Stefano Dal Bianco, Una nuova edizione di Ritorno a Planaval
Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco, uscito nel 2001 per Mondadori, è stato ripubblicato da poco per i tipi di Lieto Colle-Pordenonelegge, con una postfazione di Raffaella Scarpa e due interventi dell’autore e di Fernando Marchiori.
Pubblichiamo cinque testi e l’intervento dell’autore Il suono della lingua e il suono delle cose, ringraziando Stefano Dal Bianco e l’editore per la disponibilità.
***
È successo che avevamo rinunciato a sognare, e a riconoscere il profilo e il colore delle cose. Attraverso di noi cresceva la stagione peggiore. Un principio di immobilità aveva assunto i connotati della concentrazione. Pensavamo che rimanere all’erta fosse necessario per non farci trascinare dall’onda della vita altrui. E restavamo fermi, e se qualcuno ci chiedeva: Tu cosa pensi?, noi pensavamo che non volevamo pensare niente.
***
La vacanza
Mi allargo e occupo il tuo posto momentaneamente vuoto
come se fosse la mia libertà ad accogliermi,
ma se tu chiami
da dentro una presenza di lenzuola, ecco
io sono pronto
a stringermi nel sonno, a prendere atto
di quanto sia rimasto, in questo letto,
e quanto sia, di te, rimasto fuori.
***
Il piano
Quando mi stendo sul tappeto del salotto e guardo in alto, a volte c’è una mosca a volte un moscerino che volando descrive traiettorie stranamente geometriche, di colpo e di continuo svoltando con un angolo di solito acuto, e quello che è più strano è che tutto
si compie sullo stesso piano ideale: quello parallelo al soffitto e al pavimento dove sono io.
Non so perché lo faccia. Forse perché così trova il suo cibo, come le rondini, ma perché sempre solo su due dimensioni, senza usare lo spazio?
Veramente gli basta,
e anch’io sono su un piano, il quarto,
vivo nella mia fetta d’aria,
sopravvivo e quando voglio
guardo e respiro dalla finestra.
Anzi, ho comprato un tappeto
e qualche volta mi ci devo stendere,
altrimenti mi sfugge il mio orizzonte.
***
Il vetrino
Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano, inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.
È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno
lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire
lo raccolgo e lo butto»,
e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio
perché non se ne andasse o scomparisse
tra le frange del tappeto o altro.
Ma il bagno libera i pensieri e al momento
di uscire dalla stanza un’altra
memoria ne prendeva il posto,
e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni
è diventato un’ossessione, un’ossessione
all’ultimo secondo regolarmente rimossa.
E oggi mi sono impuntato,
mi sono concentrato più di ieri
e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:
è stata una vittoria graduale
di una memoria su altre memorie.
Ho allungato la mano e con sorpresa
il vetro non ha opposto resistenza:
è stato docile, si è fatto raccogliere
come se per tutto questo tempo
avesse atteso me, il mio intervento.
Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere
per rispetto o per amore l’ho posato
sul nero della scrivania, davanti a me,
e scrivendo lo contemplo e raccolgo
la sua storia di cosa legata alla mia,
e uno stesso appartamento ci contiene.
Sono orgoglioso di averlo salvato
e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.
Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte
lo metto all’aperto e me lo guardo
perché c’è la luna, perché ritorni,
nella chiara altezza di cobalto, il cielo.
***
Lenzuola
Ho due lenzuola vecchie di vent’anni
e una federa a fiori
che tengo in casa per gli amici intimi,
usandole sempre ma ogni volta pensando
e pregando, temendo lo strappo
che potrebbe seguire al lavaggio,
ogni volta congetturando
un utilizzo diversificato dei ritagli
come tendina, fazzoletto, come involucro antipolvere,
come sacca per le pantofole.
I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo
a vederli dormire beati
nel sudario di un passato solo mio
che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta,
grazie a loro, mi tortura.
***
Il suono della lingua e il suono delle cose
di Stefano Dal Bianco
Non è vero che viviamo in un mondo vuoto. Oppure è vero, ma dicendo così non si è fatta abbastanza chiarezza sulla vera natura del nostro malessere: il nostro mondo è fatto male non perché sia privo di significati, ma perché di significati ce n’è troppi. Siamo bombardati dai significati, tutti i giorni, tutte le ore della nostra vita. Passiamo il tempo a interpretare i segni che il mondo ci scaraventa contro, interpretiamo tutto, psicologizziamo tutto e tutti, tutto si trasforma in sapere, tutto ciò che non è riducibile a uno qualunque dei saperi codificati tende a non esistere, perde ogni diritto di cittadinanza. Importa solo ciò che è dicibile, classificabile, scambiabile. E non ha molta importanza la qualità dei significati in questione: siano essi effimeri oppure no, il meccanismo è lo stesso. Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza tra un varietà televisivo, un libro di Habermas o di Cacciari e, al limite, una funzione religiosa o una musica new age: tutto è dominato dai significati.
