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diretto da Romano Luperini

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La storia non è magistra di niente che ci riguardi, ne siamo pure un po’ vittime e la colpa è degli altri

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Da qualche tempo circola in rete questo meme, che è la traduzione, tutt’altro che letterale, di quest’altro in inglese. 

Le due vignette, che per ora considererò omologhe, sono una ‘variazione sul tema’ di una frase che circola spesso adespota, ma la cui paternità è certa, perché si legge in un’opera del filosofo George Santayana (1863-1952), The Life of Reason. La frase recita: «Those who cannot remember the past are condemned to repeat it» («Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo»: chiamerò questa versione O, originale).

Basta un primo colpo d’occhio per notare che nei meme la citazione non è letterale. Vorrei soffermarmi sulle trasformazioni che essa ha subito, perché mi pare che siano la manifestazione puntuale, il sintomo, di un soggiacente mutamento del nostro inconscio politico collettivo, da qualche decennio a questa parte, nella direzione di un crescente vittimismo. Citerò le frasi in inglese, perché le oscillazioni del testo compaiono già in quella lingua, tralasciando il riflesso sulle traduzioni italiane.

Variazioni sul tema

Cercando la frase di Santayana in rete e selezionando tra i risultati le immagini, compare una notevole quantità di meme che la riportano, nella forma originale o con varianti. Fra queste ultime, alcune sono di poco conto, meramente lessicali (ad es. «Those who fail to learn from history»); la frase è talvolta falsamente attribuita a Winston Churchill[i] e Edmund Burke; i verbi «to condemn» e «to doom», sinonimi, sono usati in modo intercambiabile. Ma le varianti realmente interessanti sono poche:

(1) «Those who forget history are doomed to repeat it» («Coloro che dimenticano la storia sono condannati a ripeterla»);

(2) «Those who do not know history are doomed to repeat it» («Coloro che non conoscono la storia sono condannati a ripeterla»);

(3) «Those who do not learn from history are doomed to repeat it» («Coloro che non imparano dalla storia sono condannati a ripeterla»);

per arrivare al nostro meme: (M) «Those who don’t study history are doomed to repeat it. Yet those who do study history are doomed to stand by helplessly while everyone else repeats it» («Coloro che non studiano la storia sono condannati a ripeterla. Quelli che invece la storia la studiano, sono condannati ad assistere impotenti, mentre tutti gli altri la ripetono»).

Abbiamo quindi due fasi di manipolazione:

  • da O derivano 1 2 3: la frase di Santayana circola fuori contesto e viene trasformata e adattata;
  • da 1 2 3 deriva M: una delle forme già corrotte viene usata come nucleo da sviluppare, secondo una modalità oggi molto diffusa in specie nella satira online.[ii]

Corruzione o riappropriazione?

Finora ho usato come fossero perfetti sinonimi le parole «variante», «trasformazione», «corruzione», «manipolazione». In verità ciascuna scelta lessicale implica una diversa valutazione di quello che è accaduto nella mutazione dall’originale alle forme in cui circola.

Chi ha introiettato come naturali i concetti di “autore” e “testo”, così come ce li consegna la filologia – che vuole ricostruire la lezione plausibilmente più vicina all’ultima volontà dell’autore –, continua a provare disagio all’idea che quello che legge possa non essere “vero”: che di volta in volta significa corrispondente ai fatti, correttamente attribuito, precisamente trascritto. Eppure pochi di noi, condividendo sui social network una citazione, si domandano se Pasolini, Gandhi, Einstein abbiano davvero pronunciato o scritto quella frase, se non ne sia una cattiva parafrasi, se nel contesto originale avesse proprio quel senso.

Due sono le domande che vale la pena farsi: la colpa di questa instabilità testuale è della rete? Che la risposta sia sì o no, che significato psicologico e psicosociale ha il fatto che ci nutriamo di testi infedeli?

