Burton, Anatomia della Malinconia, appunti di lettura
In un’ipotetica genealogia del romanzo qualcuno potrebbe mettere come capostipite la storia di uomo naufragato su di un’isola, che grazie al suo ingegno sopravvive (vicenda che il suo autore spacciò come vera pur non essendolo), oppure la storia di un orfanello e delle sue vicissitudini nell’Inghilterra del ‘700, o la lettere in cui una giovane donna racconta come fu ingannata dal ribaldo di turno, oppure il racconto della vita e delle opinioni di un uomo, la cui nascita ci viene raccontata solo a metà del libro in questione; oppure la storia di un cavaliere pazzo e del suo strambo rapporto con la realtà; potrebbe, infine, essere alla radice di questa ipotetica genealogia la storia di due giganti e del loro allegro inferno, altri potrebbero affermare che i romanzi nascono da alcuni libri biblici (Tobia, Ester) oppure dalle satire menippee, dai dialoghi socratici o ancora dal resoconto di una cena di un ricco liberto romano.
A questa rapida e neppure troppo esaustiva carrellata di autori e temi nessuno si sognerebbe di aggiungere un testo di medicina, o presunto tale, che venne pubblicato a metà del ‘600 (la prima 1621, l’ultima e definitiva nel 1651). L’autore, Robert Burton, è un oscuro bibliotecario, scrittore di un unico libro, cui ha dedicato tutta la vita; un libro abnorme, estravagante, composito, tanto citato quanto poco letto per intero, che ha per titolo Anatomia della Malinconia, di cui Bompiani ha pubblicato la versione integrale (a cura di L. Manini e A. Roselli)
L’esperienza di lettura di questo romanzo (lapsus calami che di necessità si registra, lasciandolo alla benevolenza del lettore) libro non può essere e non è normale. Non è testo che si possa leggere dall’inizio alla fine, come un qualsiasi saggio o altro; e si consiglia quindi il metodo adoperato da Samuel Johnson ovvero di leggerne poche pagine al giorno la sera, perché è tale la mole di notizie, di conoscenze, di leggende, di supposizioni, di citazioni di altri testi, di autori, di rimandi, che una decina di pagine al dì possono bastare. Proprio come da prescrizione del Dottore anche noi ci stiamo attenendo a questa quotidiana lettura e seppur non ancora finita, viene da fare un breve resoconto o diario di navigazione tra le pagine.
Uno dei temi più dibattuti del romanzo sin dalle sue origini è appunto lo statuto di chi racconta la storia, di chi la scrive e di chi ne è protagonista. Insomma qual è la maschera che prende la parola del racconto? In Anatomia della malinconia sin dall’inizio il nome dell’autore è celato. Al suo posto – il suo alter ego?, il suo eteronimo?, il personaggio del narratore? – appare una persona che prende la parola, la quale risponde al nome di Democrito Jr.
Ecco l’incipit dell’apostrofe al lettore
Gentile lettore, penso che avrai una viva curiosità di sapere chi sia il buffone, o attore travisato, che con tanta insolenza, irrompe in questo teatro, mostrandosi al mondo intero e assumendo un nome che non è suo; da dove venga, perché stia facendo questo e che cosa abbia da dire. (p.23)
Ora prima di provare a fare un ragionamento su queste righe, bisogna sapere che Anatomia della malinconia non inizia così, ma è annunciata da una serie di strutture paratestuali: a) uno stemma disegnato con dieci riquadri, b) un’esplicazione dell’argomento del frontespizio declinata in 10 ottave, una per ogni riguardo; c) la dedica; d) una serie di distici elegiaci – in latino – che Democrito Jr dedica al proprio libro; e) un Sommario dell’autore, anche in questo caso distici ma in inglese; f) l’appello di Democrito Jr che ha come incipit le parole che abbiamo letto e che intrattiene il lettore per più di 130 pagine.
C’è un eccesso di interpretazione, di struttura, di simmetria, c’è una volontà di mostrare le strutture del libro che viene scritto, una consapevolezza di quello che si sta componendo che non possono essere messe in secondo piano. Burton vuole metterci in guardia dalla sua stessa opera, dalla sua erudizione, come volesse mascherare il più possibile se stesso. Torniamo alle righe iniziali per notare come quelle parole suonino così simili – non tanto letteralmente, quanto per l’intenzione – a certi famosi incipit della letteratura anglosassone (vengono in mente il Dickens di Oliver Twist, il Tawin di Huckleberry Finn e, perché no, il Salinger de Il giovane Holden). In queste prime righe pare mostrarsi chiaramente quello che sarà il movimento anzi il dramma – non è un caso che Burton parli di teatro – che lega autore/narratore/protagonista. L’autore è scalzato da un altro che assume un nome che non è suo; parla di “in vece” di un altro, fa proprio dell’alterità la forma principale della sua narrazione; la scrittura è una sorta di recita (i riferimenti “buffone” e “attore”). Recitare significa mettersi nei panni d’altri. La scrittura del romanzo è un grande facciamo finta, un grande come se, un’ipotesi mimetica in cui ciò che riproduciamo non è, però, la realtà in quanto tale, ma un’ombra della realtà stessa, una sua impronta.