Io credo che si possa guardare alla storia della società occidentale (non conosco bene le altre) come alla storia della progressiva invadenza dei significati sulle altre modalità di percezione del mondo (modalità anti-ermeneutiche). Credo che l’angoscia di Leopardi di fronte al dominio del commercio ‘spiritualista’ del suo tempo, o, a ritroso, la polemica di Petrarca contro l’aristotelismo, appartengano al medesimo ordine di discorso: siano due tappe della presa di coscienza, da parte di alcuni, dell’enorme posta in gioco nella battaglia secolare tra le istanze mentalistiche (e utilitaristiche) connesse all’uso dei saperi e le istanze, sempre perdenti perché costitutivamente anti-autoritarie, che puntavano allo sviluppo sociale delle facoltà percettive legate ai corpi.
Questa è anche la storia mefitica del declino sociale della poesia, che dopo Dante si è dovuta arroccare in difesa dei sensi, della percezione soggettiva (psicologia), oppure svendere in qualità di ancella di qualche sapere o potere.
La cosiddetta poesia civile, quella più implicata con il mondo dei significati, ha poco senso perché nel migliore dei casi ci dice ciò che già sappiamo, e questo mi pare un compito ben povero per una poesia. Soltanto chi non ha niente da dire si preoccupa di quello che scriverà. La poesia vera non può che nascere da un mondo soggettivo talmente saldo nei suoi presupposti psichici che non ha bisogno di pensare o badare a se stesso, come non ha bisogno di dire “io sto qui e non lì”, oppure “io penso questo e non quello”, ecc. Soltanto chi ha già tutto può permettersi il lusso (necessario) di essere generoso. I poeti assillati dal bisogno di dire qualcosa sono quelli cui manca qualcosa di fondamentale: soggetti non risolti che non sono in grado di provocare una crescita della realtà ma subiscono le proprie idiosincrasie e i propri squilibri. Questi vanno in cerca di qualcosa di troppo effimero e di troppo soggettivo per esserci utili veramente: non escono da se stessi.
Pensiamo invece al mondo di Dante, ma anche di Petrarca di Ariosto di Leopardi: tutto nei loro testi indica la provenienza da una soggettività salda, monolitica e sana, sicura di sé malgrado le apparenze. È soltanto da un mondo di questo genere che noi possiamo imparare e toccare la vera mancanza, ciò che è in grado di toccarci tutti perché appartiene non alla psicologia di questo o quest’altro individuo ma al significato antropologico dello stare al mondo, alla natura delle cose. Potremmo cercare di definire questa mancanza come l’essenza della mortalità, o della temporalità.
Questa mancanza giace al fondo di ogni lingua naturale: è ciò che viene rimosso nel secolare uso comunicativo della lingua. È così che il linguaggio della comunicazione in realtà non comunica granché: la possibilità di una vera comunicazione, di una vera condivisione si è persa per strada; ci si vieta a priori, per sordità verso la lingua, la possibilità di un contatto umano non fittizio. Non c’è contatto infatti se non in presenza della mortalità. È il nostro essere per la morte che ci unisce, ed è la consapevolezza dello scorrere del tempo che conferisce verità ai nostri rapporti, nella dimensione dell’incontro in un comune destino.
Scovare questo fondo mancante nei meccanismi della lingua è il compito dei poeti. I poeti sono coloro che sono abbastanza forti per non farsi distogliere dalle rispettive manchevolezze personali, individuali, e che riescono a concentrarsi, magari solo per qualche frazione di secondo, sull’essenza della temporalità. (È per questo che nelle poesie è così importante il tema della memoria: Mnemosyne è la madre delle muse).
Riesco a distinguere abbastanza chiaramente almeno due ambiti di indagine in questo campo, anche se la distinzione è puramente strumentale, e penso che due siano altresì i modi dell’indagine, gli atteggiamenti percettivi fondanti (questi realmente complementari).
