Scuola e pandemia: la scelta della Francia
Dall’ agosto 2019 vivo in Francia, a Parigi, il che è significato lasciare la scuola secondaria di primo grado dove insegnavo e catapultare tutta la famiglia in una realtà diversa, figli alla scuola secondaria di primo grado compresi; così dalla mia situazione sospesa, da insegnante e genitore, ho vissuto questo periodo come l’occasione di osservare le scelte di un altro Paese in materia di istruzione e di fronte alla pandemia.
I miei figli qui a Parigi sono tornati a scuola dallo scorso martedì, il 2 giugno, eravamo tutti un po’ emozionati, era chiusa dal 16 marzo: la scuola che riapre è una bella sensazione, una dose di energia e speranza. Per me poi, che ritengo la scuola respiro di un Paese, è stato come tornare a respirare.
Il mio è però un osservatorio molto limitato, abito in un quartiere alle porte della città, le 20ème, Porte de Montreuil, nell’Est parigino; le scuole qui sono classificate nella Zona di Éducation Prioritaire: istituti inseriti in contesti socio economici complessi e che hanno diritto a un maggior numero di fondi, ad un minor numero di studenti per classe e a sussidi per gli studenti.
Quella che leggerete quindi è ciò che ho visto e vissuto, senza pretesa di analisi sociologiche.
Prove di riapertura in Francia.
In Francia c’è stata fin dall’inizio una forte volontà, da parte del governo sicuramente, ma anche da parte di una certa percentuale di insegnanti e famiglie, di provare a riaprire le scuole e il dibattito su opportunità e modalità ha occupato uno spazio notevole nella scena politica e sociale.
All’inizio di maggio il governo ha fornito alle scuole, ai comuni e ai dipartimenti un protocollo sanitario molto rigido e ha fissato delle date comuni di riapertura, diverse a seconda del grado di scuola e a seconda delle zone verdi o rosse (divise in base alla diversa situazione di emergenza sanitaria): dall’11 maggio per tutte le scuole dell’infanzia e le primarie, dal 18 maggio per le scuole secondarie nelle prime zone verdi e dal 2 giugno nelle restanti zone. Il protocollo sanitario si fonda su cinque aree di intervento: il distanziamento fisico (inizialmente fissato in 4 mq per allievo); i gesti barriera (lavaggio mani; mascherina a partire dalla secondaria di primo grado; areazione dei locali); la non mescolanza degli allievi (classi e gruppi fissi); la pulizia e sanificazione di ambienti e materiali; la formazione, informazione e comunicazione. Spettava poi alle singole scuole, in accordo e collaborazione con le relative amministrazioni locali di competenza, la responsabilità di riaprire, verificando la possibilità di rispettare le misure sanitarie e le date fissate dal governo. Il ritorno a scuola è avvenuto in maniera progressiva, prima di tutto per alcune situazioni prioritarie, sempre su base volontaria da parte delle famiglie: in tutta la Francia si calcola che in questo periodo 1,8 milioni di alunni e alunne su 6,7 milioni sono tornati a scuola in presenza, per lo più per un tempo parziale.Domenica scorsa il presidente francese ha annunciato che dal 22 giugno la frequenza scolastica tornerà invece obbligatoria per tutti gli alunni e le alunne delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, nelle ultime due settimane di scuola (in Francia il termine delle lezioni è fissato per il 4 luglio). È uscito quindi in questi giorni un alleggerimento del protocollo sanitario – ed è ancora in evoluzione – per permettere l’accoglienza a scuola di tutti, aumentando anche il numero massimo di alunni per gruppo.
