Le nuove sfide della cultura: numeri, pubblici e audience development
In Italia, le istituzioni culturali sono affette da una grave malattia, sempre più dilagante: la “tirannia dei numeri”. Solitamente, i primi sintomi che si manifestano sono delle frasi di circostanza quali “i beni culturali sono il petrolio dell’Italia” oppure “l’Italia è un paese che potrebbe vivere di solo turismo”; a seguire, compaiono i temibili numeri, di cui i più autorevoli sotto forma di classifica pubblicata annualmente dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali circa il numero di visitatori e di introiti registrati presso i musei, i monumenti e i siti archeologici statali.
Così, “infettate” dai numeri, lo scopo di queste istituzioni diventa quello di registrare quanti più ingressi possibili, per avere in palio un posto nell’albo d’oro dei musei più visitati dell’anno, una menzione speciale su tutti i quotidiani nazionali nonché l’accesso a cospicui finanziamenti pubblici.
Ironia a parte, la situazione nel nostro Paese è veramente ossimorica; se da una parte ci si vanta spesso di possedere un invidiabile e ricco patrimonio storico-artistico, una storia millenaria e una fucina in continua crescita di offerte creative e originali, dall’altra manca un’adeguata visione strategica e a lungo termine di gestione e progettazione dello sviluppo del settore culturale, in quanto ci si limita a guardare solamente l’aspetto più effimero (ovvero i numeri) e quello più utile (gli introiti).
E il problema è tutto racchiuso qui: questi numeri dovrebbero essere il mezzo e non il fine delle nostre politiche culturali; e, come sottolineato dalla letteratura di settore, essi ci forniscono solamente dati quantitativi circa il numero di ingressi registrati presso una singola istituzione culturale, ma non ci danno alcun tipo di informazione utile circa i visitatori che usufruiscono dei servizi culturali, né di tipo anagrafico – età, nazionalità, livello di istruzione – né di stampo squisitamente qualitativo (che interessi hanno, come mai sono venuti in visita, che aspettative avevano e se sono state soddisfatte, cosa vorrebbero venisse offerto loro in più, e così via discorrendo).
Occorrerebbe, dunque, che le istituzioni culturali avviassero una vera e propria rivoluzione, consistente nello spostare l’attenzione dalle proprie collezioni e dai propri contenuti, adeguando l’offerta – spesso antiquata rispetto ai ritmi della società moderna – a una domanda sempre più eterogenea e multiforme, e mettendo così al centro delle proprie politiche i pubblici, analizzandoli, interrogandoli e venendo incontro alle loro esigenze.
Questa “rivoluzione copernicana dei pubblici”, come è stata definita dalla ricercatrice Alessandra Gariboldi, prende il nome di audience development.
Letteralmente tradotto con “sviluppo dei pubblici”, l’audience development è molto di più; esso è un processo dinamico e interattivo che ha come scopo quello di rendere la cultura quanto più accessibile a tutti in termini di partecipazione attiva e passiva, di programmazione culturale, di educazione, di strategie di comunicazione e di marketing.
In sintesi, l’audience development si propone di realizzare tre grandi obiettivi, che determinano le strategie da adottare all’interno delle organizzazioni culturali, vale a dire il miglioramento della relazione con il pubblico, l’ampliamento del pubblico e la diversificazione del pubblico. A ciascuno dei tre corrisponde una macro-categoria di pubblici, così come suddivisi dagli studiosi: il pubblico attuale (composto da coloro che già frequentano i luoghi della cultura e usufruiscono dei loro servizi e che occorre fidelizzare maggiormente per farli ritornare), il pubblico potenziale (chi vorrebbe partecipare, ma si trova ostacolato dalle così dette “barriere di accesso” – di tipo fisico, economico, sociale – e quindi vi rinuncia; scopo dell’audience development, in questo caso, è tentare di rimuovere questi problemi), e il non-pubblico (chi non usufruisce di alcun tipo di servizio culturale, solitamente in nome di un dichiarato disinteresse; uscire dalla propria comfort zone e provare a coinvolgere una fascia di pubblico mai raggiunta in precedenza è ciò che l’audience development tenta di concretizzare con la diversificazione).