Qualche anno fa, Raffaele Simone ha suggerito che potremmo trovarci di fronte a un profondo mutamento di paradigma nella concezione del testo: finita la fase filologica, dell’Umanesimo e della stampa, staremmo entrando in una nuova fase “medievale”, di revival interpolativo, nella quale i testi perdono la loro chiusura e incorporano i commenti e le glosse, oppure vengono smembrati; in altre parole diventano plasmabili e adattabili, indebolendo così anche il principio d’autorità della volontà dell’autore, come appunto capita in rete.[iii]

Che la testualità digitale abbia impresso un’accelerazione e una moltiplicazione al fenomeno sarebbe impossibile negarlo. Ma esso esiste da sempre nell’ambito dell’oralità (barzellette, leggende metropolitane, …) e proprio per lo specifico fenomeno che qui mi interessa – quello degli aforismi, frasi memorabili, detti e sentenze – ha una storia annosa. Il fatto è che la seduzione dell’ingiunzione morale contenuta in un aforisma, l’invito a meditare una piccola perla di verità, è da sempre più forte di ogni filologia. Aforismi, frasi memorabili, detti e sentenze sono così seducenti per una caratteristica nativa: pretendono che di essi il lettore si appropri come di un insegnamento morale, che li assorba, mediti, faccia propri. Petrarca, nel Secretum, parlava di “uncinare” alla memoria i contenuti parenetici dei libri. Purtroppo la memoria fa cilecca; soprattutto, l’interiorizzazione del testo lo avvolge fra sensi non originali e connotazioni nuove, in ragione del fatto che l’aforisma viene usato, più che interpretato, e più facilmente serve ad autoconfermarci in ciò che già sappiamo, che a metterci di fronte a un sapere nuovo. In poche parole: la ricezione comporta una reinterpretazione. Filologicamente si tratta di una corruzione testuale; ermeneuticamente si tratta di una riappropriazione.

Vengo al punto. Se avanziamo l’ipotesi che il senso riattribuito a frasi che sono state strappate dal proprio contesto originale non sia tanto personale, quanto collettivo – in altre parole che risenta dello spirito dei tempi, degli umori della società –, forse nelle trasformazioni che la frase di Santayana ha subito possiamo leggere qualcosa dei nostri valori, se non addirittura qualcosa della nostra psiche collettiva.

Il “dovere” della memoria

Valentina Pisanty ha di recente scritto un bel libro, su cui varrà la pena tornare in un’altra occasione, nel quale ha messo sotto la lente d’ingrandimento dell’analisi il “dovere” della memoria, specificamente di quella della Shoah. Ma dal momento che la studiosa sostiene che questo paradigma sia poi stato generalizzato e applicato ad ogni altro genere di memoria, il discorso ha più vaste risonanze.

Che cosa ci garantisce, si chiede Pisanty, che ci sia un legame necessario tra il dovere di ricordare e il “mai più”? Basta la memoria del male del passato, peraltro sempre più mediatizzata/mitridatizzata, per garantirsi che la barbarica ferocia dell’uomo sull’uomo non si ripeta? E aggiunge:

C’è chi trova il nesso in un famoso aforisma di George Santayana – “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” – prescindendo dal fatto che l’autore si riferiva alla memoria positiva di esperienze utili a far progredire la civiltà, e non alla memoria traumatica di violenze naziste che nel 1905, all’epoca in cui scriveva quella frase, non c’erano ancora state e non erano neppure concepibili.[iv]

In effetti se si legge la frase di Santayana nel contesto originale, si scopre che poco ha a che fare non solo con il dovere della memoria dello sterminio, ma anche con lo studio della storia. Santayana sta piuttosto illustrando l’evoluzione spirituale di ogni singolo essere umano e dell’umanità intera: barbari (secondo il mito illuminista del buon selvaggio), bambini, vecchi, non possono apprendere perché non possono “trattenere” nulla; in loro la vita è puro fluire, puro divenire. Solo l’adulto è in grado di sottomettersi alla durata della vita, ritenendone però quanto gli serve per progredire («retentiveness»).[v] L’aforisma di Santayana non ha quindi nulla del memento leviano, «Meditate che questo è stato», non invita a concentrarsi sulla ripetizione del trauma passato, non invita a ricordare il male perché non si ripeta.

