importanti, fra le quali segnaliamo Le convoi du 24 janvier (Il convoglio del 24 gennaio), tentativo di ricostruire la vita e il destino di ciascuna delle 230 donne che con lei sono state deportare ad Auschwitz; poi la già citata trilogia Auschwitz et après (Auschwitz e dopo), la sua opera più impegnativa, che in tre volumi di prose intessute di inserti poetici racconta la sua deportazione e le vicende del ritorno; o anche la pièce teatrale Qui rapportera ces paroles? (Chi riferirà queste parole) in cui le ventitré attrici sul palco raccontano la loro storia e, a una a una, scompaiono dalla scena (di queste opere solo Nessuno di noi ritornerà, primo volume della trilogia Auschwitz e dopo, è stato pubblicato in Italia, dalla casa editrice Il Filo di Arianna di Bergamo, presso la quale sono uscite anche due opere minori: Spettri, miei compagni e Kalavytra dalle mille Antigoni).
Già da questi pochi riferimenti bibliografici emergono due punti fermi della poetica di Delbo: in primo luogo una attenzione particolare al mondo femminile e alla sua specificità all’interno delle vicende dello sterminio nazista, e secondariamente la volontà di mantenere sempre uno sguardo corale che, senza perdere l’attenzione e la pietas verso il singolo, metta l’accento sulla vastità incommensurabile della tragedia in cui lei e le sue compagne si sono trovate coinvolte. Un elemento, quest’ultimo, già messo in evidenza dal titolo dato alla mostra che in tempi recenti ha riportato l’attenzione italiana ed europea su questa scrittrice: Une mèmoire à mille voix / Una memoria, mille voci[1].
Si legga, a titolo di esempio, una delle poesie che puntellano le prose di Une connaissance inutile, immaginata come un epitaffio per alcune delle compagne di prigionia cadute (fra le quali Yvonne Picard, studentessa di filosofia di 23 anni, con Charlotte nel convoglio del 24 gennaio), dietro le quali possiamo intravedere tutte le donne morte nei Lager e quelle che, come la stessa Charlotte, pur ritornate non hanno più riavuto indietro la vita di prima (mancando una traduzione italiana a stampa, ai testi originali di tutte le poesie di Delbo citate si affianca una traduzione di servizio, a cura dell’autore di questa nota):
Yvonne Picard est morte qui avait de si jolis seins. Yvonne Blech est morte qui avait les yeux en amande et des mains qui disaient si bien. Mounette est morte qui avait un si joli teint une bouche toute gourmande et un rire si argentin. Aurore est morte qui avait des yeux couleur de mauve.
Tant de beauté tant de jeunesse tant d’ardeur tant de promesses… Toutes un courage des temps romains.
Et Yvette aussi est morte qui n’était ni jolie ni rien et courageuse comme aucune autre. Et toi Viva et moi Charlotte dans pas longtemps nous serons mortes nous qui n’avons plus rien de bien.[2] |
È morta Yvonne Picard
che aveva seni così dolci. È morta Yvonne Blech che aveva occhi a mandorla e mani che sembravano parlare. È morta Mounette che aveva una carnagione così bella una bocca avida di tutto e un sorriso così argentino. È morta Aurore che aveva occhi color della malva.
Tanta bellezza tanta gioventù tanto ardore tante promesse… Tutte con un coraggio da antichi romani.
E anche Yvette è morta che non era né carina né niente e coraggiosa come nessuna. E tu Viva e io Charlotte non passerà molto e saremo morte anche noi noi, che ogni bene abbiamo perduto.
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Una conoscenza utile: Levi e Delbo
Primo Levi aveva letto Charlotte Delbo. In una pubblica conferenza del 1976, poi trascritta e pubblicata, lo scrittore parla, come tante altre volte, dell’urgenza di raccontare che in lui era stata vivissima già nel Lager, e dice:
Speravo, speravamo, di vivere «per» raccontare quello che avevamo visto. Il desiderio non era solo mio, era di tutti e si rifletteva in forma di sogno, lo stesso in molti; recentemente mi è capitato di leggerlo anche nel libro di una deportata francese. Nel primo si sognava il cibo […]. L’altro sogno era quello di raccontare, in genere a una persona cara; ma anche qui l’atto non andava a termine.[3]
Il lettore di Levi ritrova qui l’eco di passi molto noti della sua opera: il capitolo Le nostre notti di Se questo è un uomo, il finale de La tregua, le prime pagine de I sommersi e i salvati… ma resta probabilmente spiazzato di fronte all’accenno alla deportata francese senza nome. Elisabetta Ruffini, la studiosa che probabilmente più di ogni altra ha contribuito a far conoscere Delbo in Italia, ha dimostrato[4] che si trattava proprio dell’autrice di Una conoscenza inutile, la quale affronta il tema del sogno, della memoria e del racconto in più punti della sua opera e in particolare lo fa in maniera molto intensa nella suite di poesie che chiude la seconda parte di Auschwitz e dopo. Ma se i temi sono simili a quelli leviani, e forse non potrebbe essere altrimenti vista l’esperienza estrema che li accomuna, i risultati sono significativamente diversi. In Delbo l’accento non è tanto sulle conseguenze morali della «memoria inutile», e sullo strazio del sopravvissuto che non viene ascoltato o creduto, quanto piuttosto sul difficile percorso di ricostruzione del sé del sopravvissuto (un tema che Levi ha sempre trattato con pudore e più che altro per allusioni), che dopo il Lager non si sentirà più a casa in nessun posto («et je ne sais plus quel est vrai / du monde-là / de l’autre