Immaginare l’impensabile. Raccontare per immagini nel tempo degli stereotipi
Del progetto Racconti di scuola abbiamo scritto in una precedente occasione: è uno scambio fra due licei di Pinerolo e Catania, iniziato due anni fa, che intende consentire ai ragazzi di narrare attraverso un video la loro realtà scolastica, tenendosi a debita distanza dagli stereotipi consueti della fiction, che colonizzano l’immaginario di molti di loro.
Ci sembra interessante, in questa sede, riflettere su come la storia del progetto sia proseguita, e su quali vicende abbiano vissuto gli insegnanti e le classi coinvolte durante la pandemia.
Può infatti costituire una nuova occasione per riflettere sulle migliori potenzialità della media education nella scuola, e sul senso profondo dell’innovazione tecnologica che è in corso.
Il filo del discorso
Nel marzo 2020 il filo del discorso sembrava essere definitivamente spezzato dall’avanzare della pandemia e dal lockdown, che imponeva la chiusura delle scuole. Non si intende qui ripercorrere quanto accaduto in quei tragici mesi, né raccontare l’esperienza in DAD di cui anche questo blog ha più volte ospitato il racconto; piuttosto, vorremmo rendere conto di qualcosa che ha stupito, in prima battuta, noi insegnanti: la capacità del nostro progetto di essere forma di un contenuto improvvisamente necessario, impellente ed assolutamente non programmato (né programmabile), nonostante il prodotto fosse già ad uno stato avanzato di realizzazione.
Era già avvenuto l’incontro a Catania tra le due classi (3^ Scientifico – 5^ linguistico), erano già state redatte alcune bozze di sceneggiatura ed era stato registrato molto materiale video. Si discuteva di colonna sonora e di spannung quando è risultato evidente che non si sarebbe partiti dalla Sicilia alla volta del Piemonte. Poi, in un crescendo, le cose sono precipitate.
Di fronte all’emergenza è stato necessario che ogni insegnante rimodulasse la didattica per riannodare la relazione con i propri studenti. Il progetto interrotto sembrava ormai perduto.
Progetti andati in fumo
La crisi profonda vissuta dalla scuola al momento della chiusura ha cancellato di fatto tutti i progetti inseriti nel PTOF; le programmazioni, riesumate dalle loro cartelle, sono state allora ricalibrate, ed i programmi, dormienti nei files, sono stati ripensati. Pensavamo anche al nostro progetto spezzato.
In origine, lo spunto narrativo scelto dai docenti come veicolo di riflessione su di sé, tema di attualizzazione e di naturale contaminazione fra scuola e mondo, era il topos del «viaggio»: avevamo pensato di cominciare riflettendo su come si arriva a scuola, e sulla scuola come meta, luogo di incontro e convivenza fra diversità, abitata da una comunità momentanea quanto coesa. Sullo sfondo, naturalmente, c’erano i tanti viaggi di cui le ragazze e i ragazzi avevano e avrebbero letto, tragici, epici, umoristici. All’improvviso, però, questa meta è scomparsa dalla realtà, restando su uno schermo come proiezione di ciò che ci mancava.
Avevamo pensato ad un percorso che mettesse insieme una terza – quando si comincia a disegnare un quadro storico della letteratura, e si leggono testi scritti in una lingua lontana – e una quinta – in cui il quadro si compone e si articola, e l’idea evolutiva di una lingua e di una cultura si precisa. Una terza – che raccoglie adolescenti alle prese con i dilemmi i conflitti tipici di quell’età, ricca peraltro di prospettive ampie e, per molte e molti, di nuova consapevolezza di sé e del mondo – e una quinta – in cui giovani donne e uomini vivono l’età di scelte consapevoli e di esercizio attivo di diritti.
Improvvisamente, questo affascinante e difficile intreccio di sensibilità e di approcci, si è scontrato con ciò che non poteva essere pensato. Per alcune settimane, è sembrato naturale che l’idea, eccentrica rispetto alle pratiche e ai tempi canonici della scuola, non potesse che essere abbandonata. Ma presto la burocrazia ha avvolto le sue spire anche sull’impensabile e tutto è proceduto con le circolari i consigli i collegi i dipartimenti: come se non stesse accadendo niente. Questo tentativo di cancellare ‘a nuttata ha reso impellente la necessità di raccontare anche quello che presto non sarebbe stato narrabile: avrebbe annoiato chi, guardando al presente costruttore delle magnifiche sorti, non avrebbe più voluto sentire parlare dei morti.
È nata così da un confuso sottofondo – comune ad insegnanti e studenti – l’esigenza di riprendere il progetto: se Racconto di scuola doveva essere, bene, che si raccontasse la scuola nella primavera, tragica e indimenticabile, del 2020.
Sette donne e tre giovani uomini
Il progetto ha ripreso vita sulla spinta della necessità del racconto: elemento forte che è servito da collante nella situazione di emergenza, non solo per i ragazzi e per gli insegnanti impegnati in un progetto scolastico, ma per chiunque abbia cercato di elaborare l’eccezionalità del momento che stava vivendo. Nei mesi del lockdown pullulavano in rete video delle città deserte; la peste di Manzoni e quella di Camus, e naturalmente quella di Boccaccio, diventavano improvvisamente pop, come ad esorcizzare la nuova peste che ci teneva chiusi in casa, mentre fuori il morbo saliva sui camion militari e visitava i ricoverati nelle RSA e nelle terapie intensive. All’improvviso sembrava si potesse sentire quel silenzio che solo il folletto e lo gnomo avevano udito.