In un altro libro fortunato di questi anni, Critica della vittima di Daniele Giglioli, leggiamo: «Non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».[vi] Anche Giglioli commenta la frase di Santayana e punta l’attenzione sul fatto che la memoria non può essere rituale e trita, ma deve attivarsi per comprendere. La riscrittura giglioliana ci riporta alla nostra variantistica dei meme.

Santayana parlava di passato e di suo oblio. Le successive citazioni parlano tutte di storia e affermano che sarebbe condannato a ripeterla chi (1) la dimentica, (2) non la conosce, (3) non impara da essa, (M) non la studia. Mettendo le varianti in quest’ordine (anche se 1 2 3 possono essere considerati sostanzialmente sincronici), si può notare una direttrice ben precisa della corruzione/riappropriazione. Dapprima si parla ancora di dimenticare, come in Santayana, ma al «passato» del filosofo si sostituisce la «storia»: il discorso da spiritualeggiante e metastorico si fa tecnico, essendo la storia una forma discorsivamente e scientificamente organizzata della memoria del passato (1). In seguito si perde anche il valore di “retentiveness” della memoria degli adulti, opposta al selvaggio o fanciullesco oblio di sé, per introdurre quello della conoscenza esplicita (“conoscere la storia”) (2). Quindi si stabilisce quel nesso tra dovere della memoria e valore pedagogico per il futuro (“imparare dalla storia”) (3). Infine si dà la definitiva pennellata scolasticheggiante: bisogna studiarla, la storia, perché gli ignoranti sono proprio coloro che ne ripeteranno le atrocità (M).

Di slittamento semantico in slittamento semantico, siamo finiti precisamente dentro quel paradigma del dovere della memoria – un’ingiunzione fallimentare ed eticistica, per Pisanty –, che è diventato così comune nel corso dei decenni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale al nostro calendario presente, in cui ogni giorno saremmo chiamati a rammemorare pensosamente qualcosa di fondamentale per l’umanità in una delle infinite “Giornate di”. Questo paradigma del dovere della memoria, hanno spiegato Giglioli e Pisanty, è anche un paradigma vittimario, entro il quale gli esseri umani sono definiti non sulla base di quel che sono potenzialmente in grado di fare nel futuro, ma di quel che hanno subito nel passato. Ma qui mi fermo: è doveroso rimandare, per approfondimenti, alla lettura dei due libri, di cui questo mio discorso non è che una servile applicazione. Resta la spina che Pisanty e Giglioli ci hanno conficcato nel fianco: perché il proliferare della memoria, tanta compassione per le vittime del passato, tanta conoscenza, tanto studio, tanto impegno pedagogico, non sembrano aver migliorato il mondo?

“Ribellione delle élite”?

Concentriamoci soltanto su M, ma osserviamo distintamente la vignetta italiana e quella inglese, che abbiamo fin qui trattato come omologhe.

Aver introdotto nelle riscritture di Santayana il riferimento a contenuti culturali espliciti – la storia – e ad atti intenzionali – lo studio e il perseguimento volontario del ricordo – ha inoculato nello pseudo-aforisma una piccola cellula potenzialmente cancerosa: un messaggio non agli uomini in quanto tali, ma ad alcuni uomini, a quelli che vorrebbero colpevolmente crogiolarsi nella propria ignoranza. Insomma: si tratta ormai di un ditino moralizzatore alto levato.

