Per un dizionario critico della letteratura italiana contemporanea
Autori, movimenti, categorie, temi: una mappa per la contemporaneità
Per un dizionario critico della letteratura italiana contemporanea. 100 voci è il volume nuovissimo (settembre 2020) uscito per Carocci a firma di Romano Luperini ed Emanuele Zinato. L’opera trova il suo antecedente dichiarato in quelle Ventiquattro voci per un dizionario di lettere pubblicato da Franco Fortini nel 1968; e questo ne spiega la fisionomia particolarissima: l’opera infatti, se presenta la struttura agile e familiare di qualsiasi dizionario (l’ordine alfabetico), d’altra parte del dizionario rifiuta la funzione unicamente informativa e le accosta, senza soppiantarla, la funzione di orientamento critico e interpretativo. Qui però la struttura che organizza i materiali presenta un’ulteriore novità: alle voci relative agli autori, che rappresentano la metà dei lemmi presenti, si affiancano venticinque voci legate a movimenti e categorie critiche e venticinque voci relative a grandi temi della contemporaneità. Autori, movimenti, categorie, temi si susseguono senza sottopartizioni (per intenderci: dopo Aleramo e Anedda, troviamo Animali, Antinovecentismo, Apocalisse e Automobili; dopo Viaggi, Vittorini, Volponi e Zanzotto), in una sequenza che, se da principio può spiazzare il lettore, in realtà restituisce il senso profondo di questa importante operazione. Gli autori e le loro opere, sottratti al catalogo asettico dal giudizio critico e interpretativo, vengono reimmessi in un tessuto vivo, dinamico di relazioni che contribuisce a definirne con chiarezza lo spessore, la tridimensionalità, e li pone in salvo dall’evidenza piatta dell’exemplum. Non solo: si fa largo, per questa strada, la difficile ma necessaria ricostruzione della condizione dell’intellettuale, dei suoi condizionamenti, dei suoi strumenti, delle sue responsabilità nello spazio oltremodo complesso della contemporaneità, dove le stesse coordinate spazio-temporali subiscono profonde, rapidissime, vertiginose trasformazioni, dove continuamente si deformano, si smarriscono, si ritrovano, si rilanciano le ragioni della letteratura.
Quaestiones
Dentro questo impianto fortemente ragionato e responsabilizzante, ogni lemma diventa dunque autenticamente voce, e come una voce parla e si fa sentire e non soltanto da chi, per mestiere, per vocazione, per necessità di studi, s’interessi di letteratura e critica, ma da chiunque desideri accostarsi alle questioni letterarie senza rinunciare alla serietà scientifica di cui spesso difetta la critica – per dir così – divulgativa. Deliberatamente si è adoperato il termine questioni per indicare quella che è probabilmente la cifra più preziosa di questo volume, cioè la straordinaria capacità di sollevare una quaestio: interrogazione, riflessione, ricerca, disputa sul senso degli accadimenti e sulla responsabilità individuale e collettiva di fronte ad essi. Ogni autore, dunque, ogni tema, ogni movimento, non è soltanto tassello di un mosaico, ma interlocutore dinamico e costruttore di senso nello spazio complesso di cui già s’è detto; ed è per questa via che diventa esemplare, suggerendo – di più: vivamente consigliando – anche al lettore di esercitare parimenti il diritto e il dovere di dire e costruire.
Exempla
L’arco temporale lungo il quale si dispongono autori, movimenti e temi è compreso tra lo scorcio dell’Ottocento e le soglie del Duemila (i più anziani fra gli autori sono Svevo e Pirandello mentre una voce è espressamente dedicata agli scrittori della Narrativa del nuovo secolo). La selezione degli autori è sicuramente orientata anche dal loro essere rappresentativi di movimenti o portatori di temi riconosciuti come essenziali a definire il profilo della società contemporanea, o fondanti questa società tout court; ma indubbiamente il vincolo numerico (100 voci in totale, 50 delle quali dedicate agli autori) ha comportato (come è espressamente segnalato nella Premessa) qualche rinuncia, anche dolorosa. Sono stati inseriti nel novero degli autori esclusivamente narratori e narratrici, poeti e poetesse. Anche fra questi, peraltro, s’è dovuto scegliere, non senza dispiacere, quelli ritenuti più significativi. Nel complesso tuttavia si tratta di un repertorio di fortissimo impatto e grande efficacia, rigoroso, problematico, stimolante per ogni lettore, che può scegliere di approcciarsi alle questioni attraverso il canale che gli sia più congeniale, sollecitato poi a percorrere anche gli altri da un gioco di rimandi (anche esplicitamente segnalato dal ricorso alle frecce). Ed è pure un repertorio utile, utilissimo per chi insegna e vi trova indicate direttrici di percorrenza non genericamente nuove, ma capaci di rinnovare dall’interno, intimamente, l’abusata nozione di attualità e di sottrarre a letture modaiole l’importante nozione di interdisciplinarità. Chi scrive non riesce a nascondere la sua preferenza per alcune voci (Madri, Labirinti, Lavoro, Oggetti, Padri, Psicoanalisi); ma forse una ce n’è che si alza più forte delle altre ed è Resistenza.