In particolare sono cambiate le regole sul distanziamento fisico, che diventa di un metro laterale (e non più di 4 mq per allievo): nessun distanziamento fisico per le scuole dell’infanzia nel proprio gruppo/classe chiuso; per primarie e secondarie di primo grado resta la distanza di un metro ma solo al chiuso e non all’esterno. Qualora lo spazio interno non dovesse consentire tale distanziamento si dovrà cercare comunque di mantenere la maggior distanza possibile tra i banchi e in quel caso i ragazzi e le ragazze maggiori di 11 anni dovranno portare la mascherina anche a lezione. Per i licei, per i quali però la frequenza non sarà obbligatoria, resta il distanziamento fisico di un metro all’interno e all’esterno. Inoltre, per quanto riguarda le mascherine – sempre solo a partire dalle secondarie di primo grado – diventano obbligatorie solo negli spostamenti e per gli adulti solo se non si resta a distanza di un metro.
Qui a Parigi – che è stata zona rossa per più tempo – dall’11 maggio hanno riaperto in maniera progressiva le scuole dell’infanzia e primarie, in piccoli gruppi (da 4 a 15 alunni in base all’età) e per pochi giorni a settimana, in primo luogo per alunni e alunne i cui genitori devono lavorare fuori casa, per situazioni di fragilità e vulnerabilità sociale e scolastica, per le zone di educazione prioritaria (al 28 maggio il 19% degli alunni e alunne). Vale la pena ricordare che per i figli del personale sanitario le scuole sono sempre restate aperte (a Parigi si parla di una ventina di scuole): in Francia il cittadino si aspetta che sia lo Stato a rispondere ai suoi bisogni e a prendersi in carico i cittadini più fragili, soprattutto quando si tratta di alunni. Per tutti gli altri studenti è stata attivata anche qui la didattica a distanza (l’école à distance, l’école à la maison), anche grazie alla presenza di una piattaforma digitale nazionale e molti genitori hanno potuto usufruire del chômage partiel per restare a casa.
Il controllo sulla diffusione del contagio è stato molto forte ed è arrivata anche in Italia la notizia che, dopo una settimana dalla riapertura, 70 scuole (su 40.000 riaperte in tutta la Francia) sono state immediatamente chiuse in via precauzionale a causa della scoperta e segnalazione di alcuni casi di Covid-19, che si erano ovviamente contagiati prima della riapertura. Peccato che in Italia, invece che sottolineare come il controllo e la responsabilità civica funzionino, l’informazione abbia indotto piuttosto a pensare che il contagio fosse avvenuto a scuola e che quindi aprire le scuole sia pericoloso e sbagliato.
Dal 2 giugno hanno cominciato a riaprire progressivamente a Parigi anche le secondarie di primo grado e i licei professionali e ora sono aperte, sempre in maniera parziale e su base volontaria delle famiglie, il 97% delle scuole parigine.
Il collège (secondaria di primo grado) dei miei figli ha deciso all’inizio di accogliere tutti gli alunni e le alunne delle 6ème e 5ème (prima e seconda classe) e dei corsi UPE2A per i non francofoni e in seguito dal 14 giugno anche le 4ème e 3ème. La risposta è stata abbastanza alta e per gli alunni che non sono rientrati a scuola è continuata la didattica a distanza. Il nostro collège si trova in una Zona di Educazione Prioritaria, in cui la didattica a distanza ha fatto emergere ancor più le disuguaglianze sociali e dimostrato la sua inefficacia. Gli insegnanti, con modalità e strumenti molto diversi (dalla scomparsa totale di alcuni – forse malati? forse in permesso per garde d’enfant? – all’assegnazione di compiti con autocorrezione, correzione via mail, condivisione su Padlet, creazione e gestione di un blog, richiesta di foto/registrazioni/video/installazione di app di altri) hanno per lo più cercato di mantenere un contatto e di ri-agganciare alunni e alunne. Le lezioni on line non riuscivano a raggiungere buona parte degli studenti, basti pensare che nell’unica ora a distanza settimanale la presenza era da 2 a massimo 8 alunni e posso presumere analoghe difficoltà con le modalità asincrone.
Ma ora a scuola sono tornati. E dal 22 giugno la frequenza sarà obbligatoria per tutti.
