La scuola (im)possibile
Premessa
Ogni ragionamento inerente fatti concreti, come le modalità di riapertura delle scuole a settembre, dovrebbe fondarsi su alcuni solidi dati di realtà.
Eppure nella scuola, tra docenti e personale ATA, e in certa misura anche tra i dirigenti scolastici, ma soprattutto tra le famiglie e nell’opinione pubblica, cresce il senso di disorientamento. La gran parte dei collegi dei docenti che si sono svolti a fine giugno ha preceduto l’approvazione delle Linee Guida definitive per la riapertura. Ciò ha prodotto situazioni difformi in un quadro già di per sé variegato rispetto alle caratteristiche degli edifici scolastici. Ci sono istituti che hanno iniziato una riflessione di merito per la riapertura, organizzando gruppi di lavoro e sottocommissioni e impostando soluzioni sulla base di alcuni scenari possibili. Altri hanno potuto avviare solo una riflessione più blanda: i dirigenti si sono limitati a enunciare alcune opzioni, ma di fatto non si è aperto alcun vero confronto. Ci sono poi anche istituti che non hanno discusso affatto, e ciò può essere dipeso anche da alcune altre fondamentali variabili, come quella relativa al grado di democraticità e di confronto interno a ogni singolo istituto, per cui è probabile che in alcuni casi il collegio docenti a settembre venga semplicemente chiamato a ratificare decisioni assunte dal dirigente e da pochi suoi collaboratori. Intanto le Linee Guida sulle quali si dovrebbe costruire la struttura per la eventuale nuova fase di Dad sono ancora in via di elaborazione. Anche in questo caso, quindi, le situazioni variano da istituto a istituto, per cui ci sono realtà che sono avanti con il digitale, in cui il confronto già nei precedenti mesi di Dad si è potuto impostare su basi anche metodologicamente fondate e che quindi saranno più pronte di altre, dove invece si è ancora nella fase dell’impressionismo. In questo contesto generale le analisi che riguardano sia i problemi concreti che pone la ripresa della didattica in presenza sia, dall’altro lato, la molteplicità di temi sollevati da tre mesi di Dad — temi che già di per sé potrebbero occupare la riflessione teorica di tre generazioni — rischiano di assumere un carattere del tutto parziale e circoscritto, restituendo appunto l’immagine globale di una realtà — quella della scuola — sfilacciata e sconnessa, fuori fuoco. Ciò paradossalmente accade mentre la ricerca sul coronavirus va avanti, mentre i sistemi di monitoraggio tutto sommato stanno dando prova di funzionare con una certa efficacia rispetto all’individuazione precoce di nuovi focolai. In altre parole questa realtà instabile e che certamente non ci piace si presenta ai nostri occhi in termini più definiti di febbraio. Eppure, mentre la situazione generale si precisa (che non significa si risolve), il destino della scuola si fa sempre più incerto. Perché?
Il quadro generale e lo specifico dell’umano
Il mondo è cambiato, niente sarà più come prima. È un refrain che si ripete da mesi. Ma non è solo un refrain. È appunto un dato di fatto. Nonostante le misure di contenimento dell’emergenza covid-19 si siano drasticamente allentate, l’ordine sociale che si sta sistematizzando come “corretto” paradigma di riferimento (moralmente e socialmente) appare come un ordine spiccatamente antisociale. E questo al netto del fatto che le misure siano state e siano chiaramente necessarie. Eppure la necessità, che potrebbe tornare impellente, non può far dimenticare che oggi, a rigor di logica (o ai sensi di legge), non sono del tutto praticabili (e quindi nemmeno concepibili) forme di fisica contestazione come ne abbiamo conosciute finora, che una normativizzazione — nemmeno poi tanto blanda — ha riguardato gli aspetti più intimi della vita delle persone (si pensi alla questione «congiunti»). Non solo. Per molti lavoratori lo smart working diventerà probabilmente una realtà a prescindere dal virus, ci sono dipendenti di alcune aziende per le quali, ad esempio, è già stato prolungato fino a settembre. Le conseguenze sulla vita di relazione e sul peso stesso delle relazioni umane nelle attività lavorative è notevole, anche in termini di semplice produttività. Ciò che rileva ai fini di questo ragionamento non è il perché ciò stia accadendo — la pandemia — ma il fatto che stia accadendo e che tutto questo riguarda la scuola in modo decisivo, e non solo limitatamente ai problemi operativi richiamati in premessa. Quando nella presentazione della commissione presieduta da Vittorio Colao il primo ministro Giuseppe Conte parlò apertamente della necessità di «ripensare modelli di vita sociale» ci si sarebbe aspettati appunto nuovi modelli di