(Qui di seguito si ripropone integralmente la voce Resistenza, cfr. Per un dizionario critico della letteratura contemporanea, Carocci, 2020, pp.217-222)
Resistenza
Nessun tema come quello della Resistenza, ossia l’insieme delle azioni di opposizione al nazifascismo messe in atto dalla guerra di Spagna al 1945, è stato sottoposto nei successivi decenni a un così marcato uso pubblico della memoria, politico e propagandistico, tra celebrazioni, oblio e revisionismi. In Italia, dalla stagione della Resistenza come mito di fondazione della Repubblica, monumentale e retorico, si è passati alla celebrazione dei “vinti”: in sintonia con il titolo del libro Il sangue dei vinti (2003) del giornalista Giampaolo Pansa, l’epurazione dei fascisti è narrata dal senso comune e dall’ideologia egemone come una colpevole carneficina operata dai partigiani comunisti, con l’ immagine della Resistenza come gratuita «guerra civile» fra italiani nella quale torti e ragioni non sono più attribuibili, e con la conseguente equiparazione dei “ragazzi di Salò” ai partigiani.
Per queste ragioni, contro ogni strumentalizzazione, risultano di grande utilità le ricerche di Claudio Pavone e di Alessandro Portelli. Pavone in Una guerra civile (1991) ha spostato l’attenzione dalla politica alla «moralità» (da intendersi in senso collettivo) e ha restituito pluralità e problematicità alla Resistenza, mostrando in essa l’intreccio di tre dimensioni: una «guerra patriottica» contro i tedeschi per liberare il territorio nazionale, una «guerra civile» contro i fascisti, una «guerra di classe» contro i padroni delle fabbriche e gli agrari che avevano finanziato lo squadrismo. Portelli, in L’ordine è già stato eseguito (1999) ha ricostruito uno degli episodi più cruenti e più controversi della lotta armata partigiana in Italia: l’attentato romano di via Rasella (1944) e l’eccidio, per rappresaglia, delle Fosse Ardeatine, caso paradigmatico della “memoria divisa” degli italiani. Pavone e Portelli si distanziano dall’immagine tradizionale della Resistenza ma non equiparano partigiani e nazifascisti, né dalle loro ricerche si deduce che, conclusa la guerra civile, la memoria potesse diventare “pacificata, comune e condivisa” per i sopravvissuti e per le nuove generazioni.
Questo conflitto delle interpretazioni storico-politiche si riverbera in campo letterario. Inclusa fino agli anni settanta nella categoria di neorealismo, la “letteratura della Resistenza”, fondata sul vissuto e sulla lingua parlata, fatta di canti, di giornali clandestini, di lettere (le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana pubblicate nel 1952) si differenzia dalla letteratura sulla Resistenza, scritta a lotta conclusa: a esempio, i racconti (Ultimo viene il corvo, 1949) e il romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947) di Italo Calvino (Vd), i romanzi Il partigiano Johnny (1968) e Una questione privata (1963) di Beppe Fenoglio (vd); le Sere in Valdossola (1963) di Fortini (Vd), I piccoli maestri (1964) di Gigi Meneghello (Vd). Si tratta di scritture che in parte riflettono l’ epicità e l’origine orale delle narrazioni (Falaschi) ma che sono modellate su stili e linguaggi fra loro diversissimi: il neorealismo è solo in apparenza una poetica egemone e questi scrittori adottano le soluzioni formali più varie in cui «l’andamento orecchiabile di un Pratolini male si accorda con l’oltranza stilistica di Fenoglio, così come la paratassi di Bilenchi non ha nulla a che vedere con l’arte affabulatoria di Calvino» (Gabriele Pedullà).