In questa situazione estrema, la dimensione virtuale e tecnologica è diventata la sola realtà possibile, «da ogne parte lontano alquanto dalle nostre strade»- per dirla con le parole di Boccaccio stesso – e Meet, anche se suona strano dirlo, «un palagio con bello e gran cortile nel mezzo».
I ragazzi hanno voluto adottare una struttura narrativa che l’esperienza scolastica e il racconto collettivo social concordemente sembravano suggerire come adatto. La cornice realizzata da Boccaccio è stata ri-usata nell’urgenza del racconto individuale che era racconto collettivo. La tradizione letteraria e la vicenda di cronaca nel mondo sconvolto dalla pandemia ha permesso di riannodare il filo: i ragazzi che non potevano incontrarsi fisicamente hanno ricominciato a discutere su cosa si doveva e poteva fare, e sul come farlo. Ma sul perché non hanno mai discusso.
Questione di feeling
Le ragazze e i ragazzi si sono a lungo interrogati e confrontati sulla misura in cui questa architettura boccacciana dovesse apparire in primo piano nella storia che avremmo raccontato, oscillando fra un’idea tradizionale (didascalie e temi ben precisi, in un numero pari a quello della fonte letteraria) ed una più segnata dalla contaminazione (in cui il rigore e l’ordine simbolico medievale cedessero il posto ad una struttura mista, meno riconoscibile). In questo, come in altri momenti della discussione, la comprensione del modello è stata profonda, indipendentemente dalle scelte compiute in fase di montaggio.
Frutto privilegiato di questo lavoro è stata la particolare commistione di verbale e visivo, che nel racconto convivono in modo naturale. La presenza di momenti maggiormente razionali/verbalizzati e di altri lirici/non verbalizzati costituisce esattamente la proiezione delle diverse sensibilità e delle diverse storie nella storia che costituiscono l’ossatura del racconto. Del resto, alla necessità di raccontare vissuta dalle ragazze e dai ragazzi si intreccia, con effetti interessanti (naturalmente suscettibili di giudizi estetici diversi, a seconda dello spettatore), il bisogno di raccontarsi delle persone intervistate, cui – in un bellissimo gioco transgenerazionale – i giovani hanno dato la parola.
La comunita’ contro gli stereotipi
Il lavoro di realizzazione dell’audiovisivo è passato attraverso la costruzione di una comunità molto composita, che risulta evidente allo spettatore. Nel racconto, infatti, emerge in piena luce quello che nella vita della scuola si trova – proprio per la separatezza fisica del luogo istituzionale – sullo sfondo: le dinamiche interne alle famiglie, il dialogo generazionale, le figure di genitori e nonni con la loro vita e la loro eredità. Questa comunità, nella “normalità” della scuola, si manifesta solo in occasioni particolari, non sempre costruite perché ciascuno dia il meglio di sé: gli incontri scuola-famiglia, il ricevimento parenti, i consigli di classe aperti. In quest’occasione, invece, si è unita intorno alla partecipazione attiva ad un progetto. Nella sua autenticità, lontana da ogni rituale e senso di routine, ha immediatamente rifiutato una chiave narrativa finzionale – l’eroismo solitario, il sacrificio patetico – e, insieme, qualsiasi chiave espressiva basata sulla spettacolarizzazione e sull’esibizione di sé.
Forse, proprio quest’irruzione del quotidiano “fuori dalla scuola” in un’attività scolastica, e la scoperta progressiva del legame fortissimo fra la dimensione “privata” di ciascuno e quella “pubblica” del gruppo, hanno costituito la più evidente acquisizione di “competenze”, nel quadro del progetto: una finalità che lo avrebbe comunque caratterizzato è stata esaltata dalla difficoltà delle circostanze; un obiettivo che gli insegnanti avevano collocato alla fine del percorso ne è invece, paradossalmente, diventato punto d’origine.
Sterminator vesevo
Il racconto della vita durante la mortifera pestilenza, depositato sul diaframma della tradizione letteraria, acquisita come forma che dà coerenza all’informe (dell’attualità sfuggente dell’oggi), ha messo in moto un virtuoso effetto a catena. Ogni ragazza e ragazzo ha superato il livello impressionistico, inteso come espressione elementare di un’emozione (a cui hanno ceduto un gran numero di adulti nei vari canali di comunicazione social), per essere in grado di riflettere e confrontarsi con gli altri: ognuno ha contribuito al riconoscimento di una comunità ermeneutica che ragionava sugli effetti sociali, economici psicologici del Covid-19 che investiva drammaticamente anche l’esistenza dell’io. La vicenda individuale, familiare, transgenerazionale, sociale diventava così – naturalmente – la storia di tutti e di ciascuno che attraverso il tempo (la tradizione letteraria) realizzava un contatto vivo con il passato per guardare alla possibilità di un futuro diverso dal presente. I morti suggerivano la fiducia nella resistenza solidaristica della ginestra che chiude il racconto e il video in disegno di utopia.
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