Ferruccio Parazzoli, Happy hour. Appunti di lettura
Il sabato pomeriggio, in corso Buenos Aires, Milano, è impossibile camminare a passo rapido sui marciapiedi. Per chi abbia fretta di arrivare da piazzale Loreto a Porta Venezia, o viceversa, evitando la calca della MM rossa, è consigliabile prendere una delle vie parallele, sul lato del Lazzaretto, sgombre in qualunque giorno della settimana, dove le lanterne di carta dei ristoranti cinesi, i polli smembrati dei ristoranti indiani, i tam-tam africani, attendono gli avventori di notte.
C’è nella lingua di Ferruccio Parazzoli qualcosa che non riesco a comprendere, e che pure mi affascina. È difficile anche dopo uno spoglio e una spigolatura testuale trovare una qualche esuberanza o movimento azzardato della sintassi. La potenza della scrittura di Parazzolisi comprende nel suo insieme: non è possibile isolarne una parte; non puoi concentrarti troppo sulla storia, o prediligere l’intreccio invece di, appunto, analizzare la lingua. Qualcuno potrebbe dire che Parazzoli rappresenta una sorta di stile mediodi certa nostra narrativa, in realtà – a ben guardare – si potrebbe dire che lo scrittore milanese rappresenta come pochi altri un’interessante eccezione nel panorama letterario contemporaneo. Prendiamo l’ultima fatica di Parazzoli Happy hour (Rizzoli, 2020), di cui abbiamo riportato l’incipit in apertura, nel quale l’autore racconta di una Milano che pare essere contagiata da una epidemia silenziosa, che costringe la gente a suicidarsi. La storia potrebbe avere uno sviluppo di trama complesso, vicino a certe storie di paranoia e di spionaggio, mentre l’intreccio tende in tutti i modi a diminuire questa possibilità; stesso discorso per la lingua e la struttura del racconto.
Possiamo notare l’assenza di qualsiasi tipo di sussulto o di stravaganza, o di asperità; ma una nitida costruzione della frase, una sintassi comune: eppure nonostante, o anzi proprio grazie a questo, il romanzo di Parazzoli ci fa sprofondare lentamente e con calma nei meandri di questa investigazione del male e del contagio. Il segreto narrativo sta paradossalmente nell’equilibrio che lo scrittore raggiunge tra la tensione della storia e la tensione della lingua. Lingua e storia sono da sempre i due poli nei quali si muove il romanzo, o almeno il romanzo degli ultimi decenni.
Potremmo dire semplificando, e ci si perdoni ma è una questione di spazio, che la letteratura italiana si muova, o meglio gli editori cercano di muoversi, o nel solco di Michele Mari o in quello di Elena Ferrante, preferendo di gran lunga la seconda al primo. Questa dicotomia ha fatto sì che sempre meno si concentrasse l’attenzione di scrittori e critici sull’importanza della struttura, ovvero quella tensione tra parola e trama, tra suono e silenzio, che è poi matrice fondante del romanzo. Happy hour lavora invece su questo crinale, è un romanzo di struttura, in cui la lingua e la trama veicolano una architettura ben definita che potremmo definire quella di un romanzo filosofico. A ben vedere questo è rintracciabile dal tema del romanzo il suicidio, il più filosofico dei problemi, e dal testo che fa da contraltare al romanzo di Parazzoli che è La peste di Camus.
Il protagonista del romanzo è un tipico uomo grigio, 50enne o poco più, professore universitario che sta tenendo un corso proprio sul romanzo del nobel francese. Si accinge a scrivere questa storia, perché ne è stato “testimone”. Il romanzo è scritto in prima persona e nasce come un’apparente indagine poliziesca (sottogenere “inchiesta giornalistica”), che però con il passare delle pagine perde la tensione per la detection e sviluppa – quella più classica – della quête; la ricerca di qualcosa che sfugge e che è incomprensibile: quale è il motivo per cui la gente a Milano si suicida? Per quale motivo l’epidemia colpisce alcuni e altri no? Perché muore proprioquella persona? Cosa si nasconde dietro tale ondata di morte? A nessuna di queste domande verrà data una reale risposta; proprio per questo motivo il romanzo iniziato come una sorta di thriller metropolitano diventa altro: una lunga e complessa riflessione filosofica. Il suicidio è un enigma filosofico, perché mescola soggettività / responsabilità sociale; sonda fino alle origini quello che potrebbe essere il concetto di libertà di ogni individuo: esiste un limite alla nostra libertà? Al nostro desiderio di morte? Cosa si nasconde dietro la scelta di un uomo e di una donna che decide di impiccarsi, spararsi, di levare la mano contro di sé?
La radicalità di queste domande si potrebbe enunciare in una sola pagina del romanzo, che secondo me mostra anche tutto il sostrato dostoevskiano che c’è nel romanzo, che Parazzoli non porta mai in superficie, ma che è presente nella figura della donna pazza, vicina di casa del protagonista: una sorta di medium o di profetessa che pone le interrogazioni più abissali.
«La ragazzina che si è suicidata. Era incinta. Si è suicidata. Non ha potuto sopportare, che c’è da meravigliarsi? Di che vive la gente? Ho tentato di credere che vive di Dio. In realtà vive della vita stesa e basta.»
«Non credo in Dio.»
Non è verso, se ci credo o no è da tempo che non lo so più nemmeno io.
[…]
«L’ateismo dei bambini è spaventoso. Il suicidio dei bambini è spaventoso»
Il fulcro della narrazione sta in questo dialogo, in cui metaforicamente Dostoevskij e Camus convivono nella stessa pagina: non esiste una risposta al suicidio dei bambini; è qualcosa di spaventoso che è evocato nel romanzo, ma non viene mai raccontato. Viene in mente la descrizione dei Demoni del suicidio della bimba: l’assurdo della vita e l’assurdo della morte in poche mirabili pagine. La spinta etica di Parazzoli è da rintracciarsi proprio in questa tensione; da un lato un personaggio, l’io narrante che ha perduto Dio, che non si chiede neppure più se crede o meno, e dall’altra quasi ricerca inesausta della possibilità di vivere di Dio .
In realtà non esiste nessuna logica, si potrebbe dire che proprio l’assenza di logica, l’assenza di una relazione tra causa e effetto sia la lingua che Dioparla – non è un caso che la Bibbia non abbia o usi pochissimo, soprattutto nell’Antico Testamento, nessi logici e causali, preferendo la congiunzione “e”. È in ragione di questo che possiamo costatare che nella costruzione della struttura del romanzo Parazzoli, più che creare e cercare connessioni logiche, produca una serie di episodi e situazioni che si accumulano uno dietro l’altroe che trovano come unica ragione d’essere il loro essere poste in successione. Infatti, il romanzo finisce così come era iniziato senza una apparente soluzione al dilemma, in un ritorno alla normalità che non prospetta né redenzione né condanna; assurdo come la vita
Tutto a Milano è tornato alla normalità, come prima, e, come sempre, tutto si ripeterà. Non è passata nessuna crisi economica, solo la paura è stata esorcizzata, la paura del vuoto, del non senso, la paura della paura che ha creato il mostro del morbo.
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