Per fare qualche esempio: a Catania, l’associazione culturale Officine Culturali ha promosso un’attività dal titolo “Monastero Oscuru”, che offre ai visitatori con disabilità visive la possibilità di visitare il Monastero dei Benedettini – patrimonio UNESCO dal 2002, oggi sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania – grazie all’aiuto di operatori museali non vedenti, di appositi plastici disposti lungo il percorso e di audio-guide che adottano la tecnica dello storytelling per raccontare la storia di questo grandioso complesso monumentale; così facendo hanno potuto ampliare i propri pubblici, coinvolgendo chi prima vi era escluso a causa di barriere fisiche. A Torino, invece, il Museo Egizio ha avviato nel 2016 una campagna promozionale dal titolo “Fortunato chi parla arabo”, finalizzata a coinvolgere maggiormente le persone che parlano la lingua araba (che a Torino e provincia superano le trentamila unità) a visitare il museo, applicando loro una riduzione sul prezzo del biglietto, e offrendo percorsi dedicati, con guide, audio-guide e didascalie nella loro lingua; in questo caso, il Museo ha attuato una strategia di diversificazione, sentendo l’esigenza, nonché l’obbligo morale, di rendere accessibili le proprie collezioni, composte da reperti provenienti dall’Africa, alle persone che proprio da quella terra sono emigrati, facendo sì che potessero prendere coscienza delle proprie origini e della propria identità culturale.
Le istituzioni culturali, dunque, non vogliono semplicemente aumentare numericamente i propri pubblici – sebbene da questi possano derivare benefici economici non indifferenti – ma, attraverso quel cambio di paradigma che è l’audience development, tendono a realizzare e a concretizzare, tramite una pianificazione strategica e mirata, la democratizzazione della cultura, in quanto è ormai un assunto certo che la cultura sia un bene e un diritto di tutti, e che il perseguirla serva a raggiungere il welfare culturale.
Seppur utopico come orizzonte in cui muoversi – perché si sa che è impossibile raggiungere il 100% dei pubblici e che ciascuno di noi risulterà sempre il non-pubblico di qualcun altro – investire sulle persone, e non sulle cose, è la nuova frontiera della cultura. Anche perché, in una società sempre più materialista come quella odierna, bisogna costantemente dimostrare da una parte alle istituzioni che i soldi investiti in cultura sono soldi ben spesi, dall’altra ai cittadini che quei servizi culturali sono spesso finanziati con fondi pubblici, dunque con i loro soldi, e anche per questo motivo partecipare ad un’offerta che di diritto appartiene loro è oggi più che mai un dovere morale e sociale del singolo individuo e di tutta la collettività.
Che chi partecipa alla cultura viva meglio all’interno della società è un dato “di fatto”, dimostrato anche dai rapporti BES – Benessere Equo e Sostenibile – promossi dall’ISTAT, attraverso i quali i cittadini valutano la qualità della vita misurandola nei suoi aspetti sociali, ambientali ed economici, e nei quali un ruolo rilevante è rivestito proprio dalla partecipazione culturale, che è presente tra gli indicatori di valutazione.
Eppure, nonostante la democratizzazione della cultura venga propugnata anche a livello internazionale all’interno di importanti documenti quali la Dichiarazione dei Diritti Umani, la Convenzione di Faro e la Dichiarazione di Friburgo, essa risulta nei fatti parzialmente incompiuta, in quanto ancor oggi l’identikit del consumatore tipo è rimasto immutato: adulto, istruito, colto e con buon reddito. E tutti gli altri? Per questo motivo è necessario avviare strategie di audience development, perché solo in questo modo si potranno ridurre le distanze che intercorrono tra l’offerta culturale e la domanda, adeguando la prima alla seconda e rendendo così i cittadini parte attiva del processo culturale.
Il pieno accesso e la completa partecipazione alla cultura promossi dalla democratizzazione della cultura sono ancora obiettivi di là da venire; ma la ripresa del dibattito negli ultimi anni, anche a livello europeo, circa l’audience development fa ben sperare che la cultura abbia una nuova strada da percorrere, che porterà i beni culturali da una miope visione di sterile mercificazione ad una loro piena comprensione e trasformazione in un servizio pubblico che produce valore, benessere, inclusione e coesione sociale.
Una volta un ministro del nostro Paese disse che con la cultura non si mangia; grazie alla lezione appresa dall’audience development, mi piace rispondergli prendendo in prestito le parole di Silvia Costa, membro della Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo, che gli fece eco dicendo che con la cultura si può molto più che mangiare, si può crescere.
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