La scuola che hanno trovato è molto diversa e ci sono tante regole in più: le classi sono state divise in due gruppi (uno al mattino e uno al pomeriggio) e fanno soltanto tre ore al giorno; ogni classe ha la sua aula (invece di solito in Francia le classi si muovono nelle varie aule delle discipline) e ognuno ha il suo banco fisso, contrassegnato da un’etichetta, distanziato dagli altri; bisogna portare sempre la mascherina (la scuola ne ha consegnate 4 lavabili a testa), tranne durante la lezione; si può andare in bagno solo tre alla volta (e solo durante la ricreazione, ma questo succedeva anche prima); bisogna sempre mantenere una distanza fisica di un metro; prima di entrare a scuola viene misurata a tutti la temperatura. Dal prossimo lunedì alcune regole cambieranno, in particolare sul distanziamento fisico.
È un grande banco di prova, necessario, e forse a settembre si potrà pensare di allentare nuovamente il protocollo sanitario, che nella sua prima versione era molto rigido e difficile da rispettare – in particolare pensando ai più piccoli – ed è stato molto contestato da docenti, genitori e anche dalla comunità dei pediatri francesi.
Una prova con luci e ombre, non senza difficoltà e polemiche, ma in tutto ciò io ne ho comunque vista la lumière e ho apprezzato la volontà di riconoscere la scuola come priorità, di riconoscerle una parte e un ruolo importante, fondamentale, nella riapertura di un Paese. E di investirvi quindi un po’ di risorse. Non tante, in realtà, per questa riapertura così parziale, lasciata soprattutto, nella pratica, sulle spalle e all’impegno del personale scolastico. Ma è soprattutto il sistema dell’educazione francese a essere molto più solido rispetto a quello italiano.
E in Italia?
Non è possibile (e non è mia intenzione) fare un confronto con l’Italia: siamo Paesi diversi, con una diversa concezione dello Stato e con sistemi scolastici differenti. Alcuni esempi: il calendario scolastico è diverso; il personale scolastico a supporto dei docenti è molto più numeroso, è differenziato nei ruoli e alcuni hanno anche un ruolo educativo; la scuola pubblica è quella del quartiere – assegnata dal Ministero in base alla residenza e non scelta dalle famiglie – raggiungibile a piedi (e quindi non smuove tutto il problema dei trasporti, come purtroppo invece spesso in Italia). Attenzione poi: non è il migliore dei mondi possibili perché molte famiglie, non potendo scegliere in quale scuola pubblica iscrivere i propri figli, si rifugiano nelle scuole private e la disuguaglianza nei percorsi scolastici, tra i diversi quartieri e anche al loro interno, è molto forte. Per esempio il nostro collège, pur essendo inserito in una zona caratterizzata da una ricca mescolanza etnica, culturale e sociale, è invece penalizzato da una forte omogeneità nella sua composizione, accogliendo per la maggior parte alunni e alunne provenienti dalle numerose case popolari della zona. Confrontandoci con gli insegnanti abbiamo scoperto che la maggioranza delle altre famiglie del quartiere ha scelto infatti una delle tante scuole private, sottraendo alla scuola pubblica di riferimento i propri figli e quindi di fatto negandole la ricchezza pedagogica e la potenzialità educativa che derivano dalla mescolanza, dalla diversità culturale e dalla disomogeneità sociale nella composizione delle classi.
Nell’attuale emergenza sanitaria, rispetto alla Francia, in Italia mi sembra che la scuola sia stata messa da parte abbastanza presto, lasciata per così dire “sospesa”, una realtà e un problema di cui occuparsi più avanti: tanto risolve tutto la didattica a distanza. Non so giudicare se sia stato giusto o sbagliato (e devo dire che forse non possiamo usare questa categoria di giudizio perché la situazione è così complicata che ci sono aspetti positivi e negativi in entrambe le scelte), ma di sicuro in Italia si è deciso che non ci potevamo permettere neppure di provarci, L’Italia ha deciso che a sostegno dei figli di chi è sempre andato – o è tornato – a lavorare ci doveva andare il welfare, o meglio il welfare famigliare/amicale/televisivo, perché il rischio era troppo alto. Si entrerà in scena a settembre, senza nessuna prova. Da tempo infatti il nostro Paese ha deciso di investire poco sulla scuola, ha deciso che una scuola di qualità, veramente di tutti e per tutti, non ce la possiamo permettere.
