Signora Bovary, coraggio pure. Cercando Emma dal romanzo di Flaubert al film di Chabrol alla rilettura di Maraini
I personaggi letterari migrano di testo in testo. Specie quando diventano collettivamente veri perché la comunità dei lettori vi ha fatto degli investimenti passionali. In Su alcune funzioni della letteratura Umberto Eco rifletteva sui poteri immateriali dei complessi di testi che l’umanità produce gratia sui. Una delle funzioni della letteratura è di educare al fato e all’impossibilità di modificare il destino dei personaggi.
Un’eroina che per cecità non ha capito a cosa andasse incontro è Emma Roualt, la signora Bovary uscita, a puntate sulla Revue de Paris nel 1856 e poi in volume nel 1857, dalla penna di Gustave Flaubert. Emma è una piccola borghese che non sa accettare la realtà, cade in rovina e si suicida. Flaubert riprende qui il tema della prima Éducation sentimentale e scrive il romanzo del disinganno che l’ossessionava sin dall’infanzia: l’urto dei sogni romantici con la realtà quotidiana e il dominio del suo sogno incarnato da un’eroina impari alla propria chimera.
Anche Emma è migrata di testo in testo per quel tramite di riscritture e riletture che va sotto il nome di intertestualità. Esaminare il romanzo flaubertiano riannodando le sue trame intertestuali significa tenere conto di quella che Harold Bloom definiva l’angoscia dell’influenza di cui un autore B fa esperienza quando imita un autore A, specie se tra i due intercorre una variabile X che coincide con l’idea di catena di influenze possibili. Questo concetto è stato ripreso da Umberto Eco in Borges e la mia angoscia dell’influenza: l’oggetto di indagine è il rapporto di influenza fra due autori, A e B. L’equazione che ne deriva si basa su un’influenza triadica: B trova qualcosa nell’opera di A e non sa che dietro c’è X; B trova qualcosa nell’opera di A e lo fa risalire a X; B si riferisce ad X e solo dopo si accorge che X era presente anche nell’opera di A. Capita insomma di leggere un libro mai letto e di accorgersi che lo si conosceva già. Cos’è successo? Quell’opera faceva parte della nostra biblioteca quale magazzino di libri ancora da leggere.
Consapevoli dunque che è difficile sottrarsi all’angoscia dell’influenza, analizzeremo qui tre differenti ipertesti dell’ipotesto flaubertiano: il testo filmico di Claude Chabrol, la rilettura critica che del romanzo ha condotto Dacia Maraini e il testo della canzone di Francesco Guccini, Signora Bovary.
Il primo ipertesto è il testo filmico Madame Bovary, datato al 1991, di Claude Chabrol, esponente di spicco della Nouvelle Vague. La signora Bovary di Chabrol, interpretata da Isabelle Huppert, è affetta da vampirismo e doppiezza. Il vampirismo di Emma è evidente sin dalle prime scene: si punge le dita mentre cuce dei cuscinetti che servono per fasciare la gamba del padre e si succhia le dita compiaciuta. Sin da questa prima scena il regista mostra di attenersi al testo letterario, perché qui sono presenti dei dettagli mimico-visivi che costituiscono il canovaccio per una rappresentazione. Emma nel film ha capelli castano-cenere, occhi blu-neri e veste di celeste come le icone divine. Charles al contrario è moro e robusto, e ha un’espressione da idiota. La contrapposizione tra i personaggi si evince anche dalla scena del ballo nella residenza del marchese di Andervillers: Emma osserva tutto, origlia i discorsi e accetta l’invito a ballare del marchese, mentre Charles è escluso dalla moglie dal giro di valzer perché ad un medico che si rispetti è interdetto danzare. La sposa di Charles d’altronde fa l’attrice mentre recita: Chabrol mette a nudo le tecniche di recitazione proprie di un’eroina da melodramma. Dalla recita della figlia obbediente Emma passa a interpretare la parte della buona moglie e della brava madre di Berthe[1] o quella della donna saggia, che di fronte all’ossequioso Leureux non acquista nulla per poi indebitarsi firmando una cambiale al suono di ogni traversata della porta a sonagli dell’usuraio. La sospensione dell’incredulità però viene meno nel film come nel romanzo e lo spettatore e il lettore sono indotti a non credere che Emma sia come appare. La donna dal canto suo preferisce la dimensione della fantasticheria e lo fa fino a quando chiede a Justin dell’arsenico che beve con l’ingenuità di chi pensa che una morte così sia una cosa da nulla. Inizia invece un calvario che nel film è meno atroce che nel romanzo: Emma diventa una maschera di sofferenza di fotogramma in fotogramma fino a quando chiede uno specchio durante l’estrema unzione. Si specchia incantata, ride istericamente, si ributta sul letto e muore. Charles conclude con ‘è stata solo una fatalità’.
