Basta (oggi) la Scuola?
A Recanati
Giovedì di marzo, accompagno insieme ad altri colleghi quattro seconde classi a Recanati. A inizio anno avevamo concordato in dipartimento un percorso tematico su Leopardi, c’eravamo detti di concluderlo con la visita alla biblioteca.
La giornata è splendida, c’è il sole, l’aria è chiara, anche i miei colleghi sono piacevoli, le lamentazioni dell’aula docenti mi paiono lontanissime. Scendiamo dall’autobus, poi via in fila indiana lungo le mura, «attraversate svelti», ecco l’arco, tutti a destra e giù verso la via. «Qui è dove cadono le noci a Silvia?» mi chiede Ceccagnoli, «bravo, però forza, tra cinque minuti inizia la visita guidata» rispondo, eppure sono contento come lui, sapessi quanto sono contento caro Ceccagnoli. La piazzetta ci accoglie, loro sciamano, io prendo i biglietti e li ritrovo a farsi selfie con il busto di Giacomo, finalmente siamo qui.
Ecco la rampa settecentesca di scale, le cucine, il panciotto di Monaldo e poi via, diritti per quelle stanze, le sue stanze ma da un po’ di tempo anche le nostre stanze, i libri proibiti e quelli noiosi, la bibbia poliglotta ma tutti ad affacciarsi alle finestre, a cercare Silvia e giù per la via, magari arrivasse, la ragazzina con i fiori in mano, alla faccia di Pascoli. Poi le teche, i «ma veramente è scritto a penna questo? Sembra stampato», «io me l’ero immaginato che quella era la scrittura di Ranieri». E ancora la guida che racconta del nubilato eterno di Paolina per troppa cultura «ma c’aveva i baffi, altro che cultura» ride Baldassarri, «l’ablativo assoluto a nove anni prof?» strabuzza gli occhi Tomassoni, appiccicata col naso alle prove nello studio di Monaldo. Le teste di tutti che girano per eccesso di vita, anche quando le scale già vanno a scendere, «riprendete i vostri zaini», ecco lo scappellotto dell’aria fresca e del sole in piazzetta, già sento di essermi intascato e messo nella dispensa dell’io diverse paia di occhi sgranati.
Nel pomeriggio incontriamo i ragazzi del liceo Giacomo Leopardi di Recanati con il loro professore (e amico) Gabriele Cingolani. Ci fanno da guide, ci portano per i luoghi leopardiani della città. Ragazze e ragazzi che raccontano vie palazzi e siepi a ragazzi e ragazze, «basterebbe guardarli» mi dico. Risaliamo sull’autobus, durante il viaggio di ritorno poggio il naso sul finestrino, come Tomassoni. «Ma veramente Leopardi e i loro sedici anni prof?», mi domando. «Basterebbe fare scuola» mi rispondo, «basterebbe fare scuola».
Sull’Atlantico
Il giorno dopo me li ritrovo in classe un po’ assonnati, alla prima ora. «Con l’uscita di ieri e la lezione di oggi chiudiamo il modulo su Leopardi, tanto poi al triennio lo studierete per bene», lo faccio leggendo con loro il Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez. L’ho sempre amata, l’ho sempre letta questa operetta morale. Ci sono stati anni in cui mi sembrava di dovere sbrigarmi a fare il resto del programma giusto per arrivare a queste pagine, per potere dire ai miei studenti, dentro un’aula che per un’ora diventava il vuoto cosmico dell’Atlantico queste parole:
“Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni?”
Per anni la mia risposta per i miei studenti c’è sempre stata, ed ero io a fare dire al Colombo dei miei ragazzi che il viaggio andava fatto, perché era giusto a prescindere, perché la meta era meno importante dell’andare, perché gli uomini di mare e di guerra da sempre sono stati gli unici che davvero abbiano avuto la vita in amore e pregio. Dicevo ai miei studenti che insomma valeva la pena, certo che vale la pena. Ma questa mattina mentre leggo qualcosa si sposta, slitta, scivola in modo improvviso. Sento di puntare a Colombo, al suo coraggio, la sua speranza ma avverto che le parole in realtà mi tirano verso Gutierrez, i suoi dubbi, i suoi fantasmi:
“Vorrei che tu mi dichiarassi precisamente, con tutta sincerità, se ancora hai così per sicuro come a principio, di avere a trovar paese in questa parte del mondo; o se, dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario, cominci niente a dubitare”.