Chi parla in questo incipit? Democrito Jr, il narratore che dice di essere Democrito o Burton? Con una certa approssimazione di verità, si potrebbe sostenere che “il romanziere ‘in carne e ossa’ non è l’enunciatore del suo romanzo. È un personaggio di un altro racconto, per esempio, quello di uno storico, di un critico letterario, di un giornalista venuto a intervistarlo” (Latour), oppure di un bibliotecario del Christ Church College. Citando Pierce potremmo dire che l’autore del romanzo è come una persona che “dice che qualcun altro dice lo stessa cosa che egli stesso dice”.
Democrito Jr è una persona; ora tra le varie ipotesi etimologiche della parola leggiamo che persona potrebbe derivare dal verbo latino ‘personare’, formato da per/attraverso e sonare/emettere un suono. La persona è una maschera che amplifica e fa passare il suono della voce che l’attore emette. In questo senso, non è qui interessante sapere se l’etimo sia corretto (anzi quasi certamente è un’interpretazione erronea, ma le etimologie fantasiose bene si accordano al testo di Burton), quanto rendere visibile la suggestione: Democrito Jr è veramente la per-sona di Bruton, che solo in parte coincide con l’autore.
Rimaniamo su questo parlare “in vece”. Uno dei dati più lampanti è il numero altissimo di citazioni, di cui è costellata Anatomia della Malinconia. L’elenco dei testi citati, nell’edizione che stiamo leggendo, occupa un centinaio di pagine (ogni pagina contiene da un minimo di 20 a un massimo di 30 di titoli). C’è da chiedersi il perché di questo enorme sfoggio di erudizione, che – però – non possiamo ridurre a semplice citazionismo; ogni frase, verso, o pezzo di libro citato, infatti, viene come inglobato, tradotto, nel flusso delle parole di Burton. In questo modo i libri e i loro autori divengono altrettante dramatis personae del racconto che ha per nome Anatomia della Malinconia, anch’essi servono per aumentare il suono della voce di Burton. La citazione, sempre in lingua latina, quindi, non viene semplicemente trascritta ma finisce a far parte del discorso, come se fosse un dialogo tra persone. Prendo una pagina a caso, la 161, e ne copio alcuni stralci
Che accadrà a quanti berranno quattro volte quattro boccali? Nonne supra omnen furorem, supra omnem insaniam reddun inanissimos? Anch’io sono di questa opinione, essi sono più che pazzi , molto peggio dei pazzi.
Gli Abderiti condannarono Democrito perché pazzo, perché a tratti era triste, a tratti smodatamente allegro. Hac patria (dice Ippocatre) ob risum fuere & insanire dicunt, i suoi concittadini lo considerano pazzo perché ride
Come si nota questi due brevissimi esempi, Burton non traduce letteralmente la frase, ma la glossa, la enuclea e la pone all’interno del proprio ragionamento: quasi entrasse in risonanza con essa. Faccio, infine, notare che il verbo “dire” del secondo esempio è spesso usato come formula introduttiva della citazione. Burton non utilizza il verbo “scrivere”, che meglio si adatterebbe a un richiamo testuale, ma il verbo “dire”, come se riportasse una sorta di dialogo. In Anatomia della malinconia il citazionismo non sia un semplice debito di erudizione, ma abbia a che fare con una sorta di tentativo di linguaggio polifonico e polisemico che è una delle caratteristiche del romanzo (la pluridiscorsività di Bachtin). È possibile che i prodromi dei dialoghi dei moderni romanzi – con tutti i suoi ‘dice’, ‘ha detto’ , ‘rispose’, ‘annuì’ – possano avere origine nel trattamento delle citazioni di Burton? Durante la lettura, le citazioni e i rimandi interni vengono percepiti come se fossero dialoghi tra protagonisti. Burton con il ritornare ossessivo di alcuni autori su altri (Seneca su tutti) produce una sensazione molto simile di dialogo, in cui pare di vedere due persone parlare tra di loro.
Che Anatomia della Malinconia sia un libro, in cui l’autore – quasi anticipando l’estro catalogatorio di Bouvard e Pécuchet di Flaubert – abbia cercato di stipare al suo interno tutto lo scibile umano è fuori di dubbio. Per capire in che modo Burton organizzi i sui materiali, in cui ogni singolo e minimo argomento del mondo sensibile è analizzato, è sufficiente guardare la foto che accompagna questo articolo, che riproduce la partizione originale di Anatomia. La malinconia è analizzata, smontata, divisa e rifratta in innumerevoli rivoli e minuzie e su ognuna di queste, Burton trova da scrivere, da citare, trova esempi da raccontare, riflessioni da fare.