riferimento. In realtà già ad aprile si chiarì piuttosto rapidamente in che termini andavano intese le affermazioni del premier. È del tutto evidente che un conto è piegare gli spazi della nostra socialità all’emergenza e portare le persone a stare insieme in modo innaturale e a servizio di un sistema che non si mette in discussione (e infatti le fabbriche del Nord sono rimaste aperte, ad esempio), tutt’altra cosa è attivare interventi di prevenzione diffusi e ripensare gli spazi in modo da consentire alle persone di potersi aggregare ed esistere ancora come comunità dotate di senso. Se non si riconosce valore all’incontro tra le persone e alle comunità umane in quanto tali, forme sempre più spinte di smart working rappresentano quindi una soluzione perfino razionale e vantaggiosa (si risparmia sul costo degli spazi, si recuperano i tempi di spostamento, si utilizzano meno i mezzi di trasporto, con ricadute positive sull’inquinamento, e così via). La scuola oggi sta dentro questo magma in divenire e in quanto comunità educante e microcosmo di socialità è il luogo, non solo fisico, in cui più che altrove si sta implicitamente consumando un conflitto ancora ai margini della nostra coscienza. Eppure questo conflitto esiste e richiede una riflessione consapevole rispetto a un interrogativo cruciale, che riguarda gli asili quanto le università: cosa siamo disposti a riconoscere come esperienza umana significativa, prima ancora che come esperienza valida sul piano didattico ed educativo? Cosa è negoziabile e cosa non lo è perché una comunità umana possa sentirsi e riconoscersi come tale? Cosa è necessario esigere nella progettazione del rientro in classe a settembre a fronte di queste epocali premesse, che modificano il nostro stesso orizzonte di senso? Questo dunque il primo piano sul quale fare chiarezza. Senza porre a noi stessi questi interrogativi in modo sostanziale, si rischia di non porre neppure argini alla retorica del refrain istituzionale, che sotto i colpi de «il mondo è cambiato, niente è più come prima» prepara semplicemente il terreno alla presentazione di soluzioni — segnatamente la Dad — che, in caso di nuova emergenza, saranno date come ineludibili, semplicemente perché meno dispendiose in termini economici.
L’impossibile rientro e il depistaggio istituzionale
Come è stato argomentato su questo blog sul rientro a settembre è impossibile non rilevare una discrepanza tra «principi e azioni», tra ciò che è enunciato in alcune parti delle Linee Guida e la concretezza degli interventi. Discrepanze che, anche nel discorso pubblico della ministra Lucia Azzolina (si veda a titolo di esempio l’intervista del 2 luglio nell’ambito della trasmissione “In Onda” su La7), hanno ormai superato il limite delle contraddizioni accettabili. Ma che cosa sta accadendo veramente? Le Linee Guida mettono in piedi un sistema di tavoli e conferenze tra scuole ed enti locali, che restituisce l’illusione di una grande operatività e sulle cui enunciazioni in tanti si stanno arrovellando e stanno lavorando senza risparmiarsi, come accennato in premessa, quando poi la notazione che il distanziamento di un metro andrà misurato tra le «rime buccali» degli alunni basta da sola a far crollare tutto il castello, a chiarire che si tenta semplicemente di guadagnare spazio sulla carta e che i banchi saranno disposti come prima, fatti salvi i casi, non certo incidentali, di classi numerose. Le conseguenze saranno ovvie per i mesi in cui si teme una ripresa dei contagi, perché se non ci sarà un vero distanziamento nelle classi, saranno le scuole a diventare uno dei luoghi di massima diffusione del virus. Di là dalle enunciazioni, la Dad diventerà ineludibile nei fatti, come lo sarà in tutti quei casi in cui non si potranno distanziare nemmeno le rime buccali. Dunque, a che servono queste Linee Guida se non a fornire nei fatti una sorta di diversivo per attuare un vero e proprio depistaggio rispetto a ciò che effettivamente accadrà, e cioè una nuova stagione di Dad? Tanto più che la ministra Azzolina, mentre non fa che ripetere in televisione che tutti saremo di nuovo in classe a settembre, si affretta però a stanziare fondi per la digitalizzazione di tutti gli istituti, in via prioritaria. La circostanza non rappresenta certo un disvalore, anzi, la digitalizzazione è assolutamente auspicabile e necessaria perfino a prescindere dall’emergenza, visti i ritardi di molte realtà da questo punto di vista. Ma perché non si registra la stessa prontezza negli investimenti sull’edilizia scolastica? Anche perché il quadro variegato richiamato in premessa ci parla di disuguaglianze nel panorama nazionale che si dovrebbe tentare di abbattere