Già, con tutta sincerità, trovare paese in questa parte di mondo, oppure dubitare, capire di essere perduti in un folle volo. Alzo gli occhi dalla pagina: trovare la scuola in questa parte di mondo. Eppure ieri, al ritorno da Recanati, era tutto così giusto, era tutto così chiaro. «Basterebbe fare scuola» mi ero detto sulla via del ritorno. «Basterebbe fare scuola?» mi domando, «basterebbe fare scuola?»
Poche pagine in mano
Non è un periodo di fatica personale. Insegno in un luogo bellissimo, i ragazzi, nessuno me lo toglierà, sono sempre loro, da sempre, fin dall’inizio. Non sono stufo della scuola, sono passati diciassette anni dal primo giorno e l’idea che me ne attendano ben più dà senso e significato alle mie giornate. Ma allora cosa è? Perché dubitare? Provo a rispondermi eppure non riesco a ricentrarmi. Si ammassano frammenti scomposti, suggestioni, barbagli di idee.
Questo Paese che ha esasperato il proprio urlare, la semplificazione brutale del pensiero, l’altro che diventa sempre e necessariamente nemico, sia esso un collega, un genitore, un ragazzo, un diverso. Il colore della pelle, il razzismo, sì, il razzismo. Il racconto degli studenti carnefici, la delegittimazione sociale dei docenti, la scelta politica dell’inutilità della Letteratura, di tutte le materie, della cultura, l’impossibilità del dubbio che rende solidali. Il dogmatismo, la verità rivendicata senza processo, l’impotenza della gentilezza, l’abbandono voluto della dimensione complessa, l’ignoranza esibita. L’abbattimento delle speranze, la mercificazione dell’individualismo, la derisione della solidarietà, del senso della comunità. Ma, peggio di tutto, la tentazione di rimanere in silenzio, nascosti, di sottrarsi all’eccesso delle parole grevi, tentazione che si mischia al sentore acido di lasciare così colpevolmente campo al peggio. Difronte a tutto questo lo spettro della definitiva irrilevanza della scuola e della funzione educativa.
Mi trovo qui davanti ai miei studenti, con queste poche pagine in mano e il dubbio se davvero si possa trovare la scuola in questa parte di mondo. Abbasso gli occhi, «forse non basterebbe fare scuola» mi dico, «non basterebbe fare scuola».
Resistenza, lotta, difesa
Per un attimo sento di essere dalla parte debole del pensiero. Di pronunciare parole che chiunque, in nome del fare, delle «poche chiacchiere, è finita la pacchia dei quattro sofismi delle anime belle», del «parli bene tu, vieni a vedere come è qui» potrebbe ridicolizzare, mettere alla berlina, semplicemente ignorare. Le poche pagine del Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez che tengo in mano iniziano a pesare e infine, complice la voce di chi con quelle parole mosse guerra al senso per una vita intera, mi dico: «stai facendo una cosa contro natura, fare scuola è contro natura».
Sì, forse fare scuola oggi è contro natura. Perché è resistenza contro quella caduta verso il basso che questo tempo sembra avere incorniciato nel pensiero ridotto a slogan, nel risveglio dell’istinto primario e bestiale dell’identificazione del nemico, nella logica del branco che ratifica e consacra la propria verità e che giudica l’impurezza del diverso. Perché è lotta per il mantenimento di convivenze che non legittimino se stesse attraverso i parametri dell’utile, della mercificazione delle vite, dell’uomo che ostenta l’orgoglio di essere lupo all’altro uomo. Perché è infine difesa del valore sacro e umanizzante del dubbio, dell’antidogmatismo, della costruzione di un’idea di verità che sia processo interminato e mai dato. Sì, la scuola è contro natura mi dico, perché nel vuoto cosmico e primordiale che prova ad attrarre l’uomo verso il basso dell’istinto bestiale, da sempre è stata il luogo dove si tesse l’ordine contro il caos, l’accoglienza contro la sopraffazione, la civiltà contro la deriva della barbarie. Da sempre e anche oggi, in Italia, qui, in questo anno scolastico 2018/2019.
Mi trovo allora qui, davanti ai miei studenti, con gli occhi bassi, con queste poche pagine in mano e la domanda se davvero si possa trovare la scuola in questa parte di mondo. «Non basta fare scuola» mi dico, «non basta fare scuola» oggi, in questo tempo e in questo Paese diventato così violento, «bisognerebbe tutti essere scuola. Nelle aule, ma anche in piazza, nella politica. Bisognerebbe tutti essere scuola».
Rialzo di nuovo gli occhi.
«Matita e fotocopia del dialogo sul banco, riniziamo. Coraggio ragazzi, siamo stanchi ma anche oggi leggeremo parole importanti e bellissime. E continueremo a farlo».
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