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diretto da Romano Luperini

Ideali 2017 11

Il piano inclinato. La scuola di settembre: architetture ideali e realtà

 Un punto di vista

Sono entrato nel liceo scientifico di Pinerolo il 1 ottobre 1976 e non ne sono più uscito, tranne che per gli studi universitari e il servizio civile. Quell’anno, aveva preso il nome da “Marie Curie”, trasferendosi in una nuova sede: un edificio nuovo, enormemente sovradimensionato (ricordo per esempio l’aula di disegno, da cui nei decenni successivi ne sarebbero state ricavate quattro). C’erano tre o quattro sezioni, a seconda degli anni (circa 400 studenti); oggi ce ne sono dieci o undici (circa 1100 ragazze e ragazzi). 

Il richiamo all’esperienza personale non è un semplice aneddoto, ma serve ad inquadrare entro limiti corretti le opinioni che esprimerò in quest’articolo.

Da una parte, infatti, le mie considerazioni nascono da un intimo radicamento nel territorio pinerolese, da una conoscenza precisa della storia e delle caratteristiche – anche fisiche – della scuola in cui, il prossimo anno, ci troveremo a sperimentare in avvio dell’anno scolastico. Dall’altra, la mia appartenenza esclusiva a questa precisa scuola traccia i confini ristretti entro i quali collocare le mie idee: un liceo scientifico, collocato fra le valli e la pianura, in un centro studi affollatissimo, nella provincia piemontese.

Fra i numerosissimi temi del dibattito innescato dalla lettura del Piano di rientro a scuola mi soffermerò quindi solo su alcuni di quelli legati alla secondaria di II grado, immaginando di calare i principi e le considerazioni generali nella concretezza del “mio” territorio, teatro dell’azione di una precisa istituzione scolastica.

Ragionare sul rapporto fra teoria e pratica è l’unico modo, secondo me, per tentare di uscire dalla trappola delle semplificazioni e dei pregiudizi.

Scuola nuova in spazi vecchi?

Nella realtà che conosco, non è mai successo, nemmeno in occasione delle riforme più radicali e intempestive (che non sono certo mancate), che venissero messi in discussione il “dove” e il “quando” dell’attività scolastica: luoghi, movimenti, tempi, scansioni della vita della comunità erano sempre stati punti di riferimento, dei quali si sarebbe potuto credere che fossero immutabili.

È invece evidente, come abbiamo cominciato a sperimentare, che il confronto sui fondamentali della nostra vita professionale continuerà nel prossimo anno anche in relazione a queste dimensioni, e che la nuova esperienza potrebbe gettare le basi per una scuola diversa.

Se penso allo spazio del nuovo liceo “Curie”, mi si presentano diversi dubbi.

La nostra comunità è costituita per più del 50% da ragazze e ragazzi che arrivano da lontano (10, 20, 30 km, nelle valli Chisone e Pellice; altrettanti verso Orbassano, Nichelino, Candiolo) e ripartono  in treni e pullman sovraffollati, in un centro studi quasi esclusivamente di secondarie di secondo grado con le stesse caratteristiche. Come si affronterà questa questione, pensando ad un passato in cui a volte ci sono voluti mesi di trattative con le aziende di trasporto, per ottenere spostamenti delle corse di pochi minuti? Quella delle scuole pinerolesi è una città nella città. Riuscirà il Tavolo regionale operativo del Piemonte (Piano scuola, pagg. 3, 4), di concerto con il Tavolo di lavoro coordinato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Piano, pag. 9) a sciogliere nei prossimi due mesi nodi inestricabili in decenni di “normalità”?

Un secondo ordine di problemi spaziali è legato all’interno dell’edificio, in cui negli anni sono stati occupati tutti gli spazi disponibili, inventando di volta in volta soluzioni organizzative (i laboratori usati a rotazione come aule normali) per risolvere problemi di didattica e di sicurezza (l’annoso problema della presenza a terra degli zaini, impedimenti sulle vie di fuga). Sarà questa la realtà che risulterà, quando sarà consultabile il “cruscotto informativo” (Piano, pag. 4), scorrendo il quale, tramite un semplice cursore, si colorerà di rosso ogni singola aula non adeguata all’attuazione delle misure previste dal Comitato Tecnico Scientifico.

Dovremo quindi metterci alla ricerca di parchi, musei, palestre. Ma quali? E attrezzati con quali strutture che rendano possibile una qualsiasi attività didattica per i nostri studenti?