La conferma viene dalla frase aggiunta in M, sia nella versione italiana che in quella inglese, dove si scava un abisso tra chi sa e chi ignora, tra chi è per il bene e chi per il male. Da questo punto di vista, è assai peggio la traduzione italiana, dove si parla di «colpa» di chi non studia la storia: davanti alle loro nefandezze, i pochi saggi assistono scuotendo il capo come un gallidellaloggia qualsiasi che scriva elzeviri contro i giovinastri delle periferie che tolgono il sonno e spargono il virus fra le famiglie gentilizie dei quartieri del centro.[vii] Nella versione inglese, quanto meno, i sapienti stand by helplessly, stanno lì impotenti ad assistere, sapendo di essere ininfluenti. (Sensazione con la quale – al netto dell’ironia, che serve ad evitare il rischio di doppiare il moralismo pedagogico – mi sentirei anche di consentire).

Qui, dunque, sta il punto. Il messaggio di quei meme ha perso ogni empito universalistico e politicamente produttivo: è soltanto la consolazione dei pochi buoni rimasti, asserragliati dentro la morale come in un fortilizio assediato. C’è però una certa differenza tra il sentirsi semplici meccanismi di una storia che segue inflessibilmente le proprie leggi – che è quanto hanno sostenuto in passato gli storicismi più positivistici e superficiali – e l’attribuire la colpa dell’ineluttabilità storica a un altro gruppo d’uomini e alla loro volontaria ignoranza.

A ben guardare, quei meme non sono che il versante morale (e moralistico) di una lettura politica oggi molto diffusa: la contrapposizione tra popolo e casta (per usare il lessico di chi si riconosce nel primo) o tra populismo e democrazia (per usare il lessico di chi si riconosce nella seconda). Ci siamo talmente abituati a questa coppia categoriale che non vediamo quanto sia politicamente superficiale e quanta realtà nasconda.

Negli ultimi trenta-quarant’anni abbiamo assistito a uno smottamento politico silenzioso ma inesorabile, come hanno visto acutamente, fra gli altri, Didier Eribon, Christopher Lasch, Jean-Claude Michéa. Con il Novecento è finita quella alleanza progressista tra comuni cittadini e élite, popolo e intellettuali, proletariato e piccola-media borghesia (o, anche, classe media riflessiva), alleanza che aveva reso i partiti dei lavoratori dei partiti di massa, capaci di essere trasversali rispetto alla faglia sociale del possesso del sapere.[viii] Oggi, nel cuore stesso della sinistra, si è aperta una crepa: c’è chi è open minded, a proprio agio nel mondo competitivo e globalizzato, dotato di competenze e agency, formato, emancipato, non necessariamente colto ma quanto meno pienamente alfabetizzato; c’è chi è troppo ignorante per acchiappare questo treno, che corre veloce e ti lascia facilmente a piedi in stazione.

Non ci si capisce più, è evidente. Ne abbiamo la prova in infiniti episodi: in un Francesco Guccini che afferma che dentro l’animo dei comunisti di un tempo si nascondeva già qualcosa di “leghista”; in una Selvaggia Lucarelli che commenta il passaggio di testimone di una regione già rossa come l’Umbria alla destra populista come una sorta di svelamento, “allora vuol dire che erano entrati in casa nostra per errore”.[ix] Come se le nostre categorie politiche presenti potessero essere astoricamente proiettate sul passato. Come se a votare Lega in Umbria fossero i comunisti di una volta e non i loro figli e nipoti (che sarà successo alla società nel frattempo?). Non facciamo molti sforzi per capire che è come se Marx ed Engels, Togliatti e Nenni, si fossero messi a sfottere il bofonchiante dialetto del metalmeccanico o del contadino (che non era open minded). Preferiamo sgridarlo per il suo buttarsi a destra, invece di chiederci perché abbia abbandonato la sinistra e il suo progetto di emancipazione.