Primo ambito di indagine: l’essenza della temporalità si può cogliere fermandosi. Il rallentamento elocutivo che si ottiene all’incrocio di un particolare ordine delle parole con una configurazione ritmica e un particolare assetto intonativo del verso (o della frase), magari in coincidenza con una sia pur lieve ambiguità semantica, procura una sosta, una leggera implicazione autoriflessiva nella catena fonosintattica, una difficoltà di pronuncia che di solito ha a che fare con un prolungamento ‘artificiale’ della quantità o durata delle vocali. La dose di violenza che la lingua subisce in questo processo dipende dalla poetica dell’autore, dall’ampiezza dello scarto rispetto a un presunto grado zero della lingua. Aggiungerei soltanto che l’esperienza, ai nostri giorni, è tanto più difficile, interessante e meritoria quanto meno le caratteristiche della lingua adottata si distanziano dal registro quotidiano di lessico e sintassi. Quanto minore appare la violenza sulla lingua, quanto maggiore è l’illusione sulla sua naturalezza, tanto più aumenta la possibilità, non solo di rivolgersi a tutti – cioè di rifondare una dimensione comunitaria per la poesia – ma anche di svolgere una funzione socialmente utile insinuando la dimensione del silenzio direttamente nel corpo della lingua di comunicazione e promuovendone la riscossa all’insaputa dello stesso lettore. Credo che questa rivalutazione silenziosa (che non è una nobilitazione) del luogo comune per il tramite dei meccanismi formali sia un passaggio obbligato per gli scrittori impegnati del nostro tempo e che qui, non altrove, si giochi l’istanza di realismo e la valenza ‘civile’ delle nostre opere.
Secondo ambito di indagine: ci si può soffermare sul rapporto tra parole e cose. Il mondo è fatto soprattutto di cose. Le cose non parlano, ma hanno un linguaggio e una loro ragione d’essere. Sono lì a ricordarci che si può stare nel silenzio. Mi accorgo che chi usa con disinvoltura il linguaggio della comunicazione scritta (giornalisti, letterati, filosofi) o orale (chiacchieroni), insomma chi, come si dice, ha ‘facilità di parola’ non solo è generalmente negato all’ascolto della lingua – cioè vive in una dimensione di totale sudditanza nei confronti dell’istituzione linguistica e dei suoi cliché – ma ha, di solito, un pessimo rapporto con gli oggetti d’uso quotidiano: li spacca, li ignora, li tratta male; vede in essi esclusivamente la loro funzione d’uso e spesso, proprio per questo, vive male la loro presenza, ha bisogno di qualcuno al suo fianco che sia in grado di risolvere le questioni pratiche. È il motivo per cui bisogna diffidare della categoria dei poeti inetti, quelli che non sarebbero in grado di attaccare un chiodo al muro o di farsi un uovo all’occhio: sono persone che non amano la lingua. Chi ama la lingua ama le cose, chi sa ascoltare la lingua sa ascoltare il silenzio delle cose. Non c’è amore senza fisicità e non c’è poesia senza un rapporto fisico con le cose e con la lingua, che ne è l’allegoria razionale. Per il tramite delle cose la temporalità entra nella lingua: bisognerebbe toccare le parole come se fossero cose.
E vengo ai due atteggiamenti percettivi che il poeta forte può assumere nei confronti delle cose. È difficile descrivere ciò che avviene esattamente nel cortocircuito tra percezione e scrittura. Credo però che uno dei modi per ascoltare la temporalità insita nelle cose consista in un massimo di concentrazione: l’attenzione si concentra talmente su un oggetto (non importa se fisico o metafisico) da estrarne alcune proprietà inedite. La poesia è dunque il frutto di uno scandaglio in profondità; ma ciò che si acquista in intensità rischia di perdersi nella vastità di un orizzonte poco definito.
L’altro modo o temperamento percettivo, a me più consentaneo, consiste invece nell’acutizzarsi momentaneo di una disposizione ‘distratta’ verso le cose: la distrazione non si oppone all’attenzione quanto alla concentrazione, è insomma attenzione massima e contemporanea verso tutte le cose del mondo. Ciò che si perde in intensità di sensazione si acquista in vastità di orizzonte, in consapevolezza relazionale. In questa disposizione, gli incontri che si fanno con persone, oggetti, animali e sentimenti sono sempre occasionali, casuali, disturbati come nella vita. Per raccontare questi incontri ho scritto Ritorno a Planaval.
2002
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