Infine il tema della vivibilità all’interno della scuola, durante le diverse fasi della vita della comunità. Qui ci soccorre la recentissima esperienza dell’esame di Stato, che si è svolto con efficaci misure di precauzione e distanziamento. Nei giorni dell’esame, però, la presenza media per aula è stata di 8/ 9 persone; a livello d’istituto, di circa 100 persone al giorno. Saranno 1200, al rientro.

Nelle condizioni date, neppure pensando di intrappolare ogni studente in una sorta di cilindro semovente risulta pensabile immaginare anche un semplice intervallo.

Didattica digitale di soccorso

Sembra proprio che per noi (per le superiori?), ci siano solo due modi di uscirne: truccare i numeri, oppure ricorrere a dosi massicce di didattica a distanza.  Questo ben al di là del quadro tracciato nel Piano, dove si sottolinea la funzione importante, ma puramente “integrativa”, di questa forma di insegnamento (“in via complementare, didattica digitale integrata”, pag. 6).

Possiamo immaginare di fare tesoro delle preziose esperienze dei mesi scorsi e di intensificare il dibattito e la formazione sul tema (in questa prospettiva, indubbiamente il documento ministeriale ci soccorre). Dovremo anche pensare ad eccezioni significative (la scuola delle nuove prime dovrà essere quasi tutta in presenza, se vogliamo costruire gruppi solidi) e a forme miste ragionevoli (momenti di sintesi in presenza per ciascuna materia? Individuazione di discipline in cui la distanza non comporti significative riduzioni nei contenuti o negli obiettivi?).

Orologi molli per misurare il tempo scuola?

Nel documento ministeriale, sembra invece prevalente l’idea di affrontare i problemi di spazio modificando profondamente la struttura tradizionale del tempo-scuola. Tuttavia, qualsiasi misura di ingegneria flessibile si intenda adottare (a pag. 6 del documento si parla per esempio di “riconfigurazione del gruppo classe”, “articolazione modulare”, “turni differenziati”) si scontra inesorabilmente (solo al “Curie” di Pinerolo?) con la rigidità e l’insufficienza degli spazi. In termini matematici, la conseguenza estrema, ma razionale, di questo stallo porta a due opzioni: dimezzare il tempo di insegnamento o raddoppiare/ aumentare significativamente il numero degli insegnanti.

In questo senso, uno strumento flessibile (e legittimo, fatti salvi i doverosi accordi sindacali) potrebbe essere – entro limiti precisi – l’organizzazione oraria: già nel DPR 8 marzo 1999, n. 275, il provvedimento che ispira direttamente alcuni aspetti del Piano di rientro 2020/ 21, si parlava infatti di “definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l’unità oraria della lezione”. Nella stessa direzione sembra muoversi il documento odierno, anche quando cita testualmente la “aggregazione delle discipline in aree e ambiti disciplinari”.

È chiaro però che ridurre l’ora a 40 minuti o lavorare ad una didattica (per temi? Per problemi?) che preveda l’aggregazione non episodica di più discipline, non attiene tanto all’architettura spazio-temporale del nostro lavoro, quanto piuttosto alle sue finalità culturali, civili e sociali più profonde e significative. A una dimensione, quindi, che non riguarda  “dove” e  “quando” insegnare, ma “cosa”, “perché” e “come” farlo.

Finalità e modalità dell’insegnamento

Le disposizioni ministeriali sembrano riprendere idealmente il filo di quel “vecchio” decreto, ma ne riducono sensibilmente la complessità e la portata innovativa.

Berlinguer intese infatti – al di là dell’acceso dibattito aperto in quel contesto storico – lavorare in tre direzioni: l’articolazione dei curricoli, per rendere  possibile un’integrazione concreta fra la definizione di un profilo culturale pubblico e nazionale, da una pare, e la valorizzazione di risorse ed esigenze locali, dall’altra; l’adozione di strumenti organizzativi flessibili e adattabili ai singoli contesti istituzionali ed educativi; l’avvio di una stagione di sperimentazioni didattiche, metodologiche ed organizzative che avrebbero misurato l’effettiva utilità e la portata delle innovazioni introdotte nei differenti ambiti del percorso formativo.

Oggi, invece, la preoccupazione sembra investire esclusivamente le modalità organizzative e, sul versante didattico, le questioni metodologiche.