Christopher Lasch ha chiamato tutto questo «la ribellione delle élite», invertendo la diagnosi primonovecentesca di Ortega y Gasset (La ribellione delle masse, 1930): sono state le élite politiche e intellettuali a perdere il contatto con le altre classi sociali, in una “serrata” che ha fatto della distinzione  culturale dall’uomo medio il criterio fondamentale di autoidentificazione. Eribon, nel suo saggio sociologico e autobiografico identifica le ragioni strutturali del passaggio della sua stessa famiglia, operaia, dalla fedeltà al Partito comunista, al discorso della madre “destra e sinistra sono tutti uguali”, al voto al Fronte nazionale della famiglia Le Pen. (Perfetta equivalenza dello slittamento Pci, Cinque stelle, Lega avvenuto in Italia).

Naturalmente guai a cadere in forme di populismo sentimentale ed estetizzante o di assoluzione morale dell’altrui ignoranza in quanto mera reazione al proprio buonismo: l’ignorante non è, necessariamente, un buono in potenza semplicemente ineducato. Ma la frattura è storicamente profonda e non sarà certo con il moralismo e il vittimismo che ce la caveremo. In questa situazione, infatti, si dà solo la possibilità di espressione di un odio incrociato: chi la storia non la studia scarica la propria rabbia di vittima, vera o presunta, contro qualche nemico (le élites europee, il governo, i professoroni); chi la studia, pur essendo un privilegiato (nel senso minimo del privilegio culturale, che oggi non implica necessariamente quello sociale ed economico), si sente a sua volta vittima, finendo così per percepirsi contemporaneamente da più e da meno. Una bella forma di schizofrenia politica.

 

[i]     Una ricerca nel corpus delle opere di Churchill da parte dell’America’s National Churchill Musem, per verificare se il leader inglese l’avesse citata da Santayana, ha dato esito negativo.

[ii] Si pensi alle battute di «Spinoza.it», che cita spesso una frase effettivamente pronunciata o un evento reale, aggiungendovi una deduzione o deformazione comica: «Azzolina: “Sui banchi di scuola ho letto cose ridicole”. E non ha ancora visto le gomme attaccate sotto», 31/7/2020; «Angela Merkel loda la disciplina degli italiani. Poi Conte ha elogiato la cucina tedesca», 13/7/2020

[iii]    Raffaele Simone, La Terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, 2006. Il miglior esempio di questa cultura interpolativa contemporanea è quanto è successo alla collega Rosaria Gasparro (Gianni Marconato ne ha ricostruito qui la vicenda): un suo post, che prendeva spunto da una brevissima citazione da Pasolini per sviluppare un proprio ragionamento sul valore della sconfitta, è stato catturato dal magma delle condivisioni e, fatto a brani e riadattato, è finito per essere attribuito tout court a Pasolini. Nonostante i tentativi di spiegare l’equivoco, se di equivoco si tratta, il meme continua a circolare imperterrito con questa paternità.

[iv]   Valentina Pisanty, I Guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, 2019, p. 17.

[v] George Santayana, The Life of Reason, consultabile alla relativa pagina del Progetto Gutenberg.

[vi] Daniele Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, 2001, ebook, pos. 114, corsivo originale.

[vii]   Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, 28 luglio 2020.

[viii]  Didier Eribon, Ritorno a Reims, Bompiani, 2017; Jean-Claude Michéa, I misteri della Sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, 2015 e Il nostro comune nemico. Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli, Neri Pozza, 2018. Christopher Lasch, La ribellione delle élite (ritradotto di recente da Neri Pozza con il titolo La rivolta delle élite, 2017). Ho l’obbligo di avvertire che per la necessità di esser breve, ho taciuto differenze di non poco conto fra questi autori. Resta una fortissima aria di famiglia tra i tre. Ringrazio Guido Mazzoni per avermi segnalato il libro di Eribon.

[ix]   L’affermazione di Guccini in un’intervista a Propaganda live; l’affermazione di Selvaggia Lucarelli sul suo profilo Facebook, 29 ottobre 2019.

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