La narrazione letteraria della Resistenza rispetto alle ricostruzioni storiografiche implica per il lettore tre diverse acquisizioni: la sua lunga durata, a partire dalla Guerra di Spagna, la complessità antiretorica e non ideologica della rappresentazione, i suoi contenuti “rimossi” in grado di riaffiorare nel nuovo millennio. Il primo scenario resistenziale a essere tradotto in scrittura e a diventare tema dell’immaginario è la guerra civile di Spagna, esperienza archetipica che prosegue ben oltre il 1936-1939, che interseca la fase dei terrorismi (Vd) degli anni settanta con la costituzione dell’Eta, e che indirettamente influenza la gestione repressiva dello stesso referendum catalano (2018). Il conflitto spagnolo, per sua natura a un tempo “civile” e internazionale, è un punto di snodo non solo nella letteratura iberica ma anche in quella italiana, come dimostra un racconto esemplare di Leonardo Sciascia (Vd), L’ antimonio (1958): è a partire dalla guerra di Spagna che molti scrittori, tra cui Elio Vittorini, Antonio Delfini, Romano Bilenchi, maturano le proprie scelte antifasciste.
I migliori romanzi sulla Resistenza italiana corrodono la retorica ufficiale mediante diversi dispositivi: lo straniamento, lo sguardo dal basso, la logica del desiderio, l’ironia. Calvino sceglie come “protagonista simbolico” Pin, un bambino partecipe di una banda partigiana formata da emarginati e balordi, e gli avvenimenti in tal modo “si rinsaldano in una trama di corrispondenze psicoanaliticamente organizzata” (Milanini): i sogni, l’aggressività sadica contro gli animali (Vd), il voyeurismo. Nonostante la realtà della lotta sia fedelmente rappresentata, il rapporto con il tempo e con il paesaggio nel romanzo è fiabesco e circolare: in Calvino opera insomma lo sguardo dal basso che permette di straniare e svelare il mondo adulto e la guerra civile. Fenoglio, a sua volta, non intende documentare la storia della lotta partigiana ma bensì assumerla come prova epica e assoluta di un destino individuale (come accade alle tempeste in mare per i protagonisti di Conrad). Il suo capolavoro Una questione privata è la storia del partigiano Milton che si lancia in una folle quête amorosa nelle Langhe: l’arrivo iniziale di Milton nella villa vuota di Fulvia, con i ricordi dell’esordio del loro amore mediati da memorie musicali, corrisponde al suo ritorno finale alla villa, braccato dalle pattuglie fasciste, sporco di fango e in pericolo di vita. In entrambi i casi, Fulvia è oggetto d’amore assente: il colloquio di Milton con lei avviene, come nei romanzi modernisti, solo nella memoria o nell’interiorità. Ne I piccoli maestri di Meneghello la narrazione in prima persona è condotta da un narratore-protagonista interessato a ricostruire, attraverso il recupero memoriale e senza tacerne i vuoti, il tempo di una giovinezza lontana. Il testo si presenta dunque con una impostazione autobiografica e antiretorica, temperata dall’autoironia: nell’incipit il protagonista torna con la sua ragazza a guerra finita nel buco scavato nel ventre della terra, ritrovando gli oggetti e le armi che aveva abbandonato durante un rastrellamento.
La storia apologetica e celebrativa della Resistenza, invece, ha ignorato per lungo tempo le contraddizioni della lotta partigiana: le esecuzioni sommarie, le vendette e le lotte fratricide ben presenti nelle narrazioni di Calvino, Fenoglio e Meneghello. Su questo vuoto di riflessioni inerenti la tragicità di ogni scelta armata, si è innestato il revisionismo che tende a colpevolizzare la Resistenza e a eguagliarla ai crimini nazifascisti, azzerandone il valore civile. Esemplare, a questo riguardo, il caso di Primo Levi (Vd), anch’egli partigiano in Val d’Aosta in una formazione che nel dicembre del 1943 decise di eliminare due suoi giovani membri colpevoli di estorsioni e furto. Lo storico Sergio Luzzatto in Partigia (2013) ha alluso a un “atroce segreto” che avrebbe angosciato lo scrittore per tutta la vita, accusandolo di reticenza. Una delle qualità costanti dello stile di Levi consiste nel concentrare in poche righe le proprie verità e, nel capitolo Oro di Il sistema periodico (1975), l’autore ha trattato in forme lapidarie l’episodio dell’esecuzione dei due giovani: Luzzatto tuttavia considera insufficiente la pagina leviana e, non disponendo di documenti, sceglie la strategia dell’insinuazione destinata a produrre, in un clima revisionista, largo clamore (Cavaglion).