Questa tensione potrebbe essere simile a quella tensione tipica del romanzo (Lotman) ovvero di usare strumenti finiti (le parole, le strutture verbali, la grammatica e la sintassi) per riprodurre l’infinito/indefinito (la vita, l’esistenza, le passioni etc etc). Lo sforzo di questa declinazione della realtà si traduce nella lista, l’elenco e l’enumerazione. Prendo una parte della Anatomia 3.2.3.1 (ovvero Parte 3, sezione 2, membro 3, sottosezione 1)
Ogni amante ammira la propria amata, sebbene ella sia deforme, priva di qualunque grazia, rugosa, foruncolosa, pallida, rubizza, gialliccia, scura, dalla carnagione terrea, con la faccia tonda e gonfia come quella di un giocoliere, oppure smagrita, smunta e infantile, o con la faccia tutta macchiata, e si tutta storta secca, pelata, con gli occhi sporgenti o cisposi o sempre fissi; sebbene abbia l’aspetto di un gatto schiacciato in una porta, con la testa sempre piegata, e pesante; con gli occhi ncavati, le occhiaie gialle o nere, guercia con la bocca come quella dei passi, il naso adunco come hanno i persiani, o affilato come quello di una volpe, rosso piatto come quello dei cinesi, un naso grosso […](p.1895)
La descrizione prosegue per circa due pagine, nelle quali Burton elenca le stravaganze fisiche della donna di cui l’uomo malinconico si innamora, stramberie e brutture che l’innamorato non vede perché “Cupido è cieco e ciechi i suoi seguaci” (p.1893). Burton prende un cliché – quale luogo comune è più comune de “l’amore è cieco” – e lo trasforma in un viaggio descrittivo, dove assistiamo a una sorta di rivolgimento e di riflessione sulla bruttezza, sul limite.
La capacità elencativa è lo strumento attraverso il quale l’autore rivela il dato di verità che un luogo comune cela in sé, una vera e propria battaglia, che anticipa di parecchi anni quella guerra contro i cliché così cara al Martin Amis saggista.
La descrizione della donna brutta benché amata è uno dei tanti passaggi che nel leggerlo fa venire in mente la voce di altri scrittori, come se alcune pagine di Anatomia potessero trovare una degna collocazione all’interno di alcuni lavori di Gadda, o di Volponi, o di D’Arrigo, ma anche di Pynchon o Bolano, Cartarescu o David Forster Wallace. È un testo moderno, perché forza le strutture narrative e per quel sentore di crisi, di dubbio, di tempi fuori di sesto che si respira nelle sue pagine e che rendono così vicini i nostri tempi a quelli in cui l’opera veniva scritta. L’impressione, per assurdo, è che Anatomia della Malinconia contenga tutti i romanzi futuri della nostra letteratura, e che sia una borgesiana enciclopedia, in cui tutti i materiali narrativi presenti e futuri vengono ordinati.
Viene, quindi, da chiedersi: Chi è l’autore di una enciclopedia? Esiste? Ha una sua realtà concreta? Leggendo Anatomia della Malinconia il lettore, o meglio il lettore che sono io, cerca di scoprire dove sia finito l’autore che fin dal frontespizio si nega. È una domanda legittima, che lui stesso spinge in tutti i modi a farci. La risposta più facile a tale questione è che Burton stesso soffre di malinconia. Così come Montaigne nei Saggi metteva al centro della sua osservazione e della speculazione un particolare tipo di soggetto, che corrispondeva a se stesso, in Anatomia accade qualcosa del genere: Burton scrive di malinconia perché è malinconico, ed è malinconico perché scrive di malinconia, in una sorta di circolo vizioso di cui non si trova fine. Ecco perché l’autore fa di tutto per dissimularsi per chiamarsi fuori, per far sì che la sua opera sia vista come qualcosa di oggettivo (che cosa c’è di più oggettivo di una anatomia?). E proprio nel momento più schietto di onestà, nell’ammissione che l’intera opera di una vita non sia altro che un tentativo di sedare i demoni della propria coscienza, ecco che la bugia, la maschera, la finzione riprendono il sopravvento
[…]ho anatomizzato la mia follia. E ora, all’improvviso, mi pare che mi stia risvegliando, come da un sogno; sono stato colto da un attacco di delirio, da un eccesso di fantasticheria, ho vagato di qua e di là, […]; ora che sono tornato in me e che riconosco il mio errore, grido, con Orlando, Solvite me, chiedo perdono (p.267)
Quale maggiore colpa di un redattore di un’enciclopedia che l’aver usato la parola “io”? Quale maggior difetto per un saggio di usare se stessi come pietra di paragone del sapere proprio e altrui? Eppure proprio il romanzo è un modo differente di affermare la propria umanità, la propria individualità e specificità, negandola. Scrivere un romanzo è un altro modo di dire “io”, di costruire una maschera, una persona, che parli “in vece” nostra, producendo una semplice frase che, pur nella finzione, alle nostre orecchie suoni vera come quando a voce alta leggiamo: “Per molto tempo mi sono coricato presto la sera”.
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