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La scuola al bivio: tra mercato e autonomia

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

In Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato di Roberta Calvano, saggio snello ma denso, si riflette su vari nodi costituzionali che riguardano il sistema scolastico italiano, radicalmente mutato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in base a un percorso che, proprio nel nome dell’autonomia e del merito, ha finito, tra le varie criticità, per colpire lo status degli insegnanti della scuola e per minare la libertà di insegnamento. Di recente tale dato emerge con forza in relazione al progetto di attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni, previsto dall’art. 116 Cost., tema rispetto al quale l’autrice segnala tutti i rischi della regionalizzazione delle «norme generali sull’istruzione» e gli ostacoli di ordine costituzionale opponibili rispetto a tale progetto, in nome innanzitutto dell’unità nazionale e del ruolo dell’istruzione rispetto alla costruzione della cittadinanza.

L’autrice analizza l’evoluzione dell’istruzione in tre stadi: come funzione pubblica (da cui l’obbligo scolastico, «per almeno otto anni» [art. 34, c. 2 Cost.]), come servizio pubblico (parallelamente alla privatizzazione del pubblico impiego, nel 1993), e infine come servizio-merce, «offerto sempre più tramite forme privatistiche, da parte di soggetti in competizione tra loro, in concorrenza per risorse sempre più scarse» (p. 176).

Sebbene la Corte costituzionale (con la sent. 7/1967)  abbia precisato e distinto i concetti di insegnamento, istruzione, educazione, «comprendendo nel primo l’attività del docente diretta ad impartire cognizioni ai discenti nei vari rami del sapere, nel secondo l’effetto intellettivo di tale attività e nel terzo l’effetto finale complessivo e formativo della persona in tutti i suoi aspetti», Calvano segnala come, con Gramsci, si possa valorizzare il concetto di educazione, e dire che «nella scuola il nesso istruzione-educazione può solo essere rappresentato dal lavoro vivente del maestro» (Quaderni del carcere, q. 12, p. 1542 dell’ed. Gerratana). Se nel modello socialdemocratico (quello sostanzialmente sotteso alla Costituzione repubblicana) l’obiettivo dell’insegnamento è la libertà di scelta del cittadino, ovvero la sua piena realizzazione come individuo, a prescindere dalla concreta occupazione lavorativa e dal ceto sociale di provenienza, nel nuovo modello liberista le esigenze del mercato vengono prima di tutto, e la scuola è «funzionalizzata alla formazione della forza lavoro« (p. 25). Va detto che questa visione in Italia si è presentata con maggiore enfasi che negli altri Paesi europei, anche e soprattutto per nascondere l’arretratezza del tessuto economico di un Paese che non investe in ricerca e sviluppo, affidandosi a settori, come quello manifatturiero, messi in crisi dalla competizione globale; del resto, i dati macroeconomici denunciano uno svilimento delle nuove generazioni, con un tasso di disoccupazione del 10,2% e un tasso di impiego dei giovani laureati del 56,5% contro una media UE (19 Paesi), rispettivamente, del 7,6% e dell’80,1% (fonte: Eurostat). La scuola è stata scelta dai politici come capro espiatorio, in modo da distogliere l’attenzione dai veri responsabili (le aziende, che non investono in ricerca e sviluppo; il governo, che non finanzia adeguatamente la cultura, l’istruzione e la ricerca).

 

La studiosa sottolinea le convergenze tra il pensiero di Dewey e quello di Gramsci nella denuncia del rischio di una deriva classista del sistema scolastico; e, di fatto, i test INVALSI, per come sono stati impiegati (soprattutto sul piano della propaganda mediatica), hanno presentato il gap economico tra il Nord e il Sud del Paese come  frutto di un’atavica indolenza del Mezzogiorno, come se la mancata industrializzazione di un’ampia parte del Paese non dovesse avere ricadute sull’alfabetizzazione e sulla cultura dei ceti medio-bassi (quelli che incidono di più sulle statistiche). E così, all’inizio, si pretende dagli insegnanti, sempre più limitati nella loro libertà costituzionale di trasmettere conoscenze e valori civici, la soluzione dei problemi dell’unità socio-economica dell’Italia e della disoccupazione giovanile; ma, alla fine, il risultato è che si prende atto delle differenze e si ridefinisce il compito dell’istituzione scolastica approfondendo la distinzione tra scuole di serie A (quelle dei quartieri più ricchi) e scuole di serie B (quelle di periferia e di provincia). Nel frattempo è passato il concetto che gli insegnanti non sarebbero in grado di valutare e che l’addestramento ai test dovrebbe occupare una parte non irrilevante dell’orario scolastico; senza tener conto del fatto che, nelle scienze umane (a differenza delle scienze esatte), la didattica ha una ricchezza e varietà tali da non consentire una standardizzazione dei livelli, per cui spesso i test con correzione automatica (a risposta multipla o vincolata) possono dare qualche informazione sulle carenze di fondo (insufficienze gravi), mentre dicono ben poco sulla preparazione medio-alta degli studenti.

Calvano spiega che l’autonomia scolastica (l. 537/1993, art. 4) assimila la scuola «alle autonomie funzionali, una formula con cui ci si riferisce agli enti in posizione intermedia tra lo Stato e i cittadini, caratterizzati da una specifica funzione e dall’elemento costitutivo della rappresentanza degli interessi delle relative comunità» (p. 47). Si stigmatizza la rilettura neoliberista dell’autonomia, che potremmo riassumere nei seguenti aspetti: a) spesa pubblica per studente inferiore alla media OCSE; b) eccessiva precarizzazione del corpo docente (con le supplenze pluriennali censurate dalla Corte di giustizia europea, nel 2014, limitate a tre anni dal governo Renzi e poi di nuovo deregolamentate dal governo Conte); c) incremento dei compiti burocratici e amministrativi a carico degli insegnanti; d) alternanza scuola-lavoro, prima facoltativa, poi resa obbligatoria (dalla cosiddetta Buona Scuola), nell’orario scolastico, con evidente confusione tra istruzione e formazione professionale (nonché assenza di remunerazione o di prospettive concrete di assunzione alla fine del percorso scolastico); e) tendenza alla regionalizzazione del sistema, prodotta dalla riforma del titolo quinto, dalla confusione tra istruzione e formazione professionale, nonché dalla possibilità dell’autonomia differenziata, già chiesta da tre Regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna). Peraltro l’intreccio delle competenze (tra Comuni, Province, Regione e Stato) spesso non aiuta, e lo stesso si può dire dell’assenza di un disegno unitario nelle riforme della scuola che si sono succedute nell’arco di un decennio (le leggi 9 e 30 del 1999, la 53 del 2003, la 133 e la 169 del 2008).  

Riguardo all’obbligo scolastico, condivisibile è la critica a una legislazione che confonde tra istruzione e formazione professionale (il cosiddetto obbligo formativo), senza combattere davvero la piaga della dispersione scolastica e senza promuovere un progressivo innalzamento dell’obbligo (10 anni con la legge Berlinguer, 12 con la Moratti, di nuovo 10 con la Gelmini).

Da ultimo, l’autrice punta il dito contro l’autolesionismo dello Stato nell’affamare i suoi figli (trattando la scuola come un’attività commerciale), i quali poi lo uccideranno, ovvero cresceranno senza sentirsi più parte di una comunità fondata su una Costituzione che mette al centro il pieno sviluppo della persona.

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