La scrittrice che forse più di altri ha saputo narrare le contraddizioni della Resistenza è Elsa Morante nel romanzo Aracoeli (1982) e nelle pagine del suo diario. In Aracoeli è incastonato un apologo che il protagonista stesso, Emanuele, definisce “la mia comica impresa partigiana”: raggiunto nell’autunno del ‘44 da vaghe notizie circa la presenza sulle colline di ribelli che i Padri del Convento in cui è ospitato chiamano “i comunisti”, il ragazzino fugge con l’intento di replicare le gesta dello zio antifascista in Spagna. Il lessico però (covi, banda, base, lotta armata) e la situazione fittizia (l’interrogatorio, il processo) alludono a una contaminazione fra l’immaginario partigiano e quello dei cosiddetti “anni di piombo”. Emanuele nella sua fuga dal Convento si imbatte in una strana coppia: due vagabondi a metà “fra il guitto e il segugio” e li scambia per dirigenti partigiani, denominandoli il Capo e il Vice. I due, per divertirsi sadicamente a sue spese, lo bendano e lo conducono in un covo per processarlo. L’iniziazione partigiana si perverte così in una “recita buffona” e in una serie di equivoci, fino al culmine della condanna a morte comminata per finta al ragazzino terrorizzato e accusato di essere “agente del nemico, spia e traditore”. Nella pagina del suo diario scritta all’indomani della fucilazione di Mussolini da parte dei partigiani, ricapitolando le tappe criminali del ventennio fascista (“la soppressione della libertà, della giustizia, dei diritti costituzionali del popolo (1925), l’uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni (1935), la privazione dei diritti civili degli ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno” (1938)), Morante formula un duro giudizio morale non solo su Mussolini ma sull’intero popolo italiano. Il tema è il medesimo affrontato oltre un secolo prima da Giacomo Leopardi e riguarda “il carattere degli italiani” inteso come disposizione all’ipocrisia, al tornaconto personale, alla corruzione. Nella scrittura di Morante non vi è insomma euforia per l’eliminazione di un nemico ma uno sguardo lucido e retrospettivo sul regime e una sorta di compassione per la goffa mediocrità del Duce, prodotto esemplare del proprio paese (“Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura”).
Nel nuovo millennio, come attesta il reportage-inchiesta di Christian Raimo Ho sedici anni e sono fascista (2018), in un contesto in cui l’immaginario antifascista ha perso credito, relegato nella scuola per “par condicio” fra le opposte “giornate della memoria” e “del ricordo”, i giovani avvertono la fascinazione per simboli e stili di vita di estrema destra, percepiti come eroici, non ipocriti, alternativi. In questa situazione numerosi scrittori scelgono ancora la Resistenza come tema, non solo per sfruttare un collaudato repertorio di trame ma anche – attingendo ai modelli formali del Novecento – per raccontare la storia “per delega”, al modo in cui Eraldo Affinati (1956) in Campo del sangue (1997) ha cercato di testimoniare Auschwitz. A esempio Giacomo Verri (1978) nel romanzo Partigiano Inverno (2012) e nei Racconti Partigiani (2015) ambientati in Valsesia riprende la lezione di Calvino e cerca di ridare voce, con la forza obliqua della scrittura, alle terribili tensioni epiche e psichiche della lotta partigiana; Stefano Valenti (1964) in Rosso nella notte bianca (2016) restituisce dicibilità, attraverso Fenoglio, al “trauma storico” raccontando l’omicidio del compaesano fascista da parte di un vecchio partigiano lucido e allucinato, Ulisse, agli occhi del quale “anche a distanza di cinquant’anni si tratta di risarcire una violenza, pubblica e privata, subìta e mai passata al vaglio della giustizia” (Morena Marsilio); Helena Janeczek (1964) in La ragazza con la Leica (2017) narra il fascino radiante di una fotoreporter leggendaria, Gerda Taro, e la tragedia collettiva inaugurale della Resistenza (la rivoluzione in Spagna), utilizza la narrazione multiprospettica cara ai modernisti americani per interrogare i dettagli dei fotogrammi e farne materia di un romanzo in cui sono le “questioni private” nel vortice della Storia a produrre nel lettore emozione e identificazione: con il conseguente ritorno del destino sugli scenari pulviscolari del caso.
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