In altri termini, si dà per scontato che le domande su “cosa” insegnare e “perché” siano assorbite, quasi sovradeterminate, da quelle su “come” farlo:  l’enfasi posta sulle risorse digitali e l’impostazione fortemente metodologica prevista per la formazione dei docenti ne sono indizi chiari; come l’assenza, fra i soggetti consultati in vista della redazione del Piano di rientro, delle associazioni disciplinari.

Al “digitale”, la cui utilità pratica è ovviamente fuori discussione, si attribuisce un potere quasi magico di svecchiamento dell’istituzione e di composizione di qualsiasi frattura esistente dentro la scuola, e nei suoi rapporti con il mondo.

Come ho provato ad argomentare in un recente articolo, però, le cose non sono così semplici.

Usare un canale nuovo non significa di per sé innovare i contenuti, o restituire alla scuola un ruolo sociale che sembra avere progressivamente perduto. Lo aveva capito bene Berlinguer, quando metteva all’ordine del giorno “la ricerca didattica sulle diverse valenze delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e sulla loro integrazione nei processi formativi” (DPR 275, art. 6).

Nuova scuola o nuovo storytelling?

Nel Piano, e nei documenti che lo accompagnano (come la lettera pubblicata dalla ministra sul blog delle Stelle,) trovano spazio semplificazioni piuttosto marcate.

In particolare, una retorica degli affetti che ricorda certi spot pubblicitari del periodo di lockdown: tricolore, prima persona plurale, enfatico ricorso a parole come “insieme”, “alleanza”, “comunità”. Un racconto univoco, che confina nell’ambito di un sospetto disfattismo le critiche legittime che vengono da dirigenti ed insegnanti su temi cruciali: il tema delle responsabilità, lo scarico sulle singole scuole di ogni decisione didattica ed organizzativa.

Questioni serissime, sulle quali conforterebbe molto ascoltare controdeduzioni argomentate e precise da parte del ministero e dei tecnici.

Personalmente, mi piacerebbe essere rassicurato su alcune perplessità.

La prima riguarda il percorso temporale e la razionalità complessiva degli interventi, descritti dal ministero in modo lineare e produttivo. Questa descrizione cozza, mi pare, con l’esperienza di chi conosca il meccanismo di funzionamento del settore pubblico. Quando si sente parlare dell’istituzione di Tavoli, Conferenze di servizio, documenti di prossima, imminente, pubblicazione, l’arco cronologico che viene in mente non è esattamente quello di due mesi, uno dei quali è agosto.

Pur dal mio piccolo osservatorio, inoltre, il coordinamento degli interventi non sembra ottimale; la classe seconda in cui ho insegnato quest’anno è forse la migliore che abbia mai avuto, ma a settembre potrebbe non esistere più: l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte ha infatti fatto i calcoli, e stabilito che al nostro istituto spetta una terza in meno. Avremo così, in epoca di retoriche dichiarazioni sulle classi pollaio, 5 terze di 27/ 28 studenti, anziché 6 di 22/ 23.

Queste discrepanze e contraddizioni fra principi e azioni  determinano sfiducia e fatalismo: l’approvazione e la successiva attuazione delle disposizioni previste rischia allora di essere puramente formale, frutto non di un processo condiviso di ridefinizione di tempi, obiettivi, modalità, bensì semplicemente dell’adesione ad un dovere che si percepisce come imposto.

Una sorta di “rassegnazione burocratica” (gli adempimenti formali sono descritti nel Piano con molta precisione), esattamente opposta alla coralità e consapevolezza auspicate da documenti e dichiarazioni pubbliche di chi guida la scuola.

Qualche dubbio sussiste anche sul versante delle “alleanze” alle quali si fa riferimento nei documenti. Per esempio, la “comunità educante” alla quale ci si richiama nelle prime righe del Piano come “insieme di portatori di interesse della scuola e del territorio” (espressione coniata dall’inglese dell’economia “stakeholder”) non è esattamente coesa; spesso, inoltre, gli “interessi” di cui sopra non coincidono affatto.

La stessa descrizione dell’alleanza fra famiglie e insegnanti è poco realistica, e sappiamo quanto ci sia da lavorare per condividere valori e prospettive.

Su questi dubbi mi piacerebbe essere rassicurato.

Mi è chiaro invece che, se “andrà tutto bene”, sarà in virtù della volontà etica di chi saprà guardare oltre l’ottimismo istituzionale, per superarne le trappole e le contraddizioni.

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