Queste per sommi capi le relazioni tra ipotesto letterario e ipertesto filmico. Ma come dialoga il testo romanzesco di Flaubert con un altro ipertesto, stavolta di critica letteraria – Cercando Emma. Gustave Flaubert e la signora Bovary: indagini attorno a un romanzo di Dacia Maraini – attraverso una tassonomia di episodi riletti dall’autrice de La lunga vita di Marianna Ucrìa? L’opera di Maraini inizia più o meno così: «Emma Bovary è una di quelle persone di casa nella nostra città interiore. Per anni abbiamo sentito dire che Emma è la creatura più amata da Flaubert, tanto da spingerlo a identificarsi pubblicamente con lei: Madame Bovary c’est moi. Eppure nel mio ricordo conservo un sentimento di sconcerto per il modo dileggiante con cui mi veniva fatta conoscere questa donna. Oggi Emma mi appare sì un ostaggio, ma non del marito, bensì del suo autore che la incalza con un accanimento e una tenacia che sfiorano il grottesco». Il proposito dell’autrice è di indagare il rapporto tra lo scrittore e il suo personaggio. Se le lettrici femministe hanno fatto assurgere Emma a portatrice di bandiera che si prende delle sacrosante libertà, Flaubert sembra infatti muoversi in senso contrario rispetto alla sua eroina di carta, come si vedrà più avanti. Per ora basti ricordare che ci sono diversi modi di lettura del romanzo: dal ritratto realista di un’adultera della provincia francese al romanzo sulla ‘comicità del nulla’, dal romanzo realista[2] al romanzo donchisciottesco[3] fino al romanzo sull’androginia.[4] Come dialogano dunque ipotesto letterario e ipertesto critico? Si prenderanno in esame alcuni episodi che costituiscono dei nuclei narrativi del romanzo.
Anzitutto il primo incontro con Emma Roualt, una ragazza ingenua che vive nella fattoria del padre. Emma ci viene presentata come una donna avvenente, dalle unghie bianchissime e dalla pelle diafana, con corpetti azzurri tra i cui bottoni è appeso un occhialetto da tartaruga indossato con la disinvoltura di un uomo. Per scrivere la storia di Emma Flaubert si è ispirato a un fatto di cronaca contemporanea: il suicidio di Delphine Couturier Delamare, travolta dai debiti. Dopo la morte il marito viene a sapere da alcune lettere di lei che la moglie lo aveva tradito.[5] L’ossatura della storia è la stessa, ma non si può non pensare che Flaubert avesse modellato il personaggio su qualcuno che gli fosse più vicino e questo qualcuno è Louise Colet. La poetessa presenta infatti delle affinità con Emma: la tendenza all’esotismo, la spavalderia teatrale, il gusto per le chincaglierie. Emma è inoltre come Louise donchisciottesca e legge libri d’amore, tra cui le opere di Lamartine, uno scrittore per signorine.