Secondo me, è venuto invece il momento di chiederla.
Immaginare la scuola che verrà?
Ora più che mai è necessario ascoltare la voce degli insegnanti, dei dirigenti, del personale di scuola perché è sulle loro gambe che la scuola deve camminare. Ma per ascoltare la loro voce, bisogna dare loro tempo e spazio per sollevarla, occasioni in presenza per confrontarsi, in maniera collegiale, per provare a fare un bilancio, a prendere il buono che c’è stato e a valutare le difficoltà emerse, per capire come risolverle scuola per scuola. Sollevare gli insegnanti dalla compilazione in solitaria di fogli e fogli di griglie, moduli, piani, relazioni – di nuovo davanti a uno schermo – per saziare l’appetito di una burocrazia che nutre solo sé stessa.
Questa emergenza (dal latino emergĕre, «comparire, portare alla luce») ha messo in risalto difficoltà e urgenze e bisogni della scuola, ma soprattutto ritardi nella costruzione della scuola che già le Indicazioni Nazionali del 2012 avevano disegnato. Ritardi dovuti alla mancanza di risorse per la formazione continua degli insegnanti, per immissioni in ruolo continue e rigorose, per l’edilizia scolastica, per segreterie efficienti, per più collaboratori scolastici, educatori, mediatori culturali etc. Sulla riapertura di settembre la voce istituzionale che si è levata per prima non è stata neppure quella della politica, a guidare il passo, bensì quella del comitato tecnico del Governo, che ha delineato un orizzonte molto angusto – ancor più rigido del primo protocollo sanitario francese – dentro il quale provare a muoversi diventa piuttosto difficile.
Se questo resterà l’orizzonte, il quadro dentro il quale immaginare la riapertura, a noi insegnanti resterà ancora una volta la strada della disobbedienza scolastica per riuscire a fare davvero il nostro lavoro: prendere in braccio un bambino piccolo che cade, farsi vicino all’adolescente che parla poco e tutte le volte in cui la relazione e lo scambio entrano in gioco nell’educazione, cioè sempre.
Non sarebbe la prima volta e sono sicura che tutti noi ne abbiamo parecchi, nel cassetto della cattedra, di piccoli inevitabili gesti di disobbedienza, grazie per esempio alle leggi sulla sicurezza e sulla privacy, piombate sulla scuola senza tener conto delle sue specificità: dalla riappropriazione di spazi negati (non si può andare in cortile durante le lezioni; non si possono appoggiare libri sui davanzali per la biblioteca di classe; non si possono mettere i banchi in cerchio per le vie di fuga) a tanti altri piccoli e grandi divieti (niente uscite fuori dall’orario scolastico; non si può fare una torta a scuola per spiegare le frazioni o allevare girini, pulcini e bachi da seta; salire a piedi scalzi su un banco messo sopra la cattedra per attaccare una cartina perché non ci sono più le pericolose scale; compilare centinaia di moduli per fare un calendario con le foto o un video). E sono solo i primi che mi vengono in mente, alibi di tanti insegnanti che non fanno più davvero scuola perché: “e se succede qualcosa?”.
Questa volta però si parla di salute ed è grave essere lasciati soli: sarebbe il momento di prendercela tutti insieme questa responsabilità di ridare respiro e fiducia e coraggio al Paese, immaginando di riaprire le scuole davvero e non come galere. E ricominciare come umanità a venire a patti con la parola rischio perché non possiamo pensare di controllare tutto.
Senza risorse non possiamo immaginare.
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