monde-là-bas / maintenant / je ne sais plus / quand je rêve / et quand / je ne rêve pas»; «e non so più quale è vero / se questo mondo / o quello laggiù / ora / non so più / quando sogno / e quando / non sogno»). Anche la «conoscenza inutile» del titolo non rimanda soltanto all’incapacità degli altri di capire e di fare tesoro del monito di Auschwitz, quanto al fatto che per prima cosa quella conoscenza non soccorre il testimone stesso; non gli basta ad elaborare il suo trauma e superarlo: «Alors vous saurez / qu’il ne faut pas parler avec la mort / c’est une connaissance inutile»: «allora voi saprete / che non bisogna parlare con la morte / è una conoscenza inutile»). In una delle sue poesie più intense, Delbo si rivolge alle donne e agli uomini che non hanno vissuto l’esperienza del Lager (e quindi, in definitiva, anche a ciascuno di noi), descrivendoli con un misto di invidia e di ammirazione, nella loro apparente sicurezza senza pensieri. In fondo, anche lei vorrebbe essere una di loro, passare per via e bere sulle terrazze a primavera, magari innamorarsi… vivere, insomma; ma la frattura che si è generata in lei glielo impedisce. Se la conoscenza è inutile per lei, perché non può in alcuno modo risarcirla di quanto le è stato sottratto, può diventare molto utile però per gli altri, per chi vive senza nemmeno rendersi conto della rara e preziosa circostanza di avere un corpo che risponde ai comandi e la libertà di decidere del proprio destino. Sapere che per altri non è stato così, e sentire in profondità questa ingiustizia, deve servire da monito e da stimolo a tutti, affinché nessuno sprechi la sua vita, ma anzi la viva intensamente, onorando in questo modo chi l’ha perduta. La poesia di cui stiamo parlando si intitola Prière aux vivants pour leur pardonner d’être vivants (Preghiera ai viventi per perdonare loro di essere vivi), e possiamo immaginare che non abbia lasciato indifferente il Primo Levi lettore dei libri di questa deportata francese e autore, tanti anni prima, di Shemà, che si apriva con quell’identica allocuzione: «Voi che…»…
Vous qui passez
bien habillés de tous vous muscles un vêtement qui vuos va bien qui vous va mal qui vous va à peu près vous qui passez animés d’une vie tumultueuse aux artères et bien collée au squelette d’un pas alerte sportif lourdaud rieurs renfrognés, vous êtes beaux si quelconques si quelconquement tout le monde tellement beaux d’être quelconques diversement avec cette vie qui vous empêche de sentir votre buste qui suit la jambe votre main au chapeau votre main sur le coeur la rotule qui roule doucement au genou comment vous pardonner d’être vivants… Vous qui passez bien habillés de tous vos muscles comment vous pardonner ils sont morts tous Vous passez et vous buvez aux terrasses vous êtes heureux elle vous aime mauvaise humeur souci d’argent comment comment vous perdonner d’être vivants comment comment vous ferez-vous pardonner par ceux-là qui sont morts pour que vous passiez bien habillés de tous vos muscles que vuos buviez aux terrasses que vous soyez plus jeunes chaque printemps Je vous en supplie faites quelque chose apprenez un pas une danse quelque chose qui vous justifie qui vous donne le droit d’être habillés de votre peau de votre poil apprenez à marcher et à rire parce que ce serait trop bête à la fin que tant soient morts et que vous viviez sans rien faire de votre vie.[5] |
Voi che passate
ben vestiti di tutti i vostri muscoli un abito che vi sta bene che vi sta male che vi sta così così voi che passate animati da una vita tumultuosa nelle arterie e ben attaccata allo scheletro un passo vivace sportivo balordo ridenti musoni, voi siete belli così comuni così comunemente tutti tanto belli da essere comuni diversamente con questa vita che vi impedisce di sentire il vostro busto che segue la gamba la vostra mano sul cappello la vostra mano sul cuore la rotula che gira dolcemente nel ginocchio come perdonarvi di essere vivi… Voi che passate ben vestiti di tutti i vostri muscoli come perdonarvi loro sono morti tutti Voi passate, voi bevete sulle terrazze voi siete felici lei vi ama cattivo umore problemi di soldi come come perdonarvi di essere vivi come come vi farete perdonare da quelli là che sono morti perché voi possiate passare ben vestiti dei vostri muscoli bere sulle terrazze essere più giovani ad ogni primavera Io vi supplico fate qualcosa imparate un passo una danza qualcosa che vi giustifichi che vi dia il diritto di essere vestiti della vostra pelle dei vostri capelli imparate a camminare e a ridere perché sarebbe troppo assurdo alla fine che tanti siano morti e che voi viviate senza far niente della vostra vita. |
[1] Charlotte Delbo. Une mèmoire à mille voix / Una memoria, mille voci, catalogo della mostra con un inedito, a cura di Elisabetta Ruffini, Bergamo, Il filo di Arianna, 2014.
[2] Charlotte Delbo, Auschwitz et après II, III. Une connaissance inutile. Mesure de nos jours, Paris, Éditions de Minuit,2018 (prima edizione: ivi, 1970-71), p. 49.
[3] Primo Levi, Opere, a cura di Marco Belpoliti, I, Torino, Einaudi, 1997, p. 1201.
[4] Elisabetta Ruffini, Charlotte Delbo, un’esperienza didattica, in «Didattica della storia», 2, n. 1S, 2020, https://dsrivista.unibo.it/article/view/11249 (link consultato il 21/01/2021).
[5] Charlotte Delbo, Auschwitz et après II, III., cit., pp. 161-62.
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