Il secondo episodio riguarda la proposta di matrimonio di Charles Bovary, interpretata da Emma come una possibilità di fuga dall’angusto ambiente di campagna. Sin dal giorno delle nozze però la vita coniugale si rivela noiosa, piatte le effusioni col marito, che da sempliciotto qual è reputa la moglie felice. La noia si interrompe con l’invito al ballo nella residenza del marchese di Andervillers: Emma, che ha modo di strofinarsi con la ricchezza, si prepara con la cura di un’attrice al debutto. Tornata a casa ripiomba nella noia. Perché le altre sì e lei no? L’invidia travolge il personaggio che, non essendo in grado di distinguere la sensualità del lusso dalla delicatezza dei sentimenti, si ammala. Segue il trasferimento, voluto da Charles per il bene della moglie, a Yonville-L’Abbaye dove Emma incontra un praticante presso lo studio di un notaio, León Dupuis, con cui avrà una relazione. León non è l’unico amante di Emma: un altro è Rodolphe Boulanger, giovane castellano che ha una tenuta poco fuori Yonville e che intuisce che la donna sia annoiata dalla vita coniugale. Rodolphe le ripropone i cliché del romanzo sentimentale fino a quando la donna si abbandona. L’immagine di Emma è ora trasfigurata dalla nuova realtà di adultera: ‘Ho un amante!’, si ripete, ed entra a far parte di quella legione di adultere che popola i suoi romanzi. I due si scambiano oggetti-feticcio come Flaubert e Louise: delle miniature, un frustino dal pomo d’argento, un medaglione con la scritta Amor nel cor. Emma decide di fuggire con Rodolphe immaginando nuovi stereotipi in cui riconoscersi. Ma l’amante non si presenta ed Emma cade in un delirio che dura quarantatre giorni. Si tratta di un vero sentimento? No, la donna teatralizza l’evento recitando una crisi mistica fino a quando si stanca anche di questo ruolo di martire sulla base un insopportabile fumettismo. Emma sceglie sempre la soluzione peggiore, incapace com’è di conoscere le persone sulla base di parametri oggettivi di valutazione. La mistificazione delle cose a proprio piacimento, che è il bovarismo, ricorre ad una lente deformante che non permette di vedere la realtà. Madame Bovary ritrova nell’adulterio tutti i luoghi comuni del matrimonio e nonostante questo vi si aggrappa in nome di una corruzione che la porterà alla punizione finale. Ma cosa pensa Flaubert dell’adulterio? Da un lato si scaglia contro la demonizzazione cattolica dell’adulterio femminile, dall’altro è disgustato dalla retorica degli amanti: giustifica l’adulterio condannando l’adultera. La colpa dell’adultera sta nel lasciarsi guidare da un’ammirazione naïf per i letterati alla moda e nel vivere l’amore con ingenuità da neofita e tendenza all’indebitamento. L’indebitamento di Emma è simile a quello di Louise, la quale però non chiede soldi a Flaubert. Emma invece li chiede al marito e a Rodolphe, e vende oggetti d’ogni tipo con sangue da contadina fino a quando sopraggiunge l’ordine di sequestro dei mobili in casa Bovary.
Il terzo nucleo narrativo è incentrato sulla morte della donna: Emma, dopo essere riuscita a strappare le chiavi del ripostiglio a Justin, immerge le dita nell’arsenico e se ne riempie la bocca. Ecco un altro errore di valutazione: credere che l’arsenico le avrebbe assicurato una morte indolore. La signora Bovary al contrario vivrà un’atroce agonia. Flaubert ci costringe a seguire ogni fase dell’avvelenamento mediante la tecnica della zoomata sui dettagli più raccapriccianti. Si scontrano scienza e religione al capezzale della morente, tanto che una delle scene più contrastate dalla censura è quella dell’estrema unzione per la quale Flaubert viene accusato di dissacrazione: è invece la descrizione di un corpo ancora fresco entro le strettoie della morte. Questi, gli ultimi istanti di vita della signora Bovary: chiede uno specchio e sente la canzone di un cieco provenire dalla strada – «D’una bella giornata il tepore fa sognar le fanciulle d’amore» –. Emma lo riconosce, esclama: ‘Il cieco!’, ride di un riso atroce, e poi muore. È una scena di esasperato romanticismo e forse di cattivo gusto, ma che serve al narratore per concludere la plateale punizione del personaggio. ‘Emma non esisteva più’, si legge, e Flaubert fa i conti col corpo senza vita della signora Bovary, un corpo che subisce la corruzione della carne, con un fiotto di sangue scuro che fuoriesce dalla bocca. Lo scrittore sembra ammiccare ai suoi lettori – e su questo aspetto si sofferma la difesa durante il processo al romanzo –: vedete cosa accade a chi preferisce la gioia dei sensi ad una più pudica castità? I due capitoli finali sono dedicati al dopo-Emma e al personaggio di Charles alle prese coi creditori e ritratto povero insieme a Berthe. Maraini si chiede se quella viltà di cui viene accusato non sia invece l’espressione di una fedeltà conforme al suo essere pigro. Se Flaubert ce lo descrive dal punto di vista dei cittadini di Yonville – meritevole del tradimento della moglie –, in realtà lo scrittore nutre una segreta simpatia per quella sincerità di cuore. Charles muore letteralmente d’amore dopo aver scoperto le lettere che Emma si scambiava con i suoi amanti. Conclude con disincanto che si è trattato solo di una fatalità.