e che non andrebbero invece “utilizzate” per delegare agli istituti e agli enti locali l’organizzazione del rientro. Del resto nella richiamata intervista di La7 è evidente che la ministra non ha minimamente chiarito nel merito le questioni che qualche giornalista ha correttamente posto. La ministra, ad esempio, ha sottolineato che le scuole hanno piena autonomia nella rimodulazione delle unità di lavoro — cosa che avrebbe senso se la rimodulazione del monte ore fosse funzionale a una doppia turnazione, dato che gli insegnanti saranno sempre gli stessi — ma allo stesso tempo ha affermato che le Linee Guida non parlano di doppi turni, facendo chiaramente capire che non intende incoraggiare questa soluzione. L’unica strada sarebbe quindi proprio quella di lavorare sugli spazi, ma sugli spazi non si è lavorato. Si è semplicemente delegato, creando una miriade di situazioni diversificate. E allora, di cosa stiamo parlando? Va da sé che il dato di realtà di cui bisogna tenere conto non è rappresentato tanto (o solo) dalle Linee Guida, che non sono un vero piano di rientro, quanto dall’atteggiamento fuorviante e mistificatorio del Ministero e che rispetto a questo atteggiamento ogni argomento razionale è destinato a naufragare, perché la razionalità è negata in premessa, l’incoerenza è assurta a legge. Anche da questo punto di vista, quindi, è forse giunto il momento di prendere atto che il Ministero non ha alcuna intenzione di affrontare il problema su un piano sostanziale (del resto, si stanno predisponendo le Linee Guida per la Dad, ma quando e dove è stato sentito il parere degli insegnanti, che per mesi l’hanno sperimentata?) e che le questioni, di nuovo, vanno forse poste in termini maggiormente conflittuali.
La solitudine dei lavoratori della scuola
Da febbraio, a seconda delle regioni, e da marzo comunque, tutti gli insegnanti hanno lavorato in un totale vuoto sul piano normativo e sentendosi nella terribile condizione psicologica di non potersi sottrarre a nessuna richiesta. Su di loro, attraverso i loro corpi e la loro psiche, sono transitate le conseguenze di tutte le imperdonabili leggerezze e degli errori che sono stati compiuti a livello ministeriale, come quelli che possono essersi verificati, in modo più o meno spiccato, nei singoli istituti. Tutto questo è stato normale, senza che si sia sentita una parola in difesa degli insegnanti, in quanto lavoratori. Senza che gli stessi docenti si siano sentiti nella condizione di poter avanzare alcuna rivendicazione, data l’eccezionalità dei fatti. Va bene, era l’emergenza. E adesso? Ora, mentre si stanno definendo (come accennato sopra) le Linee Guida per la didattica digitale, la ministra ha anche annunciato che è in atto un confronto con i sindacati. Il resoconto dell’incontro svoltosi il 2 luglio tra le organizzazioni sindacali di categoria e il Comitato Tecnico Scientifico (consultabile sul sito della Cgil Scuola: mostra chiaramente che il confronto ha riguardato solo la definizione dei protocolli di sicurezza da seguire nella nuova situazione. Inoltre, le assemblee sindacali che si sono svolte negli ultimi mesi di scuola sono state poche, se confrontate con la rilevanza delle questioni che si sono aperte, e poco partecipate, spesso anche per questioni di priorità e di urgenza sul piano didattico. Quindi, quali sono le proposte dei sindacati per tutelare i lavoratori nel caso in cui si apra una nuova stagione di Dad? Il contratto di lavoro dei docenti prevede che la funzione docente e le funzioni accessorie vengano esercitate in un contesto fisico. Del resto, se è vero che la definizione dei confini entro i quali iscrivere il lavoro dei docenti in caso di Dad da un lato rappresenta una priorità, dall’altro è vero anche che ogni modifica del contratto che proponesse l’introduzione di casistiche specifiche connesse alla Dad implicherebbe conseguenze che vanno ben al di là dell’ambito scolastico e che sono connesse appunto ai temi richiamati nel primo di questi paragrafi. E cioè: qual è lo specifico di un’esperienza umana come quella dell’insegnamento? La risposta va declinata concretamente su una molteplicità di piani (mansioni, funzioni, tempi di lavoro, forme di controllo, aspetti normativi, aspetti didattici e così via) e non può quindi che essere una risposta complessa. Ma nel doveroso esercizio di concretezza che ogni operatore della scuola oggi è tenuto a compiere, oltre la praticabilità e perfino oltre la stessa efficacia di ogni ipotesi di Dad, questo interrogativo va tenuto acceso e vitale, perché la risposta a questa domanda è anche la pietra miliare della scuola che verrà.
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