Sul Colibrì di Veronesi
Pubblichiamo due note, una del nostro direttore Romano Luperini e una seconda del nostro redattore Emanuele Zinato, sul vincitore del Premio Strega 2020, Il colibrì di Sandro Veronesi edito per La nave di Teseo.
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Romano Luperini
La rivelazione dell’eterno ritorno dell’identico ha segnato la letteratura modernista del primo Novecento. Il nichilismo tragico di Kafka, l’amaro umorismo di Pirandello, lo smarrimento dinanzi all’insensata e ripetitiva rapina del tempo di Proust nascono da questo clima culturale. A un secolo di distanza questo tema è diventato banalità da conversazione mondana e oggetto di facile consumo estetico che lo riduce all’immagine ossimorica del “caos calmo” o del volo del colibrì, che muove freneticamente le ali per restare fermo nello stesso posto. Una rivelazione tragica è diventata consumo, merce letteraria, strizzatina d’occhio per dare una qualche dignità a una materia ormai diventata frusto ciarpame. Qui non esiste nemmeno più la letteratura, ma solo il suo utilizzo destinato a fornire una verniciatura estetica a un prodotto destinato al mercato dei premi letterari.
Veronesi ci ripete una storia di immobilità e di ripetizioni, dove ritornano gli stessi temi psicoanalitici, le stesse ossessioni superstiziose, le stesse vicende che dovrebbero essere tragiche (lutti e malattie a non finire) e che si ripetono invece in modo piatto e incolore in una ininterrotta cronaca di una vita ridotta a squallida iterazione delle stesse situazioni. Nessuna emozione. Nessun dramma. Nessuna vera felicità e nessuna vera infelicità. Nemmeno una increspatura. Il non-senso, un tempo tragico, è diventato ormai normale. Non scandalizza più. Lo stesso sperimentalismo organizzativo, che porta ad alternare date diverse avanti e indietro rispetto al normale svolgersi del tempo e che dovrebbe stare a significare l’identità immobile e scolorita di qualsiasi momento dell’esistenza, non fa che rendere ancor più faticoso un testo già di per sé noioso e stancante. La lingua è quella che si può sentire ogni giorno in ogni bar della capitale. Come non esiste alcuna possibilità di dramma, così il linguaggio che esprime tale situazione è privo di slanci e di sorprese, e ignora qualsiasi apertura al pathos e alla tensione. Come una ciliegina sulla torta non manca, alla fine, la nascita di un bambino (ma, visti i tempi, sarà una bambina) che, novello Messia, salverà il mondo. Come si vede, anche questa trovata affonda le sue radici nella mezza cultura dell’immaginario corrente quale è diffuso da romanzi fantascientifici delle serie televisive.
Veronesi ha vinto due volte lo Strega. Come Volponi, si dice. Ma i due, quanto a visione e capacità artistica, hanno in comune solo la lettera iniziale e quella finale del cognome. Ci sarà un giorno in cui si farà la storia del premio, dagli anni in cui la cinquina comprendeva nomi come, nel 1963, Fenoglio, la Ginzburg, Primo Levi a questi ultimi in cui i vincitori scompaiono dalla nostra memoria, senza avervi mai lasciato traccia.
Emanuele Zinato
C’è stato un tempo in cui era lecito per una rivista ospitare sezioni che, accanto ai libri da leggere, indicavano quelli da non leggere: penso a esempio alla rubrica dei Quaderni piacentini curata da Bellocchio. La critica militante, come espressione di un giudizio di valore argomentato, prevede infatti talvolta la stroncatura: non per esibizione muscolare ma per la salvaguardia di un’ecologia della letteratura.
Il libro di Sandro Veronesi vincitore dello Strega di quest’anno è un successo annunciato, favorito dalle strizzatine d’occhio e dal consueto tam tam che di solito finisce col premiare il libro più mediocre sul quale le fascette riversano un profluvio di superlativi: potente, neccessario, straordinario, unico. Stavolta però ha favorito il libro più vacuo e più furbo della sestina, emarginando quello più dignitoso (Almarina di Valeria Parrella) e contribuendo a diffondere un’idea di letteratura “circostante” ancora più esangue e più vuota.
Dal palco dei vincitori l’autore si è dichiarato “un italiano vero”, con una citazione da Toto Cutugno: un lapsus che del libro ha messo a nudo l’essenza. Marco Carrera, il protagonista, è il solito esemplare del ceto medio italiano che attraverso le voyeuristiche rivelazioni di un analista, apprende il vuoto su cui si fonda la sua vita relazionale, ma che cade sempre e “strenuamente” in piedi perché possiede l’arte di rimanere fermo dov’è: “tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei” (p. 297). Il suo passato è ricostruito mediante qualche lettera (negli anni ottanta) e poi attraverso molte mail e sms ammiccanti, riportati integralmente nel testo: con identificazione immediata del lettore che ritrova nei libro i materiali grezzi, irriflessi e intercambiabili, della nostra insignificante vita comunicativa. In tal modo gli “urti emotivi” del dottor Carrera e la morte stessa di chi lo circonda sono del tutto privati di tragicità, di realtà e di contraddizioni sociali (“pregare per tutte le navi in mare” mi sembra una scorciatoia a dir poco banale e insieme furbesca di trattare la tragedia dei migranti).
Per decidere di non leggere questo libro è sufficiente guardare in filigrana all’elogio sperticato scritto da Alessandro Piperno sul Corriere: la comparazione con Marias, la definizione iperbolica di “grande romanzo elettrizzante”, il “sacro fuoco progressista” attribuito all’autore, le metafore culinarie (“ti cuoce a puntino”) suonano palesemente false perché vogliono essere tali: nel mondo del vero-falso (come direbbe Francesco Pecoraro) la falsità va esibita, non dissimulata. Oppure basta scorrere il lungo elenco dei Debiti che chiude il volume (pp. 359-366): Fenoglio, Vargas Llosa, Pirandello, Beckett (nientemeno). E’ stato detto, durante la serata dello Strega, che come Volponi, Veronesi è il solo a essere per due volte vincitore. Un paragone bugiardo: se Volponi nella Macchina mondiale e nella Strada per Roma narrava con passione stilistica e civile le contraddizioni della corporeità, il vacuo Colibrì in una delle sue mail confessa l’attrazione per la pura superficie, “aspetto risposta e abbraccio lo schermo (p. 225). Del resto, Marco Carrera “non ha problemi”, “si sputtana” e fa i conti con una “ bambina speciale”: esibendo il frasario della banalità pretende in modo tracotante e al contempo seduttivo che il Lettore lo scambi per una “combinazione di disperazione e candore” (p. 359). Si può leggere di meglio: la letteratura di oggi non è del tutto devitalizzata di profondità problematica. Purtroppo, però, il successo di libri come questo contribuisce all’equivoco e al rumore di fondo.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
pure peggio
Salve.
In realtà, sono un po’ infastidito proprio dal CONCETTO riferito al colibrì.
Batte le ali per FARE una cosa importante: contrastare la forza di gravità che lo leverebbe dal suo cibo.
Infatti, fa come un’ape, che si ferma per annusare ed entrare nei fiori con il nettare, perché anche il colibrì sugge lo zucchero dall’interno dei calici dei fiori, con il suo sottile e lungo becco.
Anzi, il colibrì, è del tutto SPETTACOLARE !