Le trame dell’intertestualità hanno annodato un ipotesto letterario a due ipertesti, filmico e di critica letteraria. Ma potrebbero legarsi anche ad un’altra tipologia testuale, musicale: «valigie vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie… telecomandi per i quotidiani inferni (…) / (…) ‘un momento, aspetti…’ per non essere mai pronti, signora Bovary, coraggio, pure». Il 1987 è l’anno di Signora Bovary di Francesco Guccini, un album in cui i personaggi coincidono con alcune persone della vita del cantautore. Ma come affermato dallo stesso Guccini a Paolo Talanca la sua signora Bovary, che ricorda La piccola lezione di decenza quotidiana di Montale, è diversa da Madame Bovary di Flaubert: la sua Emma siamo tutti noi. Non siamo all’altezza di essere come l’eroina flaubertiana perché questa vive i suoi desideri e aspetta che il domani le riservi una qualche novità che possa sconvolgere il logorio della sua quotidianità, mentre Emma è presente in noi solo in quanto identificazione del desiderio. Da qui l’espressione, tipica del linguaggio borghese, coraggio, pure.
[1] Emma è una pessima madre. Louise Colet per contro non è una cattiva madre. Ma né Emma, né Louise eguagliano la madre di Flaubert, Anne Justine Caroline Flériot, che propone l’unica maternità possibile, tirannica e arresa. La madre di Flaubert non chiede nulla, ma ricatta col suo silenzio. Lo scrittore teme di far ingelosire la madre, alla cui vita la sua è legata fino a quando la genitrice vivrà. Alla tirannia della madre Flaubert cerca di sfuggire clandestinamente: deve organizzare sotterfugi per incontrare Louise gettandosi infine nella tirannia di quest’ultima.
[2] Per Massimo Colasanti quella di ‘realismo’ non è, tuttavia, un’etichetta adattabile a Flaubert: per lo scrittore francese il canone dell’impersonalità è un antidoto, perché la materia trattata non lo coinvolgesse, anche se in realtà questa materia gli è vicina.
[3] Secondo Marcel Proust, Emma si intossica con la lettura di libri, ma poi ne rimane soggiogata, in quanto non esorcizza le sue letture e non attua una parodia necessaria per ridiventare se stessa.
[4] Per Baudelaire Emma è immaginazione, seduzione e dominio quasi maschile, temperamento equivoco che già si evince quando il personaggio viene educato in convento.
[5] Flaubert per la stesura del romanzo si è avvalso anche di altre fonti, tra cui la biografia di Louise Colet. C’è un’ambiguità nella costruzione del personaggio di Emma: da un lato Flaubert riteneva troppo personale ritrarre qualcuno di propria conoscenza nei libri, dall’altro il primo a denigrare la propria amante nel suo romanzo è stato lui. La pubblicazione del romanzo indispettì la Colet per le numerose coincidenze col personaggio di Emma. Ma non solo. Cinque anni prima di scrivere il romanzo Flaubert ebbe un sogno profetico in cui sono contenuti i germi del rapporto col personaggio di Emma-Louise: il personaggio si fa scimmia dell’autore, che lo uccide. Lo scrittore uccide in Emma la sua formazione romantica, condanna il teatro come emblema di doppiezza e giustizia il suo personaggio, mostrando